1. All’inizio dell’ottobre 2006 la Commissione europea ha deciso di sostenere nuove iniziative della “società civile” per promuovere il dialogo e il dibattito su questioni relative all’UE. In particolare, ha deciso di finanziare con 4,5 milioni di euro alcuni progetti paneuropei realizzati da organizzazioni senza scopo di lucro diretti a: 1) promuovere la «messa in rete» dei cittadini dell’UE e la loro partecipazione al dibattito sull’Europa, secondo quanto previsto dal Piano D della Commissione; 2) raccogliere in maniera ampia e qualitativamente adeguata le opinioni dei cittadini; 3) fornire analisi dei contributi dei cittadini che possano offrire elementi utili ai decisori politici. Tali progetti troveranno attuazione per tutto il 2007.
2. Questa decisione della Commissione è parte integrante del c.d. ‘Piano D’ per la democrazia. Ma cos’è il Piano D?
Il Piano D nasce all’indomani dell’esito negativo dei referendum sulla “costituzione europea”, svoltisi rispettivamente in Francia e in Olanda.
Il Piano D è l’oggetto di una Comunicazione della Commissione europea COM (2005) 494 del 13.10.2005, e, precisamente, della Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, dal titolo “Il Contributo della Commissione al periodo di riflessione e oltre: Un Piano D per la democrazia, il dialogo e il dibattito”.
Il Piano D, si potrebbe dire, è una specie di Piano Marshall della democrazia, un tentativo di operazione di salvataggio del rapporto tra istituzioni europee e cittadini, rapporto che – come ammette la stessa Commissione – è poco democratico.
Non è questa la sede per rimettere al centro della riflessione la questione, tuttora irrisolta, del deficit democratico dell’Unione. Può essere sufficiente attenersi all’autodiagnosi dell’organo operativo più incisivo e dinamico del complesso istituzionale europeo, la Commissione appunto, la quale ammette che un problema, in tal senso, esiste e che, in qualche modo, occorrerà risolverlo. In proposito, al punto 2 della Comunicazione, p. 3, si fa esplicito riferimento alla necessità di «mettere fine alla scaricabarile reciproco tra Stati membri ed istituzioni europee» (nella versione inglese del documento si parla di «ending the blame-game, both by Member States and the European institutions», di porre fine, cioè, al gioco del biasimo reciproco tra Stati membri e istituzioni europee).
Ci si vuole superficialmente soffermare, invece, sul metodo di ‘democratizzazione’ che il Piano D promuove e sul linguaggio usato dalla Commissione per descrivere i tratti salienti di questo progetto. Questioni di metodo che, però, assumono, di riflesso, un significato sostanziale relativamente all’idea di democrazia (la ‘D-Idea’, potremmo dire in questo caso) che le istituzioni europee sembrano coltivare.
Lascia interdetti non tanto il fatto che la questione democratica dell’Unione possa essere affrontata e risolta, dal punto di vista della Commissione, attraverso l’elaborazione di un apposito Piano. Ciò che lascia interdetti, leggendo il documento della Commissione, è che questa idea di Piano si inserisca in una vera e propria strategia di marketing per “vendere” ai cittadini europei il “prodotto” “democrazia europea”.
3. Per non essere tacciati di estremismo interpretativo può essere d’aiuto analizzare alcuni passi, tra i più significativi, della Comunicazione della Commissione.
Al punto 2, “Obiettivi del Piano D”, si legge che: «Il Piano D si affianca al Piano d’azione relativo alla comunicazione sull’Europa, destinato a perfezionare la presentazione delle attività della Commissione al mondo esterno, ed al Libro bianco sulla strategia di comunicazione e la democrazia (…)». Non si può fare a meno di notare la vicinanza di questo testo al linguaggio pubblicitario, in cui il prodotto finito (l’attività delle istituzioni europee, il funzionamento dell’ eurosistema) viene presentato all’esterno, al “mercato”, accompagnato dalla preoccupazione principale dell’ “agenzia” che lo lancerà: la scelta della strategia di comunicazione vincente perché quel prodotto si imponga sul mercato, abbia successo presso il pubblico cui si rivolge e, infine, venga “comprato” dal maggior numero possibile di consumatori.
Nel passo successivo si parla, espressamente, di un costante calo del «gradimento pubblico dell’Unione europea» (p. 3).
La questione del consenso, in certi punti del documento della Commissione, si trasforma nel problema di come individuare dei «gruppi target» («pubblico target», «target audiences», nella versione inglese, p. 3) non ancora raggiunti, non ancora colpiti (target è il bersaglio) dal “messaggio democratico”: «La Commissione è convinta che il dibattito non debba essere limitato ai leader politici ed ai tradizionali soggetti in causa, e concorda con l’opinione dei capi di stato e di governo, secondo cui questi dibattiti dovrebbero coinvolgere “la società civile,le parti sociali, i parlamenti nazionali e i partiti politici” ma crede anche all’utilità di ascoltare determinati gruppi target che non sono stati raggiunti durante le campagne referendarie, come i giovani o i gruppi minoritari. Non bisogna infine dimenticare che i dibattiti saranno coronati da successo solo coinvolgendo nel processo i mass media, soprattutto la televisione. Anche internet è di importanza fondamentale per stimolare il dibattito» (pp. 3-4).
Naturalmente come in ogni campagna pubblicitaria o vendita di prodotti che si rispetti, non può mancare il processo di feedback che misura il grado di soddisfazione degli acquirenti (punto 3.3., pp. 6-7).
4. La preferenza della Commissione per questo tipo di categorie analitiche (categorie di solito utilizzate nei settori di marketing delle aziende) e per questo tipo di linguaggio non è casuale.
La Commissione, infatti, insiste molto sulla circostanza che la questione della “democrazia europea” dipenda in gran parte dalla cattiva percezione che i cittadini hanno dell’operato delle istituzioni comunitarie. Si tratterebbe, cioè, di un difetto di comunicazione. Il problema dell’ordinamento europeo sembra essere non tanto quello della legittimità democratica delle istituzioni, quanto, piuttosto, quello della errata impressione, da parte dei cittadini, di una scarsa legittimità del processo politico europeo. Ad esempio, si legge che «per contrastare la scarsa partecipazione dei cittadini europei a sistemi politici percepiti come privi di legittimità, è necessario rafforzare, a tutti i livelli, il senso di partecipazione e coinvolgimento dei cittadini nell’ideale europeo» (punto 4.2.2., pp. 9-10); oppure: «il calo della partecipazione alle elezioni politiche e amministrative ha incentivato l’impressione di una carenza di legittimità del processo politico. In particolare, alle ultime elezioni per il Parlamento europeo la quota di votanti è stata molto deludente» (punto 4.2.4., p. 10).
Il tutto si risolverebbe, dunque, migliorando la “comunicazione” tra cittadini ed istituzioni. Ma è proprio così? La Commissione non sta, forse, confondendo l’effetto con la causa? E se i cittadini europei più che interessati a riflettere sul loro deficit cognitivo fossero maggiormente interessati a riflettere sulla effettiva democraticità delle istituzioni europee, data, nel discorso della Commissione, per presupposta? È una possibilità.
Certo la Commissione europea deve partire da quel presupposto. Non è detto, però, che non possa, nei suoi stessi atti, problematizzarlo. Non è detto che, al di là del Piano D, non si possa riaprire, senza schematismi, un dibattito sulla ‘costituzionale democraticità’ delle istituzioni europee. Il nodo da sciogliere è a monte. Di che tipo di assetto costituzionale si sta parlando? Esiste una concordanza ragionevole tra le costruzioni teoriche dei giuristi e gli atti normativi dell’Unione europea, atti formali dei suoi diversi organi?
Il Piano D è un tentativo. Ma un tentativo che non si basa, per quanto è dato vedere, su categorie “giuridiche”. Categorie, cioè, costruite, a loro volta, su concetti “giuridici”. Come si concilia il concetto di partecipazione dei cittadini con l’idea che le istituzioni europee debbano “indurre” a praticare una “cittadinanza attiva” mediante l’individuazione di fasce di pubblico più recettive nei confronti delle proposte politiche dell’Unione? (magari proprio i “giovani”, target di pubblico maggiormente sensibile alle novità, pp. 3 e 11, punti 2 e 4.3.3.).