Il G-8 economico tenutosi a Mosca il 10 e l’11 febbraio 2006 ha affrontato la questione della crescita economica mondiale, soprattutto con riguardo alla priorità della questione energetica.
Questione non di poco conto, visto che la gestione di simili emergenze può essere determinante non solo per spostare equilibri geopolitici consolidati, ma anche per giustificare scelte nazionali di politica economica, correlate alle problematiche del lavoro, dei salari, dei tagli alle diverse tipologie di servizi e di beni sociali. Scelte, di solito, da farsi in nome di una logica che, brandendo l’arma del saldo energetico negativo, finisce col fornire i dati economici necessari per rovesciare sulle classi più deboli i costi vivi dei prezzi alti e instabili delle diverse fonti energetiche (gas e petrolio) – come ben dimostra, peraltro, la vicenda degli shocks petroliferi degli anni ’70 del Novecento («L’esplosione dei salari era ancora in pieno svolgimento quando, alla fine del 1973, una pressione egualmente potente verso l’aumento dei prezzi d’acquisto di materie prime pregiate si materializzò nel primo “shock petrolifero”. Tra il 1970 e il 1973 questa pressione verso l’alto aveva già portato al raddoppio del prezzo del petrolio greggio importato dai paesi dell’OCSE. Ma nel solo 1974 quello stesso prezzo triplicò, aggravando ulteriormente la crisi di redditività», G. ARRIGHI, The Long Twentieth Century (1994), tr. it. di M. Di Meglio, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano, il Saggiatore, 2003, p. 398; sul punto cfr., inoltre, la ricostruzione dettagliata di P. MASSA, G. BRACCO, A. GUENZI, J.A. DAVIS, G.L. FONTANA, A. CARRERAS, Dall’espansione allo sviluppo. Una storia economica d’Europa, Torino, Giappichelli, 2005, in partic. pp. 441 ss.).
Prezzi che sono alti e instabili a causa delle tensioni internazionali generate, essenzialmente, da guerre esportatrici di ‘democrazia’, nonché da scenari globali che si ricompattano (secondo una geografia pre-rivoluzione d’ottobre del 1917) attorno a una rinascita esponenziale di nazionalismi di diversa fattura, che vanno di pari passo – come avviene, ad esempio, nell’Ucraina e nella Russia post-sovietica – con il formarsi (a proposito del gas russo) di un «ristretto ceto di magnati nelle cui mani si concentrano le maggiori risorse produttive del paese. Questi oligarchi, grazie alla privatizzazione delle imprese statali e alla partecipazione al potere politico, hanno accumulato ingenti capitali e controllano le maggiori conglomerate finanziario-industriali»(P. SINATTI, I Paperoni ucraini: come separare Stato e oligarchi?, in Limes, n. 1, 2005, p. 287).
La “civitas maxima” economica che il G8 incarna sembra esprimere appieno questo mix di interessi nazionalistici e imprenditoriali, secondo una circolarità di interessi che va ben oltre il semplice rapporto di forza tra unità giuridiche statuali poste tra loro in condizione di pattuita uguaglianza. Lo richiede la stessa logica economica che presiede all’ingresso in questo club ristretto. La negoziazione avviene, allora, a diversi livelli e le zone grigie si moltiplicano (V. le osservazioni di G. GUARINO, L’uomo-istituzione, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 134-135).
Ciò spiega anche la netta divaricazione tra formule di rito dei documenti ufficiali e la prevalenza di ragioni di azione diplomatica e negoziale basate sull’accettazione delle rispettive posizioni di forza militare ed economico-finanziaria. Non è un caso che il direttore del Fondo monetario internazionale, Rodrigo Rato, abbia fatto notare come se fino ad ora le tensioni sui mercati dei prodotti energetici erano state determinate dal boom della domanda, soprattutto asiatica, «ora cominciano a emergere sempre più limitazioni dell’offerta, che potrebbero creare turbolenze macroeconomiche non viste finora». Limitazioni derivanti, evidentemente, dalle tensioni con l’Iran e dalla situazione della Nigeria.
Il comunicato ufficiale del G-8, però, bypassa queste tematiche e utilizza un linguaggio di circostanza, che, da un lato, richiama i postulati del libero scambio come presupposto salvifico di qualsiasi fattispecie di “crisi” (politica, geopolitica, economica, sociale, nazionale, internazionale, ecc.), e, dall’altro lato, accenna alla necessità di leale cooperazione internazionale e di diversificazione/sviluppo di fonti energetiche alternative. Si legge, infatti, che «i meccanismi di mercato sono vitali per un efficiente funzionamento del sistema energetico globale» e che è, comunque, indispensabile: continuare il dialogo fra paesi produttori e consumatori, promuovere iniziative per migliorare la trasparenza sia dell’offerta sia della domanda, investire maggiormente in esplorazione, produzione, trasporto e raffinazione, migliorare l’efficienza energetica, la diversificazione, lo sviluppo di fonti alternative. Tutto ciò mentre la Russia aveva unilateralmente provveduto a tagliare le forniture di gas all’Europa occidentale a partire da gennaio, evitando peraltro di fornire una risposta diretta alle richieste europee (contenute in un documento francese appoggiato dall’Italia) di una liberalizzazione del monopolio del gas affidato alla Gazprom.
Il G-8 – lo si è scritto altre volte – è un’istituzione che anche dal punto di vista formale è priva di qualsiasi cinghia di trasmissione con gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali. Si tratta di una delle agenzie più importanti della c.d. governance mondiale (così G. ARRIGHI, B.J. SILVER, Chaos and Governance in the Modern World System (1999), tr. it. di M. Alacevich, L. Caranti, R. Che lotti, M. Giambò, Caos e governo del mondo, Milano, Bruno Mondatori, 2003, p. 9) e che anche rispetto ad istituzioni come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale o lo stesso WTO, esprime, in modo più diretto e pregnante, un sistema di reti multistratificato, composto da società commerciali, multinazionali e stati, questi ultimi indotti, da tale promiscuità, ad agire coerentemente e costantemente più come organizzazioni d’affari che come istituzioni di governo. E’ dunque una verità molto discutibile quella che vuole vedere nelle forze dell’economia transnazionale l’indebolimento del potere degli stati.
Va ricordato, infatti, che gli agenti decisivi per la realizzazione della nuova economia globale sono sempre stati i governi e, in modo particolare, i governi dei paesi più ricchi (prima G-7, durante la belle époque reganiana, poi G-8) e le istituzioni internazionali sussidiarie da essi dipendenti, FMI, WTO e Banca Mondiale. Sono tre le politiche interrelate che tali istituzioni hanno promosso: 1) deregolamentazione dell’attività economica nazionale; 2) liberalizzazione del commercio; 3) privatizzazione delle società di proprietà pubblica.
Ora, è evidente che occorre dare una spiegazione del perché i governi si siano impegnati in questo straordinario sforzo per la globalizzazione. Un perché che non si esaurisca nella equiparazione di quei governi a “comitati d’affari della borghesia”. La spiegazione dovrebbe essere più articolata e coinvolgere almeno quattro livelli di analisi.
Innanzi tutto, la percezione, da parte degli Stati-nazione, di alcuni interessi come assolutamente strategici. Pensiamo, per cominciare, agli Stati Uniti: qui un’economia globale, aperta e integrata, torna a beneficio delle imprese americane e delle imprese con sede in America, in ragione della superiorità tecnologica e della flessibilità manageriale di cui gli Stati Uniti godono rispetto al resto del mondo. Quando si pensa al connubio tra la presenza consolidata delle multinazionali americane nel mondo e la presenza egemonica degli USA all’interno delle istituzioni commerciali e finanziarie internazionali, allora globalizzazione vuol dire, inevitabilmente, maggiore prosperità economica per gli Stati Uniti.
Quanto ai governi europei, il Trattato di Maastricht, con il quale si sono impegnati alla convergenza economica e a un’effettiva unificazione per il 1999, è stato la loro forma specifica di adottare la globalizzazione, considerata l’unico modo a disposizione dei governi per essere competitivi in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia americana, dall’industria asiatica e da flussi finanziari globali che nel 1992 avevano incrinato la stabilità monetaria europea (cfr., ad esempio, M. CASADIO, J. PETRAS, L. VASAPOLLO, Clash! Scontro tra potenze. La realtà della globalizzazione, Milano, Jaca Book, 2004; J. ARRIOLA, L. VASAPOLLO, La dolce maschera dell’Europa. Per una critica delle politiche economiche neoliberiste, Milano, Jaca Book, 2004).
Da parte loro, Cina e India, invece, hanno considerato l’apertura del commercio internazionale un’opportunità per intraprendere un processo di sviluppo e per costruire le basi economiche e tecnologiche di un potere nazionale rinnovato.
Per i riformatori giunti al potere nelle economie in transizione dell’Europa orientale, la liberalizzazione rappresentava una rottura definitva con il passato comunista. E, infine, molti paesi in via di sviluppo non hanno neanche compreso quali fossero i propri interessi strategici, perché il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale avrebbero deciso per loro, facendo pagare un prezzo altissimo per un risanamento forzato e rovinoso delle rispettive economie.
Un secondo livello di analisi, invece, deve tener conto del contesto ideologico in cui gli interessi strategici degli stati vennero letti e percepiti. Il contesto ideologico di fine anni Ottanta e inizio degli anni Novanta era dominato dal crollo dello statalismo, dalla crisi di legittimità del modello occidentale del Welfare State e dalla nuova egemonia del neoliberismo thatcheriano e reganiano, fondato sulla promessa che i liberi mercati avrebbero compiuto miracoli economici e istituzionali, in modo particolare quando associati alle nuove meraviglie tecnologiche propagandate dai futurologi.
A un terzo livello va a collocarsi, poi, l’interesse politico dei nuovi leaders giunti al governo alla fine degli anni Ottanta e agli inizi degli anni Novanta, un interesse che favorì, decisamente, la scelta della globalizzazione. Là dove per “interesse politico” deve intendersi, l’interesse alla governabilità, ossia il desiderio mascherato delle élites intellettuali ed economico-finanziarie di essere elette al governo del paese e di restarci per quanto più tempo possibile, in funzione di apparente argine istituzionale al caos derivante dal disastro ideologico e dal disordine economico scaturiti dall’abbandono di una politica di trasformazione della società e di programmazione democratica dell’economia. Non è un caso che, nella maggior parte dei paesi, i nuovi leader vengano eletti in conseguenza di un’economia in calo, talvolta prossima al tracollo, e riescano a consolidare il proprio potere proprio attraverso un miglioramento sostanziale (in termini di programma neoliberistico) della performance economica. Basti pensare, ad esempio, all’elezione di Clinton negli Stati Uniti, la cui campagna elettorale venne costruita attorno al motto «It’s the economy, stupid!» e la cui strategia-cardine della politica economica fece leva su un’ulteriore deregolamentazione e liberalizzazione, sia nazionale che internazionale, di cui la ratifica del NAFTA nel 1993 è il miglior esempio.
Nello stesso periodo, in Russia, Eltsin e la sua infinita successione di consiglieri economici hanno giocato come loro unica carta l’integrazione della Federazione russa nel capitalismo globale, cedendo la sovranità economica al Fondo monetario internazionale e ai governi occidentali (V., in particolare, J. E. STIGLITZ, Globalization and Its Discontents (2002), tr. it. di D. Cavallini, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi, 2002, specialmente il capitolo V, pp. 135-168).
Nell’Unione europea le politiche di aggiustamento imposte dal Trattato di Maastricht (e, in specie, dal meccanismo del Patto di stabilità e crescita) hanno velocemente determinato un esaurimento del “capitale” politico dei governi in carica, aprendo così la strada a forme di neoriformismo economico di stampo postliberale, guidate da leaders che formalmente si proclamavano di sinistra ma che, sostanzialmente, avevano rotto con il passato del movimento operaio collocandosi all’interno di una ambigua “terza via” (Blair, Jospin, Schröder ecc.).
Esiste, infine, un quarto livello di spiegazione dell’attrazione fatale dei governi per la globalizzazione economica: gli interessi personali dei soggetti che detengono il potere decisionale. Interessi acquisiti dai leaders politici e dai loro funzionari di grado più elevato e che si sono tradotti, in prevalenza, in un accrescimento della ricchezza personale attraverso due canali principali: le ricompense finanziarie e le nomine lucrative cui si accede dopo la carica, guadagnate o in seguito alla rete di contatti creata o come ringraziamento per decisioni che hanno favorito la conclusione di affari; e – evidentemente – la corruzione nelle sue diverse forme, ossia tangenti, sfruttamento di informazioni privilegiate su transazioni finanziarie e acquisizioni di immobili, partecipazioni aziendali in cambio di favori politici ecc.. Il punto, qui, non è la corruzione in sé, che è sempre esistita, ma la sua forma specifica. Si tratta, qui, di una vera e propria “costante” che favorisce le politiche pro globalizzazione, perché dischiude un mondo di opportunità completamente nuovo. In molti paesi in via di sviluppo, ad esempio, è l’unica via possibile, in quanto l’accesso alle risorse del paese costituisce il valore di scambio principale controllato dalle élites politiche, che consente loro la partecipazione alle reti globali della ricchezza. Non è possibile comprendere – visto che si discute di fonti energetiche russe – la catastrofica gestione della transizione economica russa senza considerare la sua logica dominante: la formazione di un’oligarchia finanziaria protetta dal governo, la quale ha ripagato personalmente molti dei principali riformatori liberali russi (contribuì in modo decisivo alla rielezione di Eltsin nel 1996) in cambio del privilegio di fungere da intermediaria tra le ricchezze della Russia e l’investimento e il commercio globali (il Fondo monetario internazionale, come ci spiega J.E. STIGLITZ, op. cit., pp. 135 ss.,fingeva di non vedere il problema e impiegava il danaro dei contribuenti occidentali per alimentare con miliardi di dollari questa oligarchia liberale).
Questo esempio pone in luce una delle zone grigie meno richiamate nell’analisi delle decisioni del G-8: il fatto che vengano adottate da persone che, oltre a rappresentare governi e interessi politici, possiedono un forte interesse privato al processo di globalizzazione, che è divenuto una fonte di enorme ricchezza potenziale per le élites mondiali.
Si può discutere seriamente e democraticamente della questione energetica mondiale in questo contesto? Quali sono i poteri di influenza e di negoziazione delle democrazie europee rispetto a segmenti interconnessi di economia globale che poggiano su autorità oligarchiche e monocratiche (politiche e finanziarie)?