Il conflitto di attribuzioni sul potere di grazia

Il testo del ricorso

Il Presidente della Repubblica ha sollevato conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, impugnando l’atto con il quale il Ministro della Giustizia si è rifiutato di controfirmare un decreto di concessione della grazia. Qualora il ricorso fosse ritenuto ammissibile, la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sull’interpretazione dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, secondo il quale il Presidente della Repubblica «può concedere la grazia e commutare le pene», e dell’articolo 89, comma 1, in forza del quale «nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità».
Il ricorso del Presidente è solo l’ultimo atto di una delicata vicenda che ha visto contrapporsi il Capo dello Stato e il Ministro della Giustizia in ordine alla questione della titolarità del potere di concessione della grazia. Al di là del merito della vicenda, che non si è certo distinta, sotto molteplici profili, per un rigoroso rispetto delle regole di correttezza costituzionale relative ai rapporti tra gli organi più o meno direttamente coinvolti, preme qui brevemente proporre una riflessione su un aspetto di teoria generale: l’intero dibattito in ordine alla titolarità ultima del potere di concessione della grazia, e la stessa presentazione del ricorso da parte del Capo dello Stato, costituiscono in sè un sintomo della (e contribuiscono ad aggravare ulteriormente la) debolezza delle categorie e degli strumenti di cui si serve la scienza del diritto costituzionale. Dottrina e prassi avevano infatti da tempo dimostrato l’esistenza di (quella che sembrava essere) una «norma costituzionale consuetudinaria», in forza della quale i due enunciati sopra citati devono essere interpretati nel senso che il potere di concedere la grazia non è un potere di prerogativa del Capo dello Stato.
Nel dibattito che ha accompagnato la vicenda che ha dato origine al ricorso, la Costituzione è stata invece oggetto di una interpretazione svalutativa, dal momento che si è tenuto conto dei suoi soli enunciati normativi, ossia delle sue sole espressioni lessicali. Questa operazione peraltro ha contribuito a recare con sé un giudizio negativo della Costituzione stessa, secondo il quale la lettera del testo non sarebbe sufficientemente chiara poiché non indicherebbe in modo esplicito il titolare ultimo del potere di concedere la grazia. Ne è derivato un apprezzamento (anche da parte dello stesso Ministro della Giustizia) nei confronti della presentazione del ricorso alla Corte, chiamata, finalmente, a chiarire il significato di disposizioni costituzionali imprecise, indeterminate, poco chiare.
Invece, l’esistenza di una chiara «norma costituzionale consuetudinaria» sul punto era già stata individuata e argomentata dalla dottrina, oltre che confermata dalla prassi. Si era da tempo posto in evidenza come, in estrema sintesi, con il passaggio dallo Stato assoluto allo Stato di diritto la grazia non avrebbe più potuto costituire il massimo strumento di amministrazione della giustizia nelle mani del sovrano. Finché quest’ultimo, «nell’esercizio delle sue funzioni, non era considerato subordinato all’osservanza della legge, ben si poteva ammettere che la grazia costituisse un modo di esercitare la funzione giurisdizionale secondo equità e giustizia, piuttosto che secondo legge positiva», e il fondamento ideologico di questa concezione della grazia stava nella convinzione che «il diritto posto non [fosse] la sfera più alta e che esist[esse] una giustizia superiore cui il sovrano, legibus solutus e quindi non vincolato all’osservanza della giustizia convenzionale, [poteva] liberamente attingere» (G. Zagrebelsky, Amnistia, indulto e grazia, Milano, Giuffrè, 1974, p. 31).
E’ noto, invece, come l’evoluzione della forma di governo parlamentare, con l’affermarsi delle responsabilità ministeriali in genere, ha comportato l’attrazione anche della grazia tra i poteri sostanziali del governo, soggetti al controllo politico delle camere rappresentative (…del governo, e non del solo Ministro della Giustizia. Sul punto v. V. Onida, Il vero conflitto è con il Governo. La Consulta lo chiami in causa, in Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2005, p. 12).
Ma al di là della questione specifica sottesa al conflitto tra i due poteri, al di là della materia coinvolta nell’attuale dibattito, il fatto in sé della presentazione del ricorso esprime un dato: l’incertezza assoluta che regna nella scienza costituzionalistica, anche come risultato della percezione della fragilità del suo stesso oggetto. Rimettere in discussione le norme costituzionali vigenti, ancorché non scritte, significa privare lo studioso costituzionalista dei suoi stessi strumenti di lavoro. Nella crisi generale nella quale si trova la scienza costituzionalistica, dovuta anche ai ricorrenti tentativi di screditare il suo oggetto (qui, si ripete, ritenuto vago, impreciso, non chiaro) attraverso la retorica delle riforme, anche l’atteggiamento delle istituzioni contribuisce a scardinare la certezza del diritto costituzionale e, involontariamente, a suffragare le tesi dei detrattori della Costituzione vigente.