La Comunicazione COM (2006) 177, 26 aprile 2006, della Commissione europea, che qui si presenta ai lettori, ha per oggetto i «servizi sociali di interesse generale» (SSIG). Questi servizi, pur differendo da un paese all’altro, possono comunque comprendere settori comuni, quali l’edilizia popolare, l’assistenza all’infanzia, i servizi alle famiglie o alle persone bisognose, i percorsi di formazione professionale o di assistenza linguistica agli immigrati, nonché tutte quelle prestazioni erogate nel settore della sicurezza sociale complementare in cui operano le organizzazioni mutualistiche e previdenziali volte a coprire i rischi da incidenti sul lavoro, invecchiamento, invalidità, ecc. (p. 5). Non vi rientrano, invece, – come espressamente affermato nel documento – i servizi sanitari, che fanno parte di un’altra iniziativa a sé stante della Commissione. (p. 3)
La Commissione ripropone qui le coordinate teoriche e operative sul tema già tracciate nel Libro Bianco COM (2004) 374, 12 maggio 2004, sui servizi di interesse generale, in cui si annunciava l’adozione di un approccio sistematico per l’identificazione e la ricognizione delle caratteristiche specifiche dei servizi sociali di interesse generale; essa, inoltre, richiama il Programma di Lisbona come modello di sviluppo sociale e fa esplicito riferimento al voto del Parlamento europeo del 16 febbraio 2006, sulla c.d. ‘Direttiva servizi’ (meglio nota come ‘Direttiva Bolkestein’).
Come di solito avviene nei documenti della Commissione, all’inizio si respira un’aria di grande ‘libertà’ nel disegnare l’armonioso «Community framework» che dovrà fare da sfondo istituzionale alla materia trattata, così come si sprecano le enunciazioni di valorizzazione ‘storica’ degli istituti trattati, di lì a poco, però, segue un brusco risveglio ‘giuridico’, quando si tratta di individuare gli effettivi schemi normativi e giurisprudenziali da applicare e di cui tenere conto per regolare l’oggetto prescelto. Questo documento non fa eccezione.
Anche qui la Commissione ricorda che, alla luce del principio di sussidiarietà, gli Stati membri e le pubbliche autorità nazionali sono liberi di individuare e di definire – al livello di intervento che loro compete – l’interesse generale sotteso a tali «servizi sociali» (p. 3). Ma, già nello stesso paragrafo, la Commissione si preoccupa, da un lato, di far rientrare la categoria di tali servizi nel più ampio genere dei «servizi di interesse economico generale» e dunque di servizi, per principio, sottoposti alle regole della concorrenza e del mercato secondo la legislazione comunitaria («Member States are free to define what they mean by services of general economic interest, or in particolar by social services of general interest», p. 3), dall’altro lato, qualche riga prima, si affretta a sottolineare come il riferimento giuridico indispensabile a inquadrare la nozione di «servizio sociale di interesse generale» resti, in ogni caso, l’art. 16 TUE («This communication should be seen in the context of the shared responsibility of the Community and of the Member States for services of general economic interest, established by Artiche 16 of the EC Treaty», p. 3).
L’art. 16 TUE dispone, testualmente, che: «Fatti salvi gli articoli 73, 86 e 87, in considerazione dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, la Comunità e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione del presente Trattato provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni che consentano loro di assolvere i loro compiti». Questa disposizione si può suddividere in tre parti. La prima è costituita da una riserva, in forza della quale sono «fatti salvi gli articoli 73, 86 e 87» del TUE (e, cioè, gli articoli che, in materia di pubblico servizio, stabiliscono la regola ferrea generale del libero scambio e della libera concorrenza); la seconda è, in fin dei conti, una dichiarazione di principio (riconoscimento dell’importanza valoriale dei servizi di interesse economico generale); la terza, dovrebbe essere, almeno in apparenza, la parte propriamente prescrittiva (il funzionamento di tali servizi deve essere tale che Stati e Comunità possano, ciascuno secondo le rispettive competenze, assolvere i loro compiti). In realtà, quest’ultima parte non significa molto se non si decodifica proprio quella riserva iniziale. È quella riserva la parte più significativa dell’art. 16 del TUE, qui richiamato dalla Commissione per dare veste giuridica alla nozione ‘derivata’ (derivata dalla nozione di «servizio di interesse economico generale») di «servizio sociale di interesse generale». È stato lucidamente osservato che, con quella riserva, «si chiarisce che la norma non può essere utilizzata per modificare la portata delle disposizioni che fino ad oggi hanno guidato l’intervento comunitario in materia di pubblici servizi. Ne è in partenza interdetto quindi un uso atto a frenare la spinta liberalizzatrice della Comunità e del diritto comunitario anche nella sua interpretazione giurisprudenziale. Vale a dire che in nessun modo è messo in discussione l’equilibrio esistente tra le regole della concorrenza e le eccezioni basate su esigenze di interesse pubblico, frutto dei principi del Trattato CE come applicati dalla Commissione e interpretati dalla Corte» (G. ORLANDINI, Sciopero e servizi pubblici essenziali nel processo d’integrazione europea. Uno studio di diritto comparato e comunitario, Torino, Giappichelli, 2003, p. 345).
L’interesse generale ‘comunitario’ non è l’interesse ‘pubblico’: esso non precede il mercato, ma viene definito a partire dal mercato. È un interesse sempre valutabile in termini economici, perché financo il c.d. «servizio universale», pensato in ambito comunitario come espressione massima e idealtipica dell’interesse generale, nasce con l’intento «di tutelare la libera concorrenza, e di difendere il liberalismo dai suoi stessi eccessi» (G. ORLANDINI, op. cit., p. 339). Scopo, infatti, del «servizio universale» è «esattamente quello di estendere i benefici effetti del mercato a tutti, indipendentemente dal loro status» (G. ORLANDINI, op. cit., p. 342).
I «servizi sociali di interesse generale», di cui qui ci si occupa, non sfuggono a questa logica. Essi sono una species del genus «servizi di interesse economico generale», e come tali, dipendono dalle dinamiche del mercato. Qualificarli come “sociali” ha il significato, per la Commissione, di omaggiarli in quanto portatori – per usare un espressione ‘celebrativa’ che si rinviene nel documento – di un «legato storico» («they are not for profit and in particular to adress the most difficult situations and are often part of a historical legacy», p. 4). Indicativo, in tal senso il «trend di modernizzazione» dei servizi sociali che la Commissione promuove, osservando i cambiamenti cui quegli stessi servizi sono sottoposti ad opera dell’azione liberalizzatrice dei governi degli Stati membri. Un «trend» che, da un parte, vede un massiccio trasferimento gestionale ed erogatorio dei servizi sociali dal settore pubblico al settore privato, con le autorità pubbliche che diventano regolatori, guardiani della competizione regolata e dell’effettiva organizzazione a livello nazionale, locale o regionale («the outsourcing of public sector tasks to the private sector, with the public authorities becoming regulators, guardians of regulated competition and effective organisation at national, local or regional level», p. 5); e, dall’altra parte, registra la circostanza che una crescente percentuale di servizi sociali, finora gestiti direttamente dalle autorità pubbliche, siano, sempre di più, all’interno dell’Unione europea, sottoposti alle norme comunitarie sul mercato interno e la concorrenza («…a growing proportion of social services in the European Union, until now managed directly by the public authorities, now come under the Community rules on the internal market and competition», p. 6). E quando la Commissione si rende conto che la distinzione tra «servizi di interesse economico generale», «servizi sociali di interesse generale», «servizi di interesse generale» (anche perché, sotto la vigenza del diritto comunitario, i servizi sociali non costituiscono una categoria di servizi legalmente distinta dai c.d. “servizi di interesse generale”, «although, under Community law, social services do not costitute a legally distinct category of service within services of general interest», p. 4) potrebbe creare incertezze o apprensioni nei destinatari delle norme (anche per improbabili oscillazioni giurisprudenziali), opta, senza mezzi termini, per un uso chirurgico del rasoio di Occam in materia, concludendo che: «tutti i servizi nel campo sociale possono essere considerati “attività economiche”», richiedendo, perciò, l’applicazione delle norme sulla libertà di stabilimento e di libera concorrenza, ex artt. 43 e 49 TUE («It therefore follows that almost all services offered in the social field can be considered “economic activities” within the meaning of Articles 43 and 49 of the EC Treaty», p. 6).
In questo contesto, il “sociale”, quello propriamente detto, si riduce – quando va bene – al “solidale” e alla buona volontà dei singoli cittadini, allo sforzo autoindotto della c.d. società civile («the partecipation of voluntary workers, expression of citizenship capacity», p. 5), e, qui, trova massima espansione l’involucro avvolgente della sussidiarietà orizzontale. Ciò, però, non solo delegittima qualsivoglia azione politica pubblica, ma impedisce, altresì, «la piena realizzazione della cittadinanza democratica attiva, la sola in grado di garantire i diritti del singolo nella sua qualità di cittadino, e non semplicemente nella sua qualità di prossimo» (I. MASSA PINTO, Sussidiarietà, in Nuvole, n. 25, 2005, p. 156). “Sociale”, ancora una volta, per la Commissione, è ciò che residua dal gesto compassionevole del mercato. ‘Nuovo’ o ‘vecchio’ mondo, allora, quello dei «servizi sociali di interesse generale» tratteggiato dalla Commissione?