1. Con il “Military Commissions Act of 2006” il Congresso degli Stati Uniti ha deciso di riservare alla giurisdizione speciale di apposite Commissioni militari la competenza esclusiva a giudicare degli atti contro la sicurezza nazionale, compiuti da nemici stranieri, combattenti irregolari («any alien unlawful enemy combatant»), posti in stato di detenzione nella base di Guantanamo.
Tali Commissioni militari – si legge nelle osservazioni del Congresso all’Act – vengono istituite dal Presidente Bush nella sua qualità di Capo del potere esecutivo e di Comandante supremo delle Forze Armate, e, dunque, conformemente alla Costituzione («The President’s authority to convene military commissions arises from the Constitution’s vesting in the President of the executive power and the power of Commander in Chief of the Armed Forces», Section 2.3., Findings). Ciò che al Congresso appare come un passaggio logico naturale è il prevedere l’uso di Commissioni militari per fronteggiare l’emergenza dello ‘stato di guerra’ in cui gli Stati Uniti si troverebbero. Tanto che il Congresso richiama, per rafforzare la propria decisione, perfino un precedente giurisprudenziale della Corte Suprema, Madsen v. Kinsella, 343 U.S. 341, 346-48 (1952), ove si stabiliva la legittimità del ricorso a speciali Commissioni, al fine di espletare compiti inerenti a responsabilità governative “urgenti”, correlate alla guerra (Section 2.3., Findings). La tesi è che lo “stato di eccezione” debba prevedere altrettante procedure giudiziali speciali. Si tratta di creare alle leggi di guerra l’habitat ad esse più confacente. E, per quanto il Congresso riconosca la parziale fondatezza dei recenti rilievi della Corte Suprema, come nel caso Hamdan v. Rumsfield, 126 S. Ct. 2749 (2006), rilievi tesi a sottolineare che lo “stato di guerra” non può essere considerato un «assegno in bianco» per il Presidente americano, esso non può fare a meno di ribadire come l’obiettivo principale del legislatore, in questo particolare stato di emergenza costituzionale, rimanga quello di individuare i terroristi e di processarli secondo le leggi di guerra (Section 2.5., Findings).
Il ricorso alle Commissioni militari è, secondo questa prospettiva, non solo inevitabile, ma particolarmente ‘importante’, in un contesto in cui le altre alternative, ivi comprese le stesse Corti marziali, risultano impraticabili. Perché? Nel rispondere a questa domanda l’argomentazione si fa, per così dire, circolare, e, perdendo la forza della ragionevolezza, acquista la forza prepotente dell’eccezionalità, del caso, cioè, non contemplato dall’ordinamento giuridico vigente: il caso del «conflitto continuo», della «guerra perpetua». In un tempo di «conflitto continuo», i terroristi non potranno che abusare delle procedure legali americane: questa è la ragione del ricorso a una giurisdizione militare esclusiva («The terrorists with whom the United States is engaged in armed conflict have demonstrated a commitment to the destruction of the United States and its people, to the violation of the law of war, and to the abuse of American legal processes. In a time of ongoing armed conflict, it generally is neither practicable nor appropriate for combatants like al Quaeda terrorist to be tried before tribunals that include all of the procedures associated with courts-martial», Section 2.6., Findings). Qui, il modo d’essere del processo (la funzione giurisdizionale stessa), lo statuto delle regole processuali, finiscono per coincidere con lo stato di guerra, con il codice militare. Infatti, le Commissioni militari sono necessarie perché, ad esempio, non si può correre il rischio di condividere informazioni segrete, vitali per la sicurezza nazionale, con il nemico; né si può ritenere di poter contare sulla disponibilità testimoniale ordinaria cui si attinge nei normali processi, visto che o i testimoni sono impegnati in guerra o sono morti: in ambedue i casi le norme federali sulla prova non potrebbero essere applicate. E lo stesso dicasi per la impossibilità di fatto di raccogliere prove sui campi di battaglia. Ebbene, cosa può fare – si chiede il Congresso – l’ordinario potere giurisdizionale in questi casi? (Section 2.7 (A), 2.7 (B), 2.7 (C), Findings). Nulla. L’esclusivo judicial review del Military Commissions Act rappresenta, perciò, – a detta del Congresso – un unicum nella storia dei conflitti armati degli Stati Uniti, oltrepassando la finalità del judicial review storicamente riservato alle Commissioni militari, in quanto, nel caso presente, specificamente modellato sulla lotta al terrorismo (Section 2.8, Findings). Né si può ritenere, in questa situazione, che vengano lesi dei diritti fondamentali così come garantiti dalla Convenzione di Ginevra e, in particolare, dal suo art. 3, in quanto si tratterebbe di obblighi assunti fra nazioni e non tra una nazione e dei terroristi.
2. Questa la logica del provvedimento, la ricostruzione della sua ratio secondo il legislatore americano.
Diventa allora interessante osservare come – una volta stabilite queste coordinate politiche legittimanti – il modo di procedere di tali Commissioni militari, minuziosamente descritto nel Military Commissions Act, risponda a un tessuto di regole del tutto estraneo alla struttura e alle norme dello ‘Stato di diritto’.
Di particolare importanza è il paragrafo § 949.a (“Rules”) del Military Commissions Act, dedicato al regime di ammissibilità delle prove presentate dall’accusa agli organi giudicanti militari. Vi si legge che : A) la prova sarà ammissibile se, a parere del giudice militare, essa potrà assumere un qualche valore probatorio secondo il metro di valutazione di una persona ragionevole («Evidence shall be admissible if the military judge determines that the evidence would have probative value to a reasonable person»); B) la prova non potrà essere esclusa solo perché raccolta senza autorizzazioni (illecitamente) («Evidence shall not be excluded from trial by military commission on the graounds that the evidence was not seized pursuant to a search warrant or other authorization»); C) le dichiarazioni dell’accusato, diversamente ammissibili, non saranno escluse sulla base di una coercizione subita o sulla base di un’autoincriminazione coatta, fintantoché la prova sarà conforme a quanto stabilito nel paragrafo § 948.r (« A statement of the accused that is otherwise admissible shall not be excluded from trial by military commission on grounds of alleged coercion or compulsory self-incrimination so long as the evidence complies with the provisions of section 948r of this title»).
Evidentemente, questo punto (C) del § 949.a.2., si riferisce alle dichiarazioni degli imputati rese sotto tortura. In proposito il rinvio è al paragrafo 948.r. Qui, dopo aver, in apertura, genericamente escluso che si possano utilizzare dichiarazioni ottenute con la tortura, il legislatore americano stabilisce un’importante eccezione. Eccezione che, di fatto, finisce per rendere il precedente divieto sostanzialmente nullo, trasformandolo in una mero ossequio di stile (o, se si vuole, in un omaggio ‘beffardo’) al principio di legalità. In ogni caso – è scritto al punto (c) del § 948.r – le dichiarazioni rese dall’imputato, dichiarazioni per le quali si contesta il grado di coercizione, possono essere ammesse al processo solo se il giudice militare ritiene che: 1) la totalità delle circostanze rende le dichiarazioni affidabili e dotate di un sufficiente valore probatorio; 2) gli interessi della giustizia possono essere serviti meglio ammettendo le dichiarazioni come prove («A statement … in which the degree of coercion is disputed may be admitted only if the military judge finds that – “(1) the totalitàyof the circumstances renders the statement reliable and possessing sufficient probative value; and “(2) the interests of justice would best be served by admission of the statement into evidence»). Per questo tipo di prove “contestate”, poi, bisogna distinguere tra le dichiarazioni ottenute dagli imputati prima dell’entrata in vigore (avvenuta il 30 dicembre 2005) del “Detainee Treatment Act of 2005”, e le dichiarazioni ottenute, invece, dopo, che quel provvedimento legislativo fu approvato. Nel secondo caso, infatti, il giudice potrà ritenere valide le dichiarazioni degli accusati, qualora i metodi di interrogatorio, usati, per ottenerle, non abbiano coinciso con l’ipotesi di trattamento crudele, disumano e degradante, espressamente proibito dalla sezione 1003 del “Detainee Treatment Act of 2005” («the interrogation methods used to obtain the statement do not amount to cruel, inhuman or degrading treatment prohibited by section 1003 of the Detainee Treatment Act of 2005»).
3. Si può notare, innanzi tutto, come la questione su cui si appunta l’attenzione del legislatore non sia il divieto di coercizione in sé, ma solo il «grado» di coercizione («the degree of coercion»). E, quindi, non l’ammissibilità o l’inammissibilità della tortura, ma esclusivamente il vaglio giuridico delle sue diverse possibilità e manifestazioni (applicazioni), con esclusione soltanto dei casi estremi (ciò che si può qualificare come trattamento crudele, disumano e degradante tout court). Come se la casistica delle crudeltà si potesse misurare all’interno di una scala quantitativa, capace di indicare il tasso di disumanità accettabile all’interno di una pratica detentiva comunque contraria ai diritti e alla dignità della persona. Casi estremi, peraltro, che il legislatore non ritiene di dover considerare neanche alla stregua di una causa di esclusione delle prove per quelle dichiarazioni rese dagli imputati prima dell’entrata in vigore del Detainee Treatment Act of 2005, in cui furono parzialmente recepiti i moniti della Corte Suprema sul trattamento dei prigionieri a Guantanamo. Per quei prigionieri, cioè, si dovrebbe considerare legittima ogni tipologia di tortura, anche quella più infame e degradante, perché si tratterebbe di dichiarazioni rese in assenza di uno specifico atto normativo della Camera dei rappresentanti che avrebbe dovuto condannare i casi più lampanti di coercizione fisica e morale. Che fine avrebbero fatto, dunque, i principi della costituzione americana?
In secondo luogo, assai pericolosa e ambigua appare la formula del «miglior servizio reso agli interessi della giustizia», utilizzata dal legislatore per giustificare l’acquisizione coercitiva di prove. Con tale formula si potrebbe legittimare qualsiasi cosa: dalla c.d. “cura del sonno” al genocidio.
A chiudere questo quadro normativo davvero poco rassicurante ci sono, infine, due punti altrettanto importanti.
Il fatto che le prove ottenute o raccolte possano essere mantenute segrete per tutelare informazioni di rilievo (“privilegiate”) per la sicurezza nazionale, la cui pubblicità processuale potrebbe nuocere agli Stati Uniti (cfr. § 949.d)
Il fatto che, in specifica materia di habeas corpus, sia fatto espresso divieto di far valere i diritti violati degli imputati dinanzi a qualsiasi altro tipo di giurisdizione (Sec. 7: “habeas corpus matters”).