Notazioni introduttive al documento finale sulla “cancellazione” del debito ai Paesi poveri da parte del G-8, tenutosi a Gleneagles (Scozia) dal 6 all’8 luglio 2005.
Il G-8 può essere considerato, a tutti gli effetti, un’istituzione internazionale, insieme a ONU, Fondo Monetario Internazionale (FMI), Banca Mondiale (BM) e World Trade Organization (WTO). Esso riproduce, a ben vedere, la gerarchia reale presente, in sede deliberativa, all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), in cui gli Stati politicamente ed economicamente più forti – primo fra tutti il c.d. Quadrilatero (USA, UE, Canada e Giappone) – impongono, di fatto, le decisioni vitali in tema di liberalizzazione dei mercati e di gestione globale dell’economia.
Dunque, l’operato del G-8, per forza di cose, non può essere considerato a sé, in modo autonomo ed isolato, ma si intreccia (e, per certi aspetti, dipende da) con una struttura più complessa, con una ripartizione di competenze e di funzioni che ineriscono all’attività delle altre istituzioni internazionali ad esso collegate, soprattutto quelle aventi finalità economiche. Un esempio, fra i tanti, che può mettere in luce questa stretta interdipendenza tra i vertici “pensanti” e “operativi” delle istituzioni menzionate, è quello della riunione G-7 tenutasi a Colonia nel 1999, ove i “grandi della terra” fissarono le direttrici di una possibile riforma dell’architettura finanziaria internazionale che si sarebbe dovuta articolare in tre punti-chiave: 1) il ruolo delle istituzioni finanziarie e internazionali, in primo luogo il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, per le quali si prevedeva una diversa distribuzione di competenze (al primo, in esclusiva, il monitoraggio della “sfera finanziaria” globale, di cui avrebbe dovuto garantire trasparenza e concorrenzialità tra i mercati, con la possibilità di intervenire soltanto con finanziamenti a breve termine per fronteggiare crisi di liquidità dei singoli paesi; alla seconda, in esclusiva, la competenza nell’erogazione dei finanziamenti a lungo termine finalizzati allo sviluppo economico e ai programmi di riduzione della povertà); 2) il coinvolgimento della finanza privata nella prevenzione e nella gestione delle crisi; 3) il rafforzamento delle azioni di vigilanza e di sorveglianza dei mercati e degli operatori (per una rassegna delle posizioni ufficiali dell’establishment istituzionale in merito alla riforma dell’architettura finanziaria internazionale si può vedere F. SACCOMANNI, Tigri globali, domatori nazionali, Bologna, il Mulino, 2002).
Soltanto tenendo a mente questo quadro complessivo è possibile tentare di abbozzare qualche valutazione sulla reale portata delle decisioni assunte dal G-8 appena conclusosi.
Dal punto di vista giuridico-costituzionale, infatti, l’ambito globale nel quale il G-8 si muove non è né uno spazio vuoto, né la continuazione geopolitica del vecchio ordine interstatale. Si tratta, invece, di «uno specifico contesto spaziale normativo» – in certo senso «antagonista del sistema democratico-rappresentativo statuale» -«prodotto ad un tempo della rete delle società transnazionali e delle istituzioni della globalizzazione, fenomeni in grado di esercitare, per il tramite dei mercati finanziari, un fortissimo potere di condizionamento materiale e politico sulle decisioni fondamentali delle istituzioni statali» (così F. BILANCIA, Lo stato democratico rappresentativo nel sistema globale. Spunti di riflessione, in S. LABRIOLA (a cura di), Ripensare lo stato, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 603-604). In questo contesto, perciò, i processi produttori di regole sono connotati da una cronica carenza di rappresentazione effettiva degli interessi e delle aspirazioni dei soggetti statali o interstatali più deboli.
Si potrebbe dire, senza forzare più di tanto lo stato delle cose, che si assiste, da più di un decennio a questa parte, ad una sorta di divisione del lavoro nel ciclo di produzione del commercio e degli scambi internazionali: FMI e Banca mondiale, attraverso i programmi di aggiustamento strutturale e le condizioni di prestito, svolgono il lavoro preliminare di preparazione delle condizioni interne della liberalizzazione; il WTO accredita e gestisce l’inserimento e il mantenimento dei diversi paesi all’interno dell’economia globalizzata; il G-8, da un lato, ratifica sostanzialmente le decisioni fondamentali assunte nei consigli ministeriali del WTO, e, dall’altro lato, svolge un prezioso ruolo di marketing politico nei momenti di maggiore attenzione da parte dell’opinione pubblica, attraverso l’adozione di alcuni documenti che, pur assai fragili nel loro contenuto modificativo dell’ordine esistente, risultano di alto impatto comunicativo, in sintonia con un atteggiamento mediaticamente efficace di affectio societatis.
Il G-8 di Gleneagles si è, infatti, chiuso con un “messaggio” per i paesi poveri: saranno raddoppiati, fino a 50 miliardi di dollari, gli aiuti – ma solo entro il 2010 – e verranno cancellati debiti per 40 miliardi di dollari alle 18 nazioni considerate più povere delle altre (p.to 28 del documento finale).
Sul testo licenziato in Scozia dagli “otto grandi” vanno fatte, però, alcune considerazioni.
In primo luogo, si tratta, in sostanza, della ratifica del documento già siglato a Londra nel vertice del 10-11 giugno scorsi (V. il p.to 29 del documento finale di Gleneagles, che rimanda in blocco alle conclusioni del summit londinese per le modalità di “estinzione”del debito). E, in questo senso, valgono le stesse osservazioni svolte, a suo tempo, a conclusione di quella riunione, in Il G8 riunito a Londra il 10-11 giugno 2005, “cancella” il debito dei 18 Paesi dell’Africa e dell’America Latina (16/06/2005), alla voce “Notizie” di questa Rivista; e, cioè, che i debiti “cancellati” non solo rappresentano somme per gran parte già perse e ritenute irrecuperabili secondo le stime degli analisti finanziari, in quanto interessi su prestiti da tempo non onorati, ma costituiscono, altresì, solo una parte di quanto dovuto alle istituzioni multilaterali (FMI, Banca mondiale, International Development Association, Banca Africana di sviluppo), mentre restano inalterate le condizioni per ottemperare ai prestiti ottenuti grazie ad accordi parziali e bilaterali tra singoli Stati, così come non vengono toccate dalla “sanatoria” le somme erogate dalla Banca Interamericana di sviluppo e da numerose altre banche regionali che, nel caso di alcuni paesi poveri e altamente indebitati, giocano un ruolo tutt’altro che trascurabile. Senza considerare, tra l’altro, che nel documento firmato a Londra (G8 Finance Minister’s Conclusions on Development, June 10-11, 2005, London), il meccanismo di cancellazione-rifinanziamento del debito dovrà seguire una strada obbligata: «Donors would provide additional contributions to IDA and AfDF, based on agreed burden shares, to offset dollar for dollar the foregone principal and interest repayments of the debt cancelled. Additional funds will be made available immediately to cover the full costs during the IDA-14 and AfDF- 10 period. For the period after this, donors will commit to cover full costs for the duration of the cancelled loans, by making contributions additional to regular replenishments of IDA and AfDF», ossia: «I donatori forniranno contributi addizionali all’IDA (International Development Association) e all’AfDF (Banca Africana di sviluppo), secondo quote accordate, per coprire dollaro per dollaro la quota di capitale originario prestato ed il ripagamento degli interessi del debito cancellato. Fondi addizionali saranno resi disponibili immediatamente per coprire i costi totali durante il periodo [di ricostituzione di capitale] di IDA 14 e AfDF 10. Per il seguente periodo, i donatori si impegneranno a coprire i costi totali per la durata dei prestiti cancellati, stanziando contributi addizionali alle regolari ricostituzioni di capitale dell’IDA e della Banca africana di sviluppo». Ciò significa, evidentemente, che le risorse addizionali non verranno stanziate direttamente ai paesi beneficiari della cancellazione, ma alle istituzioni che hanno stornato il debito dovuto; che il debito, in altre parole, verrà cancellato attraverso i flussi di aiuti allo sviluppo previsti per quegli stessi paesi.
In secondo luogo, va posto in evidenza un ulteriore dato strutturale, legato alla questione dell’azzeramento del debito, spesso trascurato nelle correnti disamine sul punto. Come si sa, ben prima dell’annuncio ad effetto del G-8 londinese di quest’anno, da circa dieci anni è in corso l’iniziativa, guidata dalla Banca mondiale e dal FMI, denominata Heavily Indebted Poor Countries (HIPC), finalizzata alla cancellazione – parziale – del debito dei 42 paesi più poveri del mondo. Una lista, dunque, ben più ampia dei 18 paesi individuati nel summit di Londra, suscettibile, peraltro, di ulteriore ampliamento ove si consideri che, attualmente, i paesi poveri oppressi da un debito complessivo di oltre 600 miliardi di dollari sono almeno 66, e, se si considerano quelli che in ogni caso riescono a trovare diversi finanziamenti internazionali, ma non per questo sono ricchi e non indebitati, si arriva a ben 80.
Ora, l’iniziativa HIPC prevede che la riduzione del debito venga perentoriamente subordinata alla contestuale implementazione, nei paesi destinatari, dei c.d. Structural Adjustment Programs (SAP), che, invariabilmente, prevedono: la drastica riduzione della spesa pubblica (in particolare il taglio alle spese sociali), la rimozione dei controlli sugli investimenti esteri e la liberalizzazione delle importazioni, la deregolamentazione dei mercati interni, le privatizzazioni delle imprese e dei servizi pubblici, la svalutazione delle monete e il taglio dei salari.
Quei 18 paesi menzionati nel documento finale del G-8 di giugno e possibili beneficiari della cancellazione del debito stanno per completare o hanno già completato questo processo propedeutico di liberalizzazione e di deregulation richiesto dall’HIPC.
Si tratta di un principio-cardine che influenza qualsiasi tipo di scelta politica nei rapporti tra Nord e Sud del mondo. Esso è stato riprodotto nel documento di Londra ed è stato ritenuto uno degli elementi-chiave per la cancellazione del debito. Si leggono, infatti, in apertura, due proposizioni che rendono esplicita la condizione essenziale per l’eventuale cancellazione del debito e per le future possibilità di ottenere contributi addizionali: «For IDA and AfDF debt, 100 per cent stock cancellation will be delivered by relieving post-completion Point HIPCs that are on track with their programmes of repayment obligations and adjusting their gross assistance flows by the amount forgiven» («Nel caso dell’IDA e della Banca africana di sviluppo, la cancellazione del 100 per cento dello stock sarà conseguita alleggerendo degli obblighi di pagamento i paesi HIPC dopo il punto di completamento che risultano in linea con i loro programmi, nonché aggiustando i flussi complessivi di aiuto dell’ammontare condonato»); «Additional donor contributions will be allocated to all IDA and AfDF recipients based on existing IDA and AfDF performance-based allocation systems» («I contributi addizionali dei paesi donatori saranno allocati ai paesi riceventi gli aiuti dell’IDA e della Banca africana di sviluppo, sulla base dei sistemi di allocazione esistenti presso l’IDA e la Banca africana di sviluppo, fondati sulla performance»). Nel primo caso, è evidente che la cancellazione dipenderà dal fatto che i programmi dei paesi interessati siano in linea con le prescrizioni degli istituti prestatori (solite prescrizioni dei SAP); nel secondo caso, il richiamo è ancora più diretto agli indicatori di performance, noti come Country Policy and Institutional Assessment (CPIA), e che rappresentano il parametro-base di riferimento usato dalla Banca mondiale per valutare la capacità di un paese di attuare correttamente le riforme strutturali indicate nei SAP. Tali indicatori, d’altra parte, oltre a registrare il tasso di liberalizzazione e deregolamentazione dei singoli paesi, includono specifici aspetti legati al “buon governo”, alla lotta alla corruzione, alla bontà del sistema giudiziario e così via. Questa è la parte più squisitamente politica svolta dall’istituzione “neutrale” Banca mondiale. Il che implica, inevitabilmente, che eventuali condoni sul debito o possibili pratiche di finanziamento vengano sottoposte ad un preventivo gradimento “politico” sulla stessa struttura costituzionale dei paesi interessati. Con effetto a cascata, positivo o negativo, sugli aiuti allo sviluppo erogati dagli altri donatori.
La richiesta incondizionata di implementazione delle politiche di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione delle economie dei paesi in via di sviluppo, al fine di concedere sconti sul debito accumulato e nuovi prestiti per sostenere la crescita, alimenta un circolo vizioso.
Infatti, i programmi di aggiustamento “strutturale” si fondano sul rispetto degli accordi GATS (General Agreement on Trade in Services), siglati nel 1994, dopo i negoziati dell’Uruguay Round. Il GATS ha ad oggetto le regole multilaterali per il commercio internazionale dei servizi, di cui garantisce l’assoluta liberalizzazione e privatizzazione. La sua osservanza è soggetta al sistema di procedure per la risoluzione delle controversie del WTO. I paesi in via di sviluppo, dovendo aderire al WTO per poter accedere agli interventi di sostegno finanziario del FMI e della Banca mondiale, hanno dovuto, di conseguenza, sottoscrivere le regole-GATS, e perciò impegnarsi – pena pesanti sanzioni e onerose compensazioni – a liberalizzare, in maniera progressiva e crescente, ogni settore dell’economia, e non solo. Il GATS si applica, non a caso, praticamente ad ogni tipologia di servizi, ivi compresi i servizi pubblici essenziali, i servizi educativi e i servizi sociali. L’unica eccezione riguarda i servizi forniti «nell’esercizio dell’autorità governativa», ossia quelli che non vengono offerti «né su base commerciale, né in competizione con uno o più fornitori di servizi» (art. 1, comma terzo, del GATS). Formula ambigua ed evanescente in cui possono farsi rientrare, al di là di ogni ragionevole dubbio (dubbio che diversamente dovrebbe essere sciolto in sede di contenzioso WTO), solo la “difesa nazionale” e “l’emissione di moneta legale”. Poiché le regole-GATS prevedono l’obbligo di trattare ogni fornitore di servizi allo stesso modo (c.d. principio della “nazione più favorita”, per cui ogni paese è tenuto a garantire a tutti gli stati membri del WTO lo stesso trattamento) e sanciscono, al contempo, l’eliminazione di ogni vincolo quantitativo e di ogni barriera all’entrata per la fornitura di servizi, è gioco forza che le imprese dei paesi più industrializzati si trovino nelle condizioni migliori, atteso il loro potenziale economico, politico e tecnologico (quest’ultimo tutelato dagli accordi c.d. TRIPS, Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights, , che impongono a tutti i firmatari di introdurre una legislazione a protezione dei diritti di proprietà intellettuale, il che vuol dire, di fatto, conservare il monopolio mondiale dei brevetti industriali, appannaggio dei paesi più ricchi ed avanzati), per aggiudicarsi la gestione e l’appalto dei servizi nei diversi settori e sub-settori elencati nell’accordo GATS, all’interno dei paesi meno sviluppati
Questa situazione si aggrava ulteriormente nel settore dell’agricoltura, dove soprattutto gli Stati Uniti e l’Unione Europea concentrano gran parte delle loro misure protezionistiche a sostegno della produzione e del reddito dei propri agricoltori sul mercato internazionale. USA e UE permettono ai propri coltivatori di esportare a basso costo (inferiore al costo di produzione) grazie ai contributi in danaro generosamente erogati (attualmente il livello di sussidi interni ammessi dal WTO per l’UE è passato da 67,160 miliardi a 103,663 miliardi di euro, mentre per gli USA è salito da 19,10 miliardi a 48,88 miliardi di dollari; «nel 2002 la spesa totale dell’Europa dei 15 per finanziamenti pubblici al settore agricolo, sussidi compresi, ammontava a 113 miliardi di dollari, mentre quella statunitense a 90 miliardi di dollari, su un totale mondiale di 318 miliardi di dollari – 56 miliardi spesi dal Giappone», M. DI SISTO-A. ZORATTI-R.BOSIO, WTO. Dalla dittatura del mercato alla democrazia mondiale, Bologna, Emi, 2005, p. 78), accentuando una differenza di produttività esistente tra un’agricoltura ancora tradizionale, legata ai cicli naturali, e un’agricoltura fortemente intensiva, che fa ricorso a gran parte di quei finanziamenti per dotarsi di macchine, pesticidi e supporti biotecnologici in grado di estromettere facilmente dal commercio internazionale i contadini del sud del mondo.
Non è allora strano che, nel comunicato finale (precisamente il p.to 3. del documento denominato “Trade”), il tema dei sussidi all’agricoltura sia stato “liquidato” mediante una vaga promessa: l’impegno ad eliminare le sovvenzioni agricole in tempi ragionevoli («In agriculture, we are committed to substantially reducing trade-distorting domestic support and substantially improving market acces. We are also committed to eliminating all forms of export subsidies and establishing disciplines on all export measures with equivalent effect by a credible end date»).
L’ordine internazionale che il G-8 sembra incarnare, allora, pare tutt’altro che trasparente e lineare. Esso assurge, piuttosto, ad epifania di un «sistema di commercio mondiale», caratterizzato dal «ruolo dominante dei mercati e del WTO nella perenne lotta per l’egemonia condotta tra i due poli del protezionismo statale e della liberalizzazione assoluta» (F. BILANCIA, Lo Stato democratico rappresentativo nel sistema globale, op. cit., p. 604). Protezionismo statale e liberalizzazione assoluta, una quadratura del cerchio, dunque, che sembra realizzarsi all’ombra di quella «delega permanente» (G. FERRARA, La sovranità statale tra esercizio congiunto e delega permanente, in S. LABRIOLA (a cura di), Ripensare lo Stato, op. cit., pp. 657 ss.) che gli stati nazionali stanno da tempo conferendo a un ordine superiore, estraneo ai principi e all’organizzazione delle costituzioni democratiche e sociali del secondo Novecento.