Il legislatore in assoluto meno rappresentativo della storia repubblicana potrebbe giungere alla riforma della Costituzione in assoluto più stravolgente. Questa è la prima suggestione che si trae dalle notizie sulle proposte di riforma in via di definizione.
Non è mancata in passato l’affermazione che l’eccessiva rigidità della Costituzione ostacolasse una riforma necessaria. In realtà, abbiamo una costituzione a rigidità molto moderata. L’unico vero aggravamento si trova nella doppia deliberazione ex art. 138. Mentre la necessità di ampi consensi è rimasta consegnata a prassi e convenzioni costituzionali, in anni recenti disattese. Tecnicamente, basta la maggioranza di governo pro tempore. Questo è oggi il punto focale dell’architettura dell’art. 138, come hanno dimostrato il centrosinistra nel 2001 e il centrodestra nel 2006. Sono allora decisive le modalità per la formazione in parlamento dei numeri maggioritari. Senza cercare l’enfasi, bisogna capire se dalla volontà del legislatore nasce una Costituzione di tutti, dei più, dei pochi.
È qui che assumono un rilievo cruciale le distorsioni della rappresentatività determinate dal sistema elettorale. Il premio di maggioranza assicura che la parte vincente sia sovra-rappresentata, e quella perdente sotto-rappresentata, secondo un calcolo aritmetico che si sovrappone al voto e modifica i rapporti di forza. La soglia di sbarramento nega la rappresentanza a forze politiche pur presenti nel paese. Dopo quindici anni di bipolarismo coatto, l’astensionismo prende circa un terzo del corpo elettorale. Il primo paradosso è che – stando ai numeri veri – il legislatore che aspira all’onnipotenza è espresso da non più che una minoranza del popolo sovrano.
È singolare che nel deficit di rappresentatività qualcuno abbia visto e veda la premessa di una maggiore efficienza dell’istituzione parlamento. Eppure, proprio questo dicono Veltroni e Morando, nel dibattito sulla fiducia al governo Berlusconi il 14 maggio 2008 rispettivamente nella Camera dei deputati e in Senato. Rivendicano anzi il merito di aver creato le condizioni per riprendere utilmente il dialogo sulle riforme. La determinazione artificiosa del rapporto di forza attraverso il premio di maggioranza, e l’estromissione dei possibili dissenzienti, aprono la via alla decisione. La riforma si avvicina perché un parlamento meno rappresentativo si allontana dal paese. Questo è il secondo paradosso.
Una condizione negativa che non si corregge auspicando ampie intese tra maggioranza e opposizione. Intanto perché le distorsioni investono insieme le due parti, e il loro accordo non le cancella. Ma ancor più perché la riforma della Costituzione è stata assunta in anni recenti nei programmi elettorali e negli accordi di governo. Questo è stato evidente nel caso del centrodestra per temi come il federalismo, in specie fiscale, e la giustizia. La minaccia del “tutti a casa” per l’inadempienza non è stata un mero flatus vocis. Come non è un caso che le maggiori revisioni costituzionali siano state avviate con una iniziativa legislativa del governo.
Ed ecco il terzo paradosso. Come si può pensare di stabilire un produttivo confronto tra maggioranza e opposizione su temi che sono condizione di sopravvivenza per il governo e la coalizione che lo sostiene? Al più, l’opposizione è condannata al ruolo di comprimario, cui spetta la marginale limatura del testo. Le mediazioni e le decisioni di fondo sono fatalmente funzionali agli equilibri di maggioranza. E quale prezzo politico pagherà l’opposizione per aver aiutato la maggioranza a realizzare il suo progetto, con ciò dimostrando di non averne uno alternativo?
Una decisione sostanzialmente di maggioranza, al più marginalmente condivisa dall’opposizione, in assemblee a rappresentatività limitata e distorta, tra l’altro elette con liste bloccate che le popolano di zombies obbedienti a quel che rimane delle gerarchie di partito. È questo oggi il senso concreto dell’approvazione a maggioranza assoluta dei componenti in seconda deliberazione ex art. 138. Come garanzia, certo non il massimo.
In questo scenario l’unico – possibile – temperamento democratico è dato dal referendum. È stato a lungo marginale, per la prassi di approvazioni con maggioranze superiori ai due terzi. Ma nell’esperienza più vicina a noi, la vasta adesione si è avuta solo per riforme ristrette e mirate. Per contro, ampia la riforma, profondo il contrasto. Del resto, il dettato costituzionale preclusivo del referendum fondava la sua ratio sul presupposto di una piena e forte rappresentatività delle assemblee elettive. Invece, in uno scenario di rappresentatività debole e distorta superare la soglia dei due terzi può essere strumento perverso per impedire il riscontro della volontà popolare. Cosa tanto più grave se si rinnovasse il tentativo, già messo in atto nel 2006 in occasione della riforma del centrodestra, di blindare la riforma stessa rispetto a successive e diverse maggioranze, modificando per il futuro lo stesso art. 138.
Se il percorso delle riforme continuerà, si impongono due richieste all’opposizione in parlamento. La prima, che contrasti ogni blindatura della riforma che venisse oggi approvata. La seconda, che non concorra con i suoi voti al superamento della soglia dei due terzi. Anzi, che avvii il referendum ex art. 138 con i suoi parlamentari, come del resto è già accaduto sia nel 2001 che nel 2006.
In Assemblea Costituente, il 14 novembre 1947 Paolo Rossi commentava la procedura aggravata di revisione dicendo che la Costituzione non era da vedere come un masso di granito o un giunco flessibile, ma piuttosto come un “duttile acciaio che si riesce a riplasmare faticosamente sotto l’azione del fuoco e sotto l’azione del martello di un operaio forte e consapevole”. Non sapeva che il fuoco sarebbe stato quello leghista, e l’operaio Berlusconi. La speranza è che la storia – prima ancora che un’opposizione parlamentare debole e incerta – lo mandi in cassa integrazione.