Si pubblica di seguito il testo del ricorso del Governo per la dichiarazione della illegittimità costituzionale dello Statuto della Regione Umbria approvato dal consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile 2004, in seconda deliberazione il 29 luglio 2004 e pubblicato nel Bollettino ufficiale della Regione n. 33 dell’11 agosto 2004.
Ricorso ex art. 123, secondo comma Costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale ha il proprio domicilio in via dei Portoghesi n. 12 – Roma, nei confronti della Regione Umbria, in persona del Presidente della giunta regionale, per la dichiarazione della illegittimità costituzionale dello Statuto della Regione Umbria approvato dal consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile 2004, in seconda deliberazione il 29 luglio 2004 e pubblicato nel Bollettino ufficiale della Regione n. 33 dell’11 agosto 2004, giusta delibera del Consiglio dei ministri 3 settembre 2004, con riguardo agli articoli 9, comma 2, 39, comma 2 e 40, 66 commi 1 e 2 e 82 di detto Statuto.
La Costituzione italiana, nel suo testo novellato dalle riforme del 1999 e del 2001, ha disegnato la potestà statuaria delle regioni, assoggettandola, da un lato, ad un procedimento di formazione «aggravato» della doppia deliberazione del Consiglio a maggioranza qualificata e dalla eventuale consultazione referendaria (sul modello delle leggi di revisione costituzionale); attribuendogli, dall’altro, – insieme con l’affrancamento dall’approvazione parlamentare – una collocazione privilegiata nella gerarchia delle fonti regionali.
Il sistema cosi delineato dal Costituente, se soddisfa appieno l’istanza autonomistica, non trascura però, certo, il principio di legalità costituzionale, che riceve adeguata protezione attraverso una rigorosa delimitazione della potestà statutaria ed una specifica disciplina del sindacato di costituzionalità del suo esercizio.
Sindacato che, con il presente ricorso, il Governo della Repubblica chiede a codesta Corte.
E’ avviso del Governo, infatti, che, con le norme denunciate in epigrafe, la Regione Umbria abbia ecceduto dalla propria potestà statutaria in violazione della normativa costituzionale, come si confida di dimostrare in appresso con l’illustrazione dei seguenti
Motivi
1. – L’art. 9, comma 2 dello Statuto viola gli artt. 2, 29 e 123, nonché l’art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.
Recita l’art. 9 dello Statuto (contenuto nel Titolo II: «Principi Programmatici») – «Famiglie. Forme di convivenza».
La regione riconosce i diritti della famiglia e adotta ogni misura idonea a favorire l’adempimento dei compiti che la Costituzione le affida.
Tutela altresì forme di convivenza.
Orbene, non sembra potersi ritenere in armonia con la Costituzione l’affermazione di riconoscimento e tutela di «forme di convivenza». Formula, questa, di ambigua genericità ed indiscriminata estensione, in relazione alla quale non è dato neppure comprendere quali siano i contenuti e gli effetti del «riconoscimento» e se l’oggetto di questo vada o meno oltre la convivenza more uxorio, come rapporto di fatto tra uomo e donna, al quale soltanto, e ad assai limitati effetti (Corte cost. sentt. 6/1977, 237/1986, 352/2000), già sono ricollegate dall’ordinamento generale alcune conseguenze giuridiche.
Un siffatto riconoscimento in termini generali, ancorché generici, potrebbe infatti costituire la base statutaria di interventi normativi regionali per una disciplina specifica.
In particolare, fermo il rilievo che eventuali future previsioni normative regionali inerenti al campo dei rapporti (personali e patrimoniali) tra conviventi, al loro status ed ad una loro qualche rilevanza pubblicistica – che non hanno con la regione un particolare nesso territoriale e per i quali è evidente l’imprescindibile esigenza di disciplina uniforme nell’intero territorio nazionale – violerebbero comunque competenze esclusive dello Stato (in particolare quelle sancite dall’art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione), l’attuale previsione statutaria di cui all’art. 9, in quanto intenda affermare qualcosa di diverso dal semplice rilievo sociale e dalla conseguente giuridica dignità – nei limiti previsti dalle leggi dello Stato – della convivenza tra uomo e donna fuori del vincolo matrimoniale, ovvero intenda affermare siffatti valori con riguardo ad unioni libere e relazioni tra soggetti del medesimo sesso, risulta violativa dell’art. 123 Cost., anche perché in contrasto con vincolanti principi costituzionali riconducibili al dettato degli artt. 29 e 2 della Costituzione. E’ appena il caso di ricordare, al riguardo, che (come rimarcato nelle sentenze di codesta Corte nn. 304 e 306 del 2002) il limite «dell’armonia con la Costituzione» di cui all’art. 123 Cost. mira non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni della Carta costituzionale ma anche a «scongiurare il pericolo che lo Statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo spirito». Gli Statuti regionali debbono infatti non solo «rispettare puntualmente» ogni disposizione della Costituzione ma essere in «armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (Corte, cost. sentt. 196/2003; 2/2004).
La forma plurale ed indeterminata usata nella proposizione statutaria, che sembra voler considerare anche forme di convivenza ulteriori rispetto a quella more uxorio, ed il carattere generale ed indiscriminato dell’enunciato, specie se letto in relazione all’art. 5, primo comma dello Statuto in cui si afferma che «la regione concorre a rimuovere le discriminazioni fondate in particolare su … l’orientamento sessuale», lasciano fondatamente supporre che la ripetuta disposizione postuli un’incongrua ed inammissibile dilatazione dell’area delimitata dai valori fondanti dell’art. 2 Cost. e debba pertanto considerarsi incompatibile con la Carta fondamentale.
Anche a monte, del resto, sotto diverso profilo avente carattere di priorità logica, deve dubitarsi della legittimità della disposizione in esame, in quanto estranea ai contenuti necessari degli statuti regionali di cui al comma 1 dell’art. 123 Cost. (inerenti alla configurazione dell’ordinamento interno della regione) ed eccedere i limiti in cui altri contenuti possono ritenersi ammissibili (cfr. Corte cost. sent. 2/2004). Essa disposizione, infatti, ricompresa nell’area dei principi programmatori, non esprime da un lato, alcun interesse proprio della comunità regionale, non contiene, dall’altro, alcun concreto contenuto programmatorio che non sia quello di una vaga dimensione libertaria.
Lo Statuto, infatti, è espressione di un’autonomia garantita dalla Costituzione, nel cui quadro si inserisce, costituendone momento attuativo. Esso non può, dunque, validamente estendersi ad affermazioni di principi e valori che non siano meramente riproduttive di quelle espresse nella parte I della Costituzione (in particolare, per quanto qui interessa, nel titolo II «rapporti etico sociali») connotanti l’intero assetto della comunità nazionale, alla quale non può contrapporsi una comunità regionale diversamente caratterizzata.
Ne’ è ammissibile, sotto tale profilo, che le diverse comunità regionali possano tra loro diversificarsi in ragione del loro ipotetico riconoscersi in valori diversi e contrastanti. Il che, oltre a contraddire il principio fondamentale di unitarietà della Repubblica, canonizzato dall’art. 5 Cost, ridonderebbe in un’ingiustificata disparità di trattamento dei singoli.
2. – L’art. 39, comma 2 e l’art. 40 dello Statuto violano il principio di separazione dei poteri, l’art. 121, secondo comma e l’art. 117, terzo comma della Costituzione.
L’art. 39, comma 2, e l’articolo 40 prevedono rispettivamente la possibilità che la giunta regionale, su autorizzazione conferita con legge regionale, adotti regolamenti di delegificazione e che possa presentare al consiglio progetti di testo unico di disposizioni di legge, riconoscendo la possibilità che alla giunta stessa vengano attribuite deleghe legislative. Tali disposizioni contrastano con il principio della separazione dei poteri tra organo legislativo e organo esecutivo. Principio che, in mancanza di deroghe costituzionali espresse, non consente l’adozione di regolamenti c.d. di delegificazione e deleghe legislative; né le deroghe previste nella legislazione statale sono suscettibili di estensione analogica.
Se, infatti, come affermato da codesta Corte (sent. n. 2/2004) può ritenersi legittimo il conferimento al Consiglio di una potestà regolamentare, non può certo ritenersi valida la ipotesi reciproca del conferimento alla giunta di una potestà legislativa, che la Costituzione riserva, invece, in via esclusiva al consiglio.
L’ipotesi del conferimento straordinario all’organo esecutivo di un potere legislativo è, infatti, ipotesi di assoluta eccezione che solo la Carta fondamentale può contemplare ed in presenza di ben precise e cogenti limitazioni.
Si aggiunga ancora che la fonte regolamentare appare incongruente con le materie di competenza concorrente, in quanto incide sui principi stabiliti dallo Stato con normativa primaria, in contrasto, quindi, con l’art. 117, comma 3, della Costituzione. Inoltre, la disposizione di cui all’articolo 40 dello Statuto appare incostituzionale sotto un ulteriore profilo di violazione del principio di separazione, perché attraverso l’utilizzo del potere di delegificazione, di cui al succitato articolo 39, si verrebbe a consentire alla giunta di disciplinare materie di competenza legislativa. Né il vizio potrebbe considerarsi emendato dalla previsione di una approvazione finale da parte del Consiglio, in quanto tale approvazione è meramente formale, essendo precluso all’organo detentore della funzione legislativa qualunque potere emendativo del testo.
3. – L’art. 66 dello Statuto, commi 1 e 2, viola l’art. 122, primo comma, della Costituzione.
La norma in epigrafe, prevedendo che «la carica di componente della giunta è incompatibile con quella di consigliere regionale» e disciplinando le conseguenze dell’incompatibilità (con implicito condizionamento dell’adottando sistema elettorale), viola l’articolo 122, comma 1, della Costituzione, che riserva esplicitamente l’individuazione dei casi di incompatibilità nonché del sistema elettorale alla legge regionale, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato, e non allo Statuto. In tal senso si è già pronunciata codesta Corte con sentenza n. 2/2004.
4. – L’art. 82 dello Statuto viola gli artt. 121 e 134 della Costituzione.
La norma in epigrafe attribuisce alla Commissione di garanzia la funzione di esprimere pareri sulla conformità allo Statuto delle leggi e regolamenti regionali.
Non e’ dato con certezza comprendere dal testo se tale parere attenga ad un momento procedimentale dell’attività normativa anteriore al suo compimento ovvero segua a tale compimento.
Ove dovesse risultare esatta tale seconda esegesi – come sembrerebbe desumersi dal testo statutario in epigrafe – la norma violerebbe i principi costituzionali richiamati, conferendo ad un organo amministrativo un inammissibile potere di sindacato su leggi e regolamenti già definitivamente adottati dagli organi competenti.