Il decreto salva-liste e l’abuso di potere normativo

EMERGENZA COSTITUZIONALE

Il TAR del Lazio respinge il ricorso diretto ad ammettere la lista del PDL per la provincia di Roma. Bene. “C’è un giudice a Roma” ed è esemplare la decisione della Giunta regionale del Lazio di impugnare innanzi alla Corte costituzionale il decreto-legge 5 marzo 2010 n. 29. A mio giudizio, è anche doverosa. Si oppone ad un atto affetto da molti e gravi vizi di incostituzionalità, chiaramente ed immediatamente evidenti. La Costituzione, che come ogni atto giuridico, va letta per intero, all’articolo 122, primo comma, prescrive: “Il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi.” L’attribuzione alle Regioni, a ciascuna Regione, della potestà legislativa in materia elettorale è quindi indubbia, ineccepibile, inderogabile. Il decreto legge del 5 marzo quindi invade l’ambito proprio della competenza legislativa regionale in materia elettorale.
Per evitare che qualche pennivendolo possa scriverlo, va detto subito che sarebbe risibile non solo sostenere che possano essere considerati “principi fondamentali” e perciò di competenza dello stato, da dettare con legge della Repubblica, sia la individuazione specifica dei “termini orari di presentazione delle liste”, sia le modalità di ingresso nel Tribunale o in un apposito locale dei delegati alla presentazione di tali liste (comma primo dell’articolo unico del decreto in questione), sia le ordinarie o speciali forme di “autenticazione delle firme” o dei modi con cui si assicura la leggibilità dei timbri che la attestano (comma secondo). Per quanto attiene poi ai rimedi avverso le decisioni sull’ammissibilità delle liste (comma terzo) nessun problema di interpretazione si è posto per quaranta anni; la disposizione del decreto è quindi anch’essa innovativa per di più suscita non pochi e fondati dubbi di costituzionalità perché mira a precludere la par condicio dei delegati di tutte le liste ad agire in giudizio per garantire la legalità del procedimento elettorale.
Va anche escluso che, per la determinazione delle norme interpretative, possa rivivere la potestà legislativa in materia elettorale intestata allo stato prima della riforma del Titolo V. Trasferendo dallo stato alle regioni la competenza in questione e riferendo alla legge della Repubblica la sola determinazione dei principi fondamentali, il sistema è completamente mutato e quanto alle norme interpretative spetta allo stato di determinare quelle contenente i principi e alle regioni le altre. Ma quelle del decreto non sono norme interpretative. Ne manca il requisito essenziale, quello di scegliere una delle interpretazioni tra quelle emerse nel corso della vigenza di una certa disciplina. Nei quaranta anni di vigenza della legge n. 108 del 1968 nessun conflitto interpretativo si è mai verificato.
Ma, al di là della stupidità e della malafede, c’è da domandarsi: come può essere definito un atto normativo che interviene su materia sottratta costituzionalmente all’organo che osa porlo in essere? Un atto privo cioè del requisito primario di validità, requisito che consiste nella derivazione dall’organo cui la distribuzione dei poteri, costituzionalmente prescritta, attribuisce la potestà di deliberarlo? Come si può qualificare l’esercizio di un potere non proprio ma di un altro ente pubblico e cosa ne consegue per l’atto così prodotto?
Un autorevolissimo costituzionalista del secolo scorso sosteneva, con argomentazioni molto solide, che il decreto-legge nasceva invalido e che solo la conversione in legge da parte del Parlamento lo poteva legittimare. Aveva ragione. Prevalse però una diversa interpretazione, è vero. Ma sull’incostituzionalità di un decreto-legge che sottrae al legittimo titolare il potere di legiferare e lo trasferisce al governo non c’è mai stato dubbio, né poteva o potrebbe esserci.
Si aggiunge così un motivo in più a quelli che Massimo Villone ha illustrato nitidamente su questa stessa Rivista. Motivi che vanno: a) dalla falsità nella denominazione del decreto e nel testo delle sue disposizioni quanto a definizione di “interpretazione” di norme laddove si tratta invece di innovazione normativa; b) alla mancanza di uno dei due requisiti del decreto-legge, quello della necessità, perché si interviene prima che si definiscano i procedimenti innanzi agli organi di garanzia, evidentemente per dettarne le decisioni. Alla violazione: c) degli articoli sia 72 Cost., quarto comma, sia 15 della legge 400/1988 sull’Ordinamento del governo che escludono la materia elettorale dalla disciplina per decreto-legge; d) degli artt. 2 e 3 Cost. perché il contenuto del decreto determina un trattamento differenziato che avvantaggia, per gli errori compiuti, solo i delegati del Pdl; e) dell’art. 48 Cost. perché il voto degli elettori è uguale solo se vi è stata par condicio nel procedimento presupposto a quello della votazione; f) dell’art. 51 Cost. perchè viene distorta la parità di accesso alle cariche pubbliche.
Ho definito esemplare la decisione della Giunta regionale del Lazio augurandomi che anche altre Regioni decidano di impugnare il decreto-legge n. 29 del 5 marzo a difesa della potestà legislativa ottenuta e a tutela della Costituzione, dello stato di diritto e della democrazia.
L’arbitrio, il sopruso, la violenza, la perversione, l’uso illegale del potere legale, lo stravolgimento degli atti legislativi a fini personali o di parte, vanno contrastati, fermati prima che sia troppo tardi. I delegati, gli iscritti, il leader del partito di maggioranza non hanno un diritto, un potere in più dei delegati, degli iscritti, dei leaders degli altri partiti, della legge non possono fregarsene (parola declinata già tragicamente nella storia d’Italia), violarla e poi sanare con legge la violazione della legge. Il decreto-legge salva-liste del Pdl va combattuto con tutte le armi della legalità. Può diventare un precedente. Chiama ad un dovere inderogabile. Quello di resistergli.