Sono state date letture diverse dell’asciutto comunicato presidenziale sul caso Brancher. Gran parte dei commentatori hanno inteso rilevare i profili legati al merito della vicenda, essenzialmente quelli collegati alla pretestuosità delle motivazioni addotte dal neoministro per richiedere l’applicazione della legge sul legittimo impedimento. Sulla fondatezza dei motivi presentati dagli avvocati in sede processuale sono però i giudici competenti a valutare, e non spetta al Presidente della Repubblica intervenire. Al Presidente spetta invece garantire il rispetto delle prerogative costituzionali e impedirne l’uso improprio (incostituzionale). Per questo ritengo che il “monito” presidenziale non debba riferirsi all’interpretazione disinvolta della legge sul legittimo impedimento e all’uso fatto in sede processuale, bensì riguardi, ben più in profondità, la possibilità stessa che tale legge possa applicarsi al caso di specie. Non è l’imputato Brancher – come ora sostengono i suoi legali – a “rinunciare” al legittimo impedimento e ad “acconsentire” lo svolgimento delle udienze, poiché non è nei suoi poteri disporre dei tempi del processo. Questa è la reale questione posta dal Presidente.
Almeno dal punto di vista strettamente giuridico è infatti evidente che il legittimo impedimento non sia opponibile da altri se non dai soggetti direttamente indicati nella legge e appare corretto sostenere che questa si riferisca esclusivamente al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai singoli Ministri titolari dei diversi dicasteri (esclusi dunque i cosiddetti Ministri senza portafoglio). Vero è che la legge in questione inizialmente (all’articolo 1) parla genericamente di Ministri, ma è essenziale rilevare che specifica poi (all’articolo 2) che l’applicazione è permessa “al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge”. E la Costituzione fa riferimento esclusivamente ai Ministri con portafoglio: all’articolo 95, dove espressamente richiama la responsabilità individuale di questi per “gli atti dei loro dicasteri”. Tutti gli altri soggetti che vanno a comporre la compagine governativa (oltre ai Ministri senza portafoglio anche i sottosegretari, i capi di gabinetto o delle segreterie politiche dei Ministri, etc.) non possono essere ricompresi in questa ristretta cerchia per la semplice, ma decisiva, ragione che il legittimo impedimento rappresenta una deroga ai principi generali della giurisdizione. Come ogni deroga, dunque, va interpretata in termini restrittivi. Tanto più in questo caso, poiché è in gioco il principio fondamentale dell’eguale trattamento dinanzi al processo di tutti i cittadini (l’égalité en droit). Solo il rinvio ad un altro valore costituzionale degno di tutela può permettere la conservazione di tale prerogativa ed impedire che essa si trasformi in odioso privilegio del tutto estraneo alla nostra civiltà giuridica. Il legislatore ha individuato questo “valore costituzionale” alternativo nel “sereno svolgimento” delle funzioni costituzionalmente attribuite ai Ministri. È, ovviamente, tutto da vedere se tale bilanciamento tra le ragioni della giurisdizione e quelle relative all’esercizio delle funzioni di governo siano costituzionalmente legittime: proprio su questo punto dovrà decidere la Corte costituzionale già investita della questione. E la stessa maggioranza sa bene che il rischio che sia accertata l’incostituzionalità dell’intera legge è molto forte. Tant’è che ha già predisposto il cosiddetto Lodo Alfano costituzionale: l’ennesima forzatura per garantire l’immunità al Presidente del Consiglio e ad altre poche alte cariche (anche ai Ministri senza portafoglio?). Non è qui però in discussione la legittimità costituzionale della legge, bensì la sua applicazione in concreto. Quel che può dirsi sin d’ora – e che il richiamo del Presidente induce a ritenere – è allora che la pretesa di estendere a figure non previste dalla nostra costituzione una normativa che limita l’esercizio della giurisdizione appare il frutto di una disinvoltura politica e costituzionale inaccettabile. Bene ha fatto Napolitano a rilevarlo.
Alcuni commentatori hanno rilevato l’irritualità del comunicato presidenziale, in alcuni casi esprimendo stupore per un intervento non formale del Capo dello Stato. Ma a ben vedere in questo frangente un atto formale avrebbe provocato una crisi costituzionale dagli esiti imprevedibili. D’altronde è prassi costante dei presidenti intervenire senza necessariamente assumere decisioni ultimative. È vero che nei primi anni della Repubblica tali interventi erano “riservati” e “diretti” (basta leggere le memorie di un Presidente discreto come Luigi Einaudi per conoscere l’importanza che può essere esercitata dagli atti informali del Capo dello Stato), mentre nei tempi più recenti tutto avviene sotto i riflettori dell’opinione pubblica. Non mi sembra però sia questo il punto. In caso si deve lamentare la perdita di lealtà e rispetto tra le istituzioni: se i rapporti tra Governo e Presidenza della Repubblica fossero quelli fisiologici di una forma di governo parlamentare, sarebbe bastata una telefonata o una lettera del Presidente (magari riservata) per risolvere il problema. Ma oggi il telefono e anche le lettere servono a ben altro, mentre di gran moda appare l’uso del comunicato. Non è il meglio, ma peggio sarebbe il silenzio assoluto del Presidente.
Il caso Brancher appare peraltro esemplare di un modo di affrontare le questioni più delicate dal punto di vista costituzionale con una volontà esclusivamente strumentale. Senza volere (potere?) affrontare il problema “reale” della ricomposizione ordinaria del Governo, nominando il Ministro per le attività produttive dimesso, si procede invece a individuare un “finto” Ministro senza dicastero e dalle funzioni delegate misteriose. Con lo scopo di estendere impropriamente una prerogativa. Per fortuna c’è la costituzione che limita i sovrani e impedisce un uso assoluto ed improprio dei poteri.