1. Il Consiglio europeo appena conclusosi ha avuto ad oggetto questioni esclusivamente economiche. Ha riguardato, cioè, il nocciolo duro dell’Eurosistema, la parte che di esso si ritiene ancora perfettamente integra e funzionante, giuridicamente positivizzata e ‘costituzionalmente’ preminente, in cui, per statuto (artt. 99 e 128 del TUE), si esprime l’indirizzo politico-economico complessivo degli Stati membri.
Centrale, nelle Conclusioni della Presidenza, è il “rilancio” della Strategia di Lisbona, varata nel marzo del 2000. Un “rilancio” di cui si era già fatto promotore il Consiglio europeo del marzo 2005 e che, oggi, viene considerato vitale per recuperare il terreno perduto sul piano della competitività internazionale in un mondo globalizzato: “Drawing on lessons learnt from five years of implementing the Lisbon Strategy, the European Council in March 2005 decided on a fundamental re-launch. It agreed to refocus priorities on jobs and growth coherent with the Sustainable Development Strategy, by mobilising to a greater degree all appropriate national and Community resources. It also agreed on a new governance cycle based on partnership and ownership. (…), in particular by emphasising the way in which European values can underpin modernisation in our economies and societies in a globalised world” (p. 1).
I concetti enucleati in questa sorta di prologo delle Conclusioni del Consiglio, benché scarni e lapidari, sono densi di significati concludenti e risultano essenziali per la comprensione dell’ulteriore giro di vite a cui le istituzioni comunitarie di indirizzo intendono sottoporre il già diafano e pressoché inesistente modello sociale europeo. “Re-launch” e “to refocus priorities on jobs and growth” sono le parole-chiave cui corrisponde il passaggio concettuale e operativo che induce a considerare le politiche sociali come un ostacolo e un impedimento al processo di crescita e sviluppo, anzichè come un valore da tutelare e un necessario sostegno ai percorsi di democratizzazione dell’Unione.
In cinque anni, in altre parole, la “coesione sociale” (social cohesion), che pure, nell’originaria versione della Strategia di Lisbona, compariva almeno come obiettivo formalmente perseguibile, nel “nuovo inizio” (rilancio) del 2005 – e ancora adesso nel Consiglio di primavera appena terminato – viene letteralmente cancellata e restano in piedi soltanto le priorità dell’ “occupazione” (jobs) e della “crescita” (growth). È questo il senso, ulteriormente riduttivo, del richiamo alla decisione, presa nel Consiglio del marzo 2005, di “ri-centrare” le priorità della Strategia (solo) su occupazione e crescita (“It agreed to refocus priorities on jobs and growth”).
Certo, ci sarebbe molto da discutere sulla stessa nozione di “coesione sociale” come concetto-surrogato dei diritti sociali e, per certi versi, come categoria costituzionale consolatoria ad essi alternativa ed antitetica. Così come pesanti dubbi (peraltro parzialmente espressi in G. BUCCI, L. PATRUNO, Riflessioni sul c.d. modello sociale europeo, sull’Europa “sociale” dei capi di governo e sul mutato rapporto tra costituzione ed economia, in Costituzionalismo.it, fasc. 3/2005) gravano sull’impianto concettuale complessivo che sostiene e informa la Strategia di Lisbona, quale neo-progetto modernizzatore della società europea. Tuttavia, ciò che qui più limitatamente interessa evidenziare è come lo slogan “the relaunched Lisbon Strategy for jobs and growth” contenga un’istanza formalmente escludente nei riguardi della “questione sociale” europea. Dovendo, quest’ultima, essere una mera possibilità residuale del modo di produzione e di sviluppo dell’economia.
Visivamente questa esclusione emerge dal confronto testuale tra la “vecchia” e la “nuova” Strategia di Lisbona.
Infatti, mentre nelle Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000 (p.to 5) si poteva ancora leggere che l’obiettivo strategico dell’Unione, per il primo decennio del nuovo secolo, era “quello di diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”; al contrario, nella Comunicazione della Commissione al Consiglio di primavera del 2005, COM (2005) 24 Bruxelles (“Lavorare insieme per la crescita e l’occupazione. Il rilancio della strategia di Lisbona”) – documento che diventerà la nuova base ideale condivisa del “rilancio”- si afferma esplicitamente che: “abbiamo bisogno di un’economia dinamica per nutrire le nostre più vaste ambizioni in campo sociale e ambientale, ed è per questo che la strategia di Lisbona rinnovata è incentrata sulla crescita e l’occupazione” (p. 5).
In altri termini, è cambiato – attraverso l’eliminazione del riferimento testuale alla coesione sociale – il modello di riferimento. La coesione sociale non è più parte esplicita “di un triangolo virtuoso insieme a crescita e occupazione, né sembra più coniugarsi con “dinamismo” e “competitività”, come recitavano le conclusioni del Consiglio di Lisbona. Piuttosto, la protezione sociale sembra tornare in campo come ostacolo alla crescita, visto che l’unico spazio che le rimane nel disegno strategico complessivo è quello della modernizzazione intesa nel senso che gli individui “allunghino la propria vita lavorativa e diventino meno dipendenti dai sussidi” (linea d’azione 8 del rinnovato Programma d’azione di Lisbona, come immaginato dalla Commissione)” (così il Rapporto sullo Stato sociale anno 2005, a cura di R. PIZZUTI, Torino, UTET, 2005, p. 104).
La dimensione sociale nella costruzione europea sembra dunque soggetta ad oscillazioni che riproducono o comunque risentono e si accompagnano all’alternarsi delle posizioni prevalenti nel dibattito politico, culturale e scientifico sullo stato sociale e le sue connessioni con la crescita economica. L’elemento “sociale” è l’elemento mobile delle politiche europee, l’elemento non indispensabile, non assiologico. Altri sono gli assi portanti dello sviluppo politico ed economico contemplati dall’ordinamento europeo. E, di conseguenza, altra è la concezione del diritto al lavoro e dei rapporti sociali su di esso fondati.
2. Può essere interessante, in questo senso, gettare un rapido sguardo alla Prima Parte (“specific areas for priority action”) delle Conclusioni della Presidenza, i cui punti salienti sono rappresentati dagli obiettivi proposti per il 2007, in relazione, rispettivamente: ai maggiori investimenti nella conoscenza e nell’innovazione; ai modi di impulso e di liberazione del potenziale delle imprese, soprattutto delle PMI (piccole e medie imprese, in inglese SMEs, small and medium-sized enterprises); alla necessità di creare opportunità di occupazione per le categorie più “sensibili”. Si tratta di tre punti che non possono essere letti separatamente, ma che sono da considerarsi strettamente connessi e interdipendenti.
Nella sezione che ha per titolo “Investing more in knowledge and innovation” (pp. 5-7, p.ti da 18 a 25) si ritiene di fondamentale importanza una rapida approvazione del Settimo programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico oltre che del Programma per la competitività e l’innovazione. L’istruzione e la formazione sono confermate come fattori critici nel miglioramento della competitività e nella creazione di un mercato del lavoro efficiente. Il Consiglio europeo chiede agli Stati membri di promuovere azioni e politiche per raggiungere l’obiettivo medio del 3% del PIL da destinare alla ricerca entro il 2010.L’approccio alle politiche dell’innovazione e della formazione scolastica e professionale è un approccio che si sviluppa in stretto collegamento con il mondo del business . Formazione e sistemi educativi devono essere orientati al mercato perché se ne possa giustificare la funzione pubblica e sociale: “A comprehensive approach to innovation policy can be achieved by supporting markets for innovative goods and services and excellence in research in new technologies, including information and communication technologies (ICT) and eco-innovations. This would imply inter alia identifyng best practices in innovation policies that would have the greatest potential for creating real value added and boosting productivity” (p.6, p. to 22). Oppure: “The European Council calls on the Member States to facilitate, in line with national practices, universities’access to complementary sources of funding, including private ones, and to remove barriers to public-private partnership with businesses” (p. 7, p.to 24).
Definite queste particolari coordinate entro le quali dovrà muoversi la futura società del sapere, diventa quasi inevitabile insistere sulla liberazione del potenziale “commerciale” ancora inespresso del principale soggetto “sociale”, l’impresa (nel suo nucleo più radicato e originario, quella piccola e media), capace di accentrare su di sé i tempi, le modalità, e i contenuti attraverso i quali dovranno essere filtrati i bisogni espressi dai cittadini europei. L’imperativo categorico che le istituzioni comunitarie e gli Stati membri impongono a se stessi, nella sezione che ha per titolo “Unlocking business potential, especially of SMEs”, è, infatti, quello di creare un ambiente quanto più favorevole possibile allo sviluppo delle medie e piccole imprese, favorendone un rafforzamento sia attraverso un sostegno alla dimensione competitiva in sui esse operano sia attraverso un programma di semplificazione normativa che ne faciliti l’espletamento delle funzioni di business (“The European Council acknowledges the utmost importance of creating a more favourable business environment, especially for small and medium-sized enterprises (SMEs), which are the backbone of the European economy. At Community level, significant progress has been achieved, notably through the Commission’s thorough and balanced impact assessments of new proposals and their strengthened competitiveness dimension, as well as the rolling programme of simplification”, p. 8, p.to 27). Il principio guida continua ad essere il “think small first”, che riconosce alle PMI un ruolo fondamentale nella creazione e nella gestione di occupazione e crescita.
Di qui il terzo obiettivo: “Increasing employment opportunities for priorità categories”, vale a dire la creazione di maggiori opportunità di occupazione per le categorie più sensibili, come i giovani, le donne, i lavoratori anziani, le persone disabili, gli immigrati legali e le minoranze. Si tratta, in realtà, del ridimensionamento delle garanzie fondamentali del diritto del lavoro. Sempre più plasmato, quest’ultimo, sulle esigenze primarie delle imprese. Il Consiglio europeo, infatti, prevede, in tal senso, tre priorità: a) attrarre quanta più gente possibile nel mercato del lavoro; b) incrementare l’offerta di lavoro e “ammodernare” i sistemi di protezione sociale; c) migliorare l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese, incrementando gli investimenti in capitale umano attraverso una più idonea istruzione (formazione) e lo sviluppo di adeguate abilità (“attract and retain more people in employment, increase labour supplì and moderniste social protection systems, improbe adaatability of workers and enterprises, and increase investment in human capital through better education and skills”, p. 11, p.to 35). È questo il c.d. “flexicurity-approach”, ove le politiche del mercato del lavoro hanno come epicentro le abilità, le capacità (skills) del lavoratore. L’accezione del termine ‘skill’ non considera la crescita culturale e sociale della persona, dell’individuo, ma, all’opposto, enfatizza la sua preparazione professionale, il suo “essere pronto” di fronte alle esigenze di un mercato del lavoro in evoluzione, pensato per soddisfare pienamente solo le pretese di remuneratività delle strategie d’impresa. Lo stesso “lavoro”, in quest’ottica, si ammanta di connotazioni morali riferite alla sfera della realizzazione meramente individuale, del successo personale, piuttosto che legarsi alla consapevolezza di una rivendicazione e di un diritto sociale. Ciò che il Consiglio europeo chiede agli Stati membri è proprio di consentire uno sviluppo dell’approccio ‘flessibile’ al lavoro, che consenta, peraltro, un aumento delle ore lavorative, eliminando eventuali tempi morti: “develop a life-cycle approach to work, facilitatine swift employment transitions throughout working life and leading to an increase in the total number of hours worked in the economy, and to improving the efficiency of investment in human capital” (p. 11, p.to 37).
3. Il resto del documento è dedicato ai problemi dell’energia, alla questione delle finanze pubbliche e, infine, al completamento del mercato interno.
Nel settore dell’energia, si ribadisce che sono numerose le sfide con cui l’Europa è chiamata a confrontarsi. Esse sono: la difficile situazione dei mercati del petrolio e del gas, la crescente dipendenza delle importazioni, gli alti costi, l’aumento globale della domanda, i rischi legati alla produzione e al trasporto, i cambiamenti climatici, la lentezza con cui si passa alle fonti rinnovabili, la necessità di rendere più trasparenti i mercati. Alla luce di tali impellenze, il Consiglio europeo, rifacendosi al Libro Verde di recente adottato dalla Commissione, dal titolo “Una strategia europea per un’energia sostenibile, competitiva e sicura”, chiede che si dia vita a una politica energetica europea, che abbia come obiettivo primario una reale politica comune, fondata sul raggiungimento di tre finalità: la sicurezza dell’approvvigionamento, la competitività e la sostenibilità ambientale.
In materia di finanze pubbliche, il Consiglio non si discosta dalla ben nota politica macroeconomica dell’Unione, legata alla stabilità dei prezzi e all’osservanza del Patto di stabilità e crescita. Dopo aver preso atto che 12 Stati membri presentano un deficit eccessivo e che sono numerosi quelli il cui debito pubblico supera il fatidico 60% del PIL, il Consiglio chiede ai 25 Stati membri di cogliere le opportunità della ripresa economica per raggiungere il consolidamento fiscale, in linea con gli obiettivi del Patto di stabilità. Ulteriori riforme sarebbero poi necessarie per migliorare la “sostenibilità” dei sistemi sociali e affrontare le sfide poste dall’invecchiamento demografico.
Infine, il Consiglio europeo chiede di fare tutto quanto è necessario per il completamento del mercato interno e per la promozione degli investimenti. In particolare, si dovrà raggiungere entro il 2006 un accordo finale sul sistema di registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche, garantire una tutela adeguata alla proprietà intellettuale, tanto a livello comunitario quanto internazionale, semplificare e modernizzare il meccanismo di imposizione IVA e di controllo delle dogane. Nonché promuovere un mercato finanziario efficiente, integrato a livello europeo. È evidente che con riferimento, ad esempio, alla proprietà intellettuale, il Consiglio europeo abbia in mente l’Accordo TRIPS (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) che ricade sotto la giurisdizione del WTO. Il TRIPS è un accordo che garantisce in pieno i diritti e i privilegi monopolistici delle grandi imprese multinazionali, attraverso la tutela assoluta dei brevetti, dei marchi e dei copyright. Una volta definitivamente implementato, accadrà che il capitale immateriale godrà di tutele finora ancora sconosciute allo stesso capitale materiale. Attraverso il TRIPS, la brevettazione degli elementi di base della vita umana, animale e vegetale li trasforma in fonti di rendita monopolistica per le multinazionali della biotecnologia e dell’agroalimentare.
Ognuno di questi argomenti meriterebbe un commento approfondito.
Ciò che si può rilevare, al primo impatto, è che, stando a questo tipo di documenti ufficiali, sembrerebbe che in Europa non stia accadendo nulla. Eppure si tratta di documenti tanto poco noti ai cittadini europei, quanto assai influenti nella loro funzione di impulso e di definizione degli orientamenti politici generali. Sempre di più, pertanto, appare necessario cercare di decifrarne i contenuti, tentando di comprenderne la prospettiva d’insieme.