SOMMARIO: 1.- Un progetto ‘dalla parte del potere’. 2. – Presidente della Repubblica e Governo. 3. – Segue: il potere di revoca. 4. – Il Senato federale e la Corte costituzionale 5. – Segue: l’art.58 e la limitazione dell’elettorato passivo.
1.- Un progetto ‘dalla parte del potere’.
Mai il costituzionalismo è stato messo tanto duramente “alla prova” come dallo schema di disegno di legge costituzionale approvato dal Governo: al di là delle singole innovazioni (non tutte da respingere ed anzi talora da approvare), è lo spirito complessivo che anima quel testo a porsi in radicale contrasto con il ‘costituzionalismo’. I suoi connotati essenziali, i principi stessi che lo identificano, sono infatti in gioco.
In particolare nella situazione dei rapporti fra organi costituzionali che il testo prefigura v’è qualcosa di più di un cambiamento della forma di governo, qualcosa di più profondo e radicale che va ben oltre la variazione di un connotato certamente importante, ma non tale da intaccare l’essenza dell’ordinamento, la sua identificabilità e continuità come la forma di governo che non rientra fra i ‘principi supremi‘ considerati dalla Corte quali limiti alla revisione costituzionale1.
Il punto è che nel disegno complessivo risultante dall’insieme dei vari meccanismi escogitati, il mutamento di quei rapporti è così deciso da determinare un’alterazione degli equilibri, di tale portata da incidere sulla stessa forma di stato.
E’ un rilievo fondamentale, che sempre più spesso viene formulato, espressamente o implicitamente. Ciò che preoccupa di queste alchimie costituzionali è l’esito finale: l’uscita cioè dallo Stato di diritto democratico. Non è solo la democrazia, infatti, a risultare annichilita: di essa una parvenza (svuotata di contenuto) in qualche modo rimane; del costituzionalismo, viceversa, non rimane assolutamente nulla.
Che di esso sia negata la stessa esigenza di fondo (da molti di noi vanamente ripetuta, in particolare da Alessandro Pace), sottoporre il potere a regole, appare subito evidente. Il modello proposto non soltanto la ignora, ma tende addirittura a realizzare l’ obiettivo opposto, a liberare il potere da limiti e controlli. L’idea dei ‘freni e contrappesi’ è un ricordo rimosso, anzi esplicitamente ripudiato; il senso stesso del costituzionalismo è interamente perduto.
Il mio pensiero sui risvolti autoritari della corsa al “rafforzamento dell’esecutivo”2 diverge radicalmente dalle opinioni alla moda, il cui modello, già apparso nella legge cost. 1999 n. 1, ritorna ora, aggravato, nel testo governativo che lo trasporta dalle Regioni allo Stato. La cultura che l’alimenta è stata assai ben descritta da Alfonso Di Giovine proprio in questo sito3 e dunque non serve soffermarvisi. L’unica tenue (ma non infondata) speranza è che si tratti di una cultura recessiva, sulla via del tramonto come già qualche segno lascia intravedere al di là di alcune ossessive riproposizioni (segno, anch’esse, direi, della sua imminente crisi). Bisogna però adoprarsi, tutti insieme, con le armi che abbiamo – la parola e lo scritto – affinché quel tramonto sia il più vicino possibile e ai guasti già prodotti non se ne aggiungano di nuovi.
Non mi soffermo troppo, per non ripetermi, su un modello ormai ampiamente analizzato che, prendendo ‘pezzi’ diversi da alcune forme di governo tutte compatibili con lo stato di diritto democratico, costruisce un ’ibrido’ che conduce fuori da questa forma di stato. Il potere del Primo Ministro – che solo falsamente è sottoposto a limiti, ma in realtà ne è privo – è l’antitesi stessa del costituzionalismo e della sua esigenza essenziale di sottoporre il potere a regole per limitarlo ed evitarne l’esercizio arbitrario. La combinazione automatica sfiducia/scioglimento mette nelle mani di una sola persona un potere di ricatto senza uscita, chiudendo egregiamente un cerchio davvero perverso. Assai efficacemente Leopoldo Elia l’ha definita ‘premierato assoluto’4: un ibrido anomalo, estremamente pericoloso5.
L’antitesi col costituzionalismo è già nella collocazione di quelle concezioni: tutte interamente ‘dalla parte del potere’, non ‘dalla parte dei cittadini’. A celarne la natura non vale il fatto che sempre si ammantino di una parvenza democratica, predicando che proprio attraverso quei meccanismi stabilizzanti si tiene fede al mandato degli elettori e si fa decidere direttamente dai cittadini i quali, in verità, sono senza potere. Persino se totalmente scontenti di come sono governati e amministrati, e di chi li governa e amministra, non dispongono di mezzi efficaci per esprimere il loro scontento e determinare un mutamento sia pur lieve, né direttamente, né attraverso mediazioni politiche da quel modello totalmente neutralizzate. E’ assai difficile sostenere che si vuol dare rilevanza ‘giuridica‘ e non solo ‘politica’ alle scelte del corpo elettorale, richiamandosi a Duverger e alla “monarchia repubblicana“, indicata come la forma di governo cui tendono le principali democrazie le quali “compensano…, per esigenza democratica, il crescente rilievo decisionale degli esecutivi con una loro responsabilità più diretta nei confronti del corpo elettorale”6.
A parte la debolezza del richiamo a Duverger – il quale, già in tempi lontani, trovandosi a Roma in una delle prime riunioni dell’Associazione dei costituzionalisti, cui ero presente, dichiarò pubblicamente di essersi pentito delle posizioni sostenute – non si vede, infatti, in che modo e in quali forme questa più diretta responsabilità potrebbe manifestarsi, dal momento che l’obiettivo principale di queste anomale costruzioni è esattamente l’opposto: mantenere in piedi governo e legislatura ad ogni costo, utilizzando meccanismi diversi, in particolare, lo scioglimento anticipato, non tanto per dar voce al popolo (che anzi alle nuove elezioni non si dovrebbe arrivare) ma come “deterrente preventivo” contro chiunque disturbi l’intoccabile Primo Ministro7.
Si tratta invero di meccanismi pensati unicamente per mantenere saldamente in sella chi ci è salito, tacitando la minoranza e le stesse componenti minoritarie della maggioranza, anch’esse totalmente disarmate8. Le dottrine che li esaltano, dimostrano in realtà una forte ostilità per tutto quanto possa imprimere un qualche dinamismo al sistema che vorrebbero immoto, fermamente ancorato al momento del voto e lì definitivamente fissato. Che poi tutto funzioni al peggio non importa; ciò che conta è che non venga alterato l’equilibrio iniziale, neppure di poco, che esso resti immutato e non turbi il ‘libero’ esercizio del potere del Capo. Ma si può irrigidire la complessità e mobilità della politica?9
E’ vana la giustificazione del tener fede al mandato degli elettori quando proprio questi, anche se desiderosi di cambiare una maggioranza disastrosa e di far cessare un’esperienza profondamente deludente, sono costretti a rimanere fedeli a qualunque costo, a quell’iniziale ‘mandato’ (o meglio a subirlo). L’unico obiettivo da privilegiare è, dunque, un governo sicuro, sia pure immobile e inefficiente, al riparo da ogni rischio10. Stupisce dover ripetere, a distanza di decenni, considerazioni sulla distinzione fra stabilità ed efficienza11: il vigoroso sostegno all’idea dello scioglimento come deterrente preventivo alle crisi di governo esigerebbe almeno di chiedersi quale sia il vantaggio – oltre alla stabilità come mera ‘durata’ – del permanere insieme di forze riottose e ostili senza neppure la possibilità di spostamenti interni. Per non parlare poi dell’ipotesi – non del tutto ignota – di una maggioranza efficiente nel peggio, che continui tranquillamente ad operare (magari solo nel peggio) nell’impotenza di tutti.
Anch’io, come Gaetano Azzariti12 posso risalire a critiche formulate contro Progetti usciti da un’altra maggioranza diversa dall’attuale (ma a questa certamente graditi nella sostanza). Già il modello prefigurato per gli Statuti regionali era infatti – e rimane- da rifiutare sebbene non siano forse del tutto privi di consistenza i rilievi sulla ‘diversità’ del livello regionale rispetto a quello statale e sulla minore gravità della sua introduzione nel primo: almeno su questo – che a livello statale il modello autoritario sia ancor più pericoloso – credo proprio non possano esservi dubbi.
2.- Presidente della Repubblica e Governo.
Molti hanno subito rilevato in questo ‘Schema’ una grave carenza di garanzie per le minoranze: una delle più pericolose, sulla quale inutilmente abbiamo da tempo richiamato l’attenzione, riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica, che così com’è congegnata non solo esclude le minoranze, ma, di conseguenza, incide pesantemente sul ruolo dell’alta istituzione di garanzia che ne risulta inevitabilmente neutralizzata.
Il comma 2 dello’art. 83 conserva, dopo il quarto scrutinio, la maggioranza assoluta, ormai del tutto inadeguata a garantire un Presidente indipendente, in grado di contrapporsi alla maggioranza di governo. E’ fin troppo evidente che il mutamento della legge elettorale avrebbe dovuto essere accompagnato da un adeguamento alla nuova situazione dei rapporti politici di tutte le norme relative alle maggioranze. La garanzia non esiste più: chi ha vinto le elezioni può, da solo, con i propri numeri, eleggere il Capo dello Stato a meno che non si elevi la maggioranza, prescrivendo i due terzi fino all’ultimo scrutinio. Il discorso si colloca in quello più vasto delle garanzie, dei limiti e freni, del ruolo costituzionale della minoranza e della sua tutela, quindi vale per tutti i casi in cui la maggioranza assoluta inizialmente richiesta è rimasta tale nonostante il mutamento della situazione politica: in primo luogo per la revisione costituzionale. Non può essere accettato che l’art.138 su questo punto resti invariato, tanto più che il referendum è consentito comunque.
Benché presente in Progetti importanti formulati in questa legislatura13, temo che l’elevazione della maggioranza non verrà inserita. Sulle conseguenze, gravissime, dell’eliminazione del Presidente della Repubblica come istituzione di garanzia, ci siamo in molti da tempo soffermati. L’estromissione anche formale del Capo dello Stato dallo scioglimento anticipato è ulteriore consacrazione di quel pensiero avverso al ‘costituzionalismo’ di cui inizialmente parlavo. Il suo obiettivo, anche qui, si rivela chiaro: liberare il potere da ogni possibile limite. Proprio in nome dei ‘limiti’ ho combattuto sempre l’idea dello scioglimento come potere di un organo solo, qualunque esso sia: fino a poco tempo fa per alcuni, il Capo dello Stato14; sono egualmente contraria all’idea di collocarlo interamente nelle mani del Primo Ministro15.
Benchè nel sistema parlamentare firma e controfirma giochino entrambe un ruolo essenziale, proprio in funzione di garanzia, positiva è invece l’eliminazione della controfirma dal rinvio delle leggi e dai messaggi del Presidente. In questa funzione importante, anzi decisiva – una funzione essenzialmente di alto richiamo e di denuncia – forse la sola che nel disegno prefigurato dal testo governativo rimanga con qualche significato al Capo dello Stato, è indispensabile almeno la sua libertà da condizionamenti diretti da parte degli stessi soggetti cui si dirige. Condizionamenti diretti, ho precisato; quelli indiretti sono già impliciti nella maggioranza necessaria per la sua elezione, che possono farne un uomo di parte e dunque, sono tanto forti e decisivi da rendere in verità del tutto astratta la possibilità che egli faccia sentire la sua voce in dissenso con chi governa. Tuttavia, poiché la funzione può rafforzare la dignità e il coraggio della persona investita dell’alta responsabilità, per l’ipotesi in cui, nel minaccioso scenario futuro, un Presidente volesse far sentire la sua voce critica, è bene che sia formalmente nelle condizioni di maggiore libertà.
L’eliminazione della controfirma dal rinvio e dal messaggio resta quindi importante e positiva. In questi giorni, del resto, di fronte a qualche invocato rinvio, qualcuno è giunto infatti a ipotizzare il rischio di un rifiuto di controfirma!
3.- Segue: il potere di revoca.
Quanto al Governo, le gravi ragioni che stanno alla base dei rilievi che ho mosso all’inizio basterebbero, da sole, a far bocciare il Progetto. In questo quadro, interamente negativo, senz’altro positiva è la previsione espressa del potere di revoca dei ministri da parte del primo Ministro. E’ mia opinione che questo potere – esercitato, formalmente , dal Presidente della Repubblica che emana il decreto (e questo dovrebbe rimanere, anche per la nomina) – sia già ora da considerare consentito16, a parte le difficoltà politiche, possibili ma non sempre necessariamente presenti nella situazione attuale, certamente diversa da quella passata17. Non ha senso volere un governo tendenzialmente di legislatura e, insieme, impedire a chi ne è alla guida di revocare ministri che ne contrastino l’attività, oppure costringerlo (il caso Mancuso insegna) a passare attraverso la via ben più traumatica della sfiducia individuale, anziché provvedere direttamente (sempre mediante un atto del Capo dello Stato). Rispetto agli altri sistemi parlamentari – ove quando il Primo Ministro invita un ministro alle dimissioni l’invito è sempre accolto (sicché vale, in sostanza, come una revoca) – bisogna considerare che nel nostro sistema è assai raro che un componente del governo accetti l’invito e rinunzi alla carica (anche se qualche caso recente si segnala).
Da ultimo, sottolineo positivamente la riconferma, nell’art. 95 Cost, dell’esistenza di una riserva di legge per il numero, l’organizzazione e le attribuzioni dei ministeri. Qualcuno riteneva infatti che fosse stata eliminata!
4.- Il Senato federale e la Corte costituzionale.
Nella parte relativa al Parlamento è certamente positiva la riduzione del numero dei componenti di entrambe le Assemblee. Ancor più apprezzo – contro l’opinione di non pochi colleghi e amici – che, nel testo uscito dal Consiglio dei Ministri, anche il Senato sia eletto dai cittadini e non sia invece espressione dei governi (e dunque delle maggioranze) regionali. Inutile sottolineare i rischi della diversa soluzione, rischi per il pluralismo e gli equilibri politici. Per la medesima ragione sono soddisfatta del sistema proporzionale indicato nello ‘Schema’ (non certo dei limiti all’elettorato passivo, di cui subito dirò). Ciò sarebbe di estrema importanza non solo per l’organo in sé, ma pure per le ricadute sulla Corte costituzionale.
La composizione del Senato, così come prevista nella prima stesura del d.d.l. governativo, pare infatti alleggerire almeno in parte le preoccupazioni per la progettata composizione della Corte costituzionale. I due discorsi sono strettamente congiunti; a parte la questione dell’aumento del numero dei giudici (di certo criticabile), non v’è dubbio alcuno sulla diversità assoluta che esiste fra l’attribuire il potere di eleggere una quota di membri della Corte costituzionale ad uno dei due rami del Parlamento che sia di diretta derivazione popolare allo stesso modo dell’altro, rappresentativo delle diverse tendenze presenti nel corpo elettorale e, viceversa, l’attribuirlo ad una Camera delle Regioni emanazione dei governi (o comunque delle maggioranze) regionali.
I piani di valutazione si spostano completamente: positiva nel primo caso (anche perché un’Assemblea così eletta non potrebbe avere connotazioni tanto peculiari rispetto all’altra), la valutazione non può che essere negativa nel secondo.
Sembra, però, che proprio l’elezione popolare venga ora, dopo il 10 ottobre, contestata e si ritorni all’idea di un Senato espressione dei governi (o dei ‘Governatori’?) regionali. Ma allora, se i Senatori non saranno più eletti direttamente, ma, almeno in parte saranno espressione dei governi regionali e quindi delle sole maggioranze, il discorso cambia radicalmente. Non solo il sistema penalizza ancor più le minoranze (cosa gravissima) diminuendo ulteriormente il peso della rappresentanza e aggiungendo così alterazione ad alterazione – altro che cittadini che governano! – ma si travolge il ruolo stesso della Corte costituzionale. Non posso che rinviare, qui, alle considerazioni di Gaetano Azzariti18 e all’opinione unanime dei Presidenti emeriti della Corte costituzionale espressa chiaramente nell’incontro del 13 ottobre19. I motivi di critica sono stati diversi: la rottura dell’unità attraverso l’introduzione di membri che esprimono realtà territoriali parziali, l’aumento del numero dei giudici che (fra l’altro) rende più problematica e difficile la collegialità, la sproporzione fra i membri eletti dalla Camera dei Deputati (tre) e i membri eletti dal Senato federale (sei), il rischio grave per l’indipendenza dell’organo, la sua politicizzazione. Il punto più critico, a mio avviso, è proprio l’ultimo e forse costituisce la sostanza vera della proposta che, dietro l’apparenza e l’alibi del ‘federalismo’, tenta di nascondere il vero intento che l’ispira: controllare il giudice delle leggi e dei conflitti costituzionali attraverso l’aumento dei membri legati alla politica (nove, sommando quelli eletti da Camera e Senato). Mettere, insomma, le mani sulla Corte.
Apprezzabili, invece, (a migliore garanzia d’imparzialità e indipendenza) mi sembrano i divieti previsti per i giudici costituzionali una volta cessati dalle funzioni. Le tentazioni, si sa , non si possono seriamente escludere per tutti in ogni circostanza!
5-. Segue: l’art. 58 e la limitazione dell’elettorato passivo.
Anche l’apprezzamento positivo per l’elezione popolare diretta con sistema proporzionale dei Senatori (forse già tramontata) verrebbe tuttavia meno di fronte al nuovo art. 58, davvero inammissibile laddove riserva l’elettorato passivo a coloro “che hanno ricoperto o ricoprono cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno della Regione, o sono stati eletti senatori o deputati nella Regione”. E’ senza dubbio una forma inaccettabile di collegamento col territorio che annulla ogni possibile pregio del sistema. Al di là di ogni altro rilievo giuridico (e molti ne sono venuti anche dai Presidenti emeriti della Corte costituzionale nel Convegno già menzionato) la soluzione è già pessima in quanto riduttiva delle possibilità di nuove partecipazioni politiche che, anzi, radicalmente esclude. Ogni chance viene infatti negata a chiunque estraneo alla politica attiva sia ora intenzionato a parteciparvi, tagliando fuori così il contributo di esperienze nei diversi settori (culturale, imprenditoriale, professionale, della fabbrica, del commercio, della sanità, dell’agricoltura, dell’economia ecc.) che potrebbe essere decisivo per migliorare una situazione non eccellente.
Come può aver approvato siffatta esclusione il Presidente del Consiglio, con il suo importante passato d’imprenditore, a lungo estraneo a funzioni politiche nelle quali, poi, è rapidamente entrato con così largo successo? Questo rimane incomprensibile.
Un’altra ragione forte che ho già messo in evidenza20 milita contro questa disposizione. Una ragione che ritengo primaria, in quanto incide su valori costituzionali di fondo determinando un’ulteriore riduzione della parità di accesso alle cariche elettive21.
Le donne che attualmente “ricoprono cariche pubbliche elettive”, come si richiede per l’elettorato passivo nel nuovo Senato federale, sono invero assai poche sicché l’imposizione di un simile requisito non può che aggravare pesantemente il divario esistente fin troppo marcato. Già in partenza, infatti, per effetto dell’art. 58 il numero delle donne candidabili al Senato si presenterebbe ben inferiore rispetto a quello degli uomini, e dunque, anziché diminuire, la distanza fra i sessi negli organi rappresentativi diverrebbe incolmabile. Ritengo pertanto sicuramente illegittima, anche sotto questo profilo, la disposizione sui requisiti perché, ostacolando la parità di accesso dei due sessi alle cariche elettive (in violazione degli artt. 3 e 51 Cost.), urta contro l’eguaglianza: un “principio supremo “ cui neppure una legge costituzionale può derogare, come ha ripetutamente affermato la Corte.