1. Con ordinanza n. 357/2005 la Corte costituzionale si è di nuovo pronunciata, a poco più di un anno di distanza dalla sentenza n. 154 del 2004, in ordine allo spinoso problema relativo ai limiti dell’ irresponsabilità del Capo dello Stato nell’esercizio del c.d. potere di esternazione. Essa ha pertanto dichiarato ammissibile un secondo ricorso per conflitto di attribuzione presentato dall’ex Presidente della Repubblica Cossiga contro la sentenza di condanna pronunciata a suo carico dalla Corte di appello di Roma1 .
I fatti in discussione si riferiscono ad un’annosa e assai nota vicenda – o meglio a due vicende gemelle e parallele2 – nate molti anni fa da distinti procedimenti, per risarcimento danni, intentati contro l’allora Capo dello Stato da noti esponenti della vita politica nazionale in riferimento a giudizi, ritenuti gravemente diffamatori, che questi aveva espresso nei loro confronti; giudizi i quali, secondo Cossiga, sarebbero stati pronunciati in risposta ai tentativi compiuti al fine di gettare discredito sull’istituzione presidenziale3 .
Le persone offese, chiamatolo in causa, hanno, prima, visto accogliere le loro istanze dal tribunale, quindi capovolgere la sentenza in sede di appello, infine, di nuovo, riconoscere le loro ragioni dalla Cassazione, che annullando, con rinvio, le decisioni della Corte di appello, ha sostanzialmente confermato l’interpretazione del giudice di primo grado.
Di qui, il primo ricorso per conflitto di attribuzione presentato da Cossiga contro le pronunce della Corte di cassazione, con il quale veniva da questi contestata non solo l’avvenuta lesione della prerogativa presidenziale dell’irresponsabilità sancita ex art.90 Cost., ma anche (ed in via preliminare) la stessa legittimazione del giudice ordinario a giudicare circa i limiti di applicazione della garanzia costituzionale. Un conflitto solo in parte risolto dalla Corte con la sentenza sopra richiamata, che pure ha respinto l’istanza dell’ex Capo dello Stato.
Il giudice costituzionale, infatti, se, da un lato, ha ritenuto che la magistratura avesse legittimamente esercitato le proprie attribuzioni nel giudicare i comportamenti ascritti all’allora Presidente della Repubblica (non potendosi negare “la competenza dell’autorità giudiziaria a pronunciarsi, nell’esercizio della sua generale funzione di applicazione delle norme, ivi comprese quelle della Costituzione”); dall’altro, pur facendo propri i principi espressi dalla Cassazione quanto all’applicazione dell’art. 90 Cost. alle esternazioni presidenziali, ha, comunque, giudicato premature le censure avanzate dal senatore, in quanto riferite a criteri non ancora applicati al caso concreto dal giudice di rinvio.
La riproposizione del conflitto nasce, dunque, dalla nuova sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di appello di Roma, la quale, in applicazione dei medesimi principi, non ha ritenuto le esternazioni in giudizio in alcun modo ricollegabili all’esercizio di funzioni presidenziali.
Non è qui possibile esaminare le argomentazioni addotte dal giudice romano. Una cosa è certa: qualunque sia il giudizio che vorrà pronunciare la Corte, esso, se pure risolverà in via definitiva il caso in esame, non potrà, in modo altrettanto risolutivo, chiudere la questione relativa ai limiti applicabili alle dichiarazioni poste in essere dal Capo dello Stato nell’esercizio del potere in questione.
Non vi è dubbio, infatti (anche a tacere delle molte problematiche che ruotano intorno a questa vicenda)4 , che i principi espressi dalla Cassazione – e fatti propri dal giudice costituzionale – aprono questioni assai complesse e delicate. Essi, infatti, se pure astrattamente condivisibili in quanto ispirati ad una rigorosa applicazione della prerogativa prevista ex art. 90 Cost., involgono profili che, come l’esperienza ha ampiamente dimostrato, sono di per sé più adatti ad essere trattati con i parametri del ragionamento politico che non di quello giuridico, che delle pronunce di Corte e magistratura costituisce, invece, il naturale fondamento.
Quali, dunque, in sintesi, i canoni dettati dalla Cassazione e fatti propri dal giudice costituzionale: a) ai sensi dell’art. 90 Cost. l’immunità del Presidente della Repubblica copre solo gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (nelle quali rientrano, oltre quelle previste dall’art. 89 Cost., anche quelle di cui all’art. 87 Cost., tra le quali la stessa rappresentanza dell’unità nazionale) e non quelli extrafunzionali; né la continuità del munus comporta che l’immunità riguardi ogni atto compiuto dalla persona che ha la titolarità dell’organo per quanto monocratico. b) Tra le funzioni del Presidente della Repubblica coperte dall’immunità può annoverarsi anche l’ “autodifesa” dell’organo, ma solo allorché l’ordinamento non assegni detta difesa alle funzioni di altri organi ovvero nei casi in cui oggettive circostanze concrete impongano l’immediatezza dell’autodifesa. c) L’autorità giudiziaria ha il potere di accertare se l’atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale, salva la facoltà del Presidente della Repubblica di sollevare conflitto di attribuzione per menomazione. d) Pur non essendo il Presidente della Repubblica vincolato ad esprimersi solo con messaggi formali (controfirmati a norma dell’art. 89 Cost.), il c.d. “potere di esternazione”, che non è equiparabile alla libera manifestazione di pensiero di cui all’art.21 Cost., non integra di per sé una funzione, per cui è necessario che l’esternazione sia strumentale o accessoria ad una funzione presidenziale, perché possa beneficiare dell’immunità. e) il legittimo esercizio della critica politica, riconosciuta ad ogni cittadino, benchè possa sopportare toni aspri e di disapprovazione, non può trasmodare nell’attacco personale o nella pura contumelia, con lesione del diritto di altri all’integrità morale5 .
A leggere, dunque, la pronuncia del giudice costituzionale (e della Cassazione), nessuna differenza sussisterebbe – quanto all’ambito di applicazione delle rispettive immunità – tra le esternazioni del Capo dello Stato e quelle dei membri delle Camere: anche quest’ultime, come è noto, “coperte” dall’insindacabilità prevista ex art. 68 Cost., nei limiti in cui esse risultino poste in essere “mediante strumenti, atti e procedure, anche ‘innominati’, ma comunque rientranti nel campo di applicazione del diritto parlamentare” e che il membro del Parlamento compia “ proprio solo in quanto riveste tale carica”6 . E questo, nella condivisibile prospettiva di circoscrive entro limiti il più possibile ristretti gli ambiti entro i quali far valere le garanzie che il nostro ordinamento riconosce a tutela dei supremi organi dello Stato. Ambiti che, pur tenendo conto dei diversi modi attraverso i quali prendono forma i comportamenti di chi ricopre le massime cariche dello Stato, non ammettono deroghe nell’accertamento di quel nesso funzionale, “presidio” – ad usare di nuovo le parole della Corte – oltre che delle prerogative parlamentari (e possiamo aggiungere, del Capo dello Stato) “del principio dell’uguaglianza e dei diritti fondamentali di terzi lesi”7 .
Da ciò la soddisfatta constatazione di una ricostruzione il più possibile unitaria delle immunità stabilite in Costituzione; almeno fin dove possa apparire arbitraria qualsivoglia forma di distinzione.
Come è stato giustamente sottolineato, infatti, pur nell’ indiscussa diversità della ratio giustificativa che sta alla base delle garanzie rispettivamente sancite ex art. 68 e 90 Cost. (la tutela dell’autonomia delle Camere, da un lato, ed il ruolo costituzionale assegnato al Capo dello Stato, dall’altro), non pochi gli elementi comuni ad entrambe: l’identità del fraseggio normativo (“nell’esercizio delle funzioni”), in primo luogo; gli uguali profili, poi, che contrassegnano le due immunità. Sia l’una che l’altra a carattere funzionale, sostanziale e permanente ed entrambe volte ad evitare interferenze dell’autorità giudiziaria nell’attività dei parlamentari e del Capo dello Stato. Infine, ambedue eccezionali, proprio perché derogatorie del diritto comune8 .
Da ciò, anche, l’auspicato rafforzamento “del dialogo giurisprudenziale” tra di esse9 , volto a consolidare “un minimo comune denominatore” fra le diverse discipline, a tutto vantaggio di un più neutro ed obiettivo funzionamento degli istituti di garanzia. Istituti che – si è detto – assai più che nel passato, esigono applicazioni il più possibile certe e rigorose; in grado, cioè, di rendere più convincente il funzionamento del nostro sistema, messo duramente alla prova dal continuo ripetersi di conflitti politico-istituzionali10 .
2. Inutile rimarcare in questa sede la bontà di una tale prospettiva, che potrebbe risultare addirittura foriera di inaspettati sviluppi (questa volta sul versante parlamentare).
Ci riferiamo, naturalmente, all’affermata negazione a favore del Capo dello Stato di quel “potere inibente” che le Camere si sono viste riconoscere alle proprie delibere di insindacabilità fin dalla lontana sentenza n. 1150/88.
E’ questo, come sappiamo, il punto più delicato e discusso della giurisprudenza costituzionale in materia di immunità dei parlamentari.
A partire da quella pronuncia, infatti, non si è mancato a più riprese di sottolineare come, in mancanza di esplicite disposizioni a riguardo, apparisse tutt’altro che convincente l’affermata menomazione delle attribuzioni del giudice ordinario e si è piuttosto sottolineato come, proprio nel rispetto dell’ordine costituzionale delle competenze, dovesse spettare al giudice – e non certo al Parlamento – il compito di interpretare ed applicare le norme attinenti ai presupposti della punibilità e della procedibilità delle azioni giudiziarie intentate a carico di deputati e senatori11 .
L’affermazione operata, apertis verbis, del principio contrario costituisce, quindi, fatte le debite differenze tra Camere e Capo dello Stato (“stante la non configurabilità di un potere di definizione unilaterale, in causa propria, dei limiti della propria responsabilità”)12 , un importante precedente.
La Corte ha, infatti, per la prima volta ammesso che, proprio nel rispetto del naturale ordine di quelle competenze, “(spettasse) in prima istanza” all’autorità giudiziaria decidere “circa l’applicabilità in concreto, in rapporto alle circostanze del fatto, della clausola eccezionale di esclusione della responsabilità”; salva naturalmente la possibilità di sollevare conflitto al fine di “restaurare – in caso di cattivo esercizio della funzione giurisdizionale – la corretta osservanza delle norme costituzionali”13 .
L’affermazione del giudice costituzionale è così inequivoca e perentoria che, nonostante le più scettiche posizioni espresse dalla dottrina a riguardo14 , rende del tutto legittime le aspettative anche sul versante della giurisprudenza in materia di immunità dei parlamentari15 ; oggi “messa alle strette” da una disciplina (quella dettata dall’ ancora recente l. n. 140/03) la quale, forzando sensibilmente lo schema originario, reintroduce quella che fu a suo tempo definita una sorta di pregiudizialità parlamentare che impedisce al giudice che non intenda accogliere l’eccezione di insindacabilità avanzata da un deputato o un senatore, di proseguire il giudizio senza investire della questione la Camera di appartenenza (art. 3.4 l. 140/03).
La Corte costituzionale è riuscita, come si sa, a non affrontare fino ad oggi la delicata questione16 . Il problema non è, tuttavia, fra quelli destinati a scomparire nell’agenda dei lavori. Essa, allora, se non vorrà irragionevolmente ignorare il proprio precedente, non potrà non prendere in considerazione un eventuale riallineamento dei meccanismi oggi previsti per l’accertamento della responsabilità di chi è posto ai vertici del nostro sistema costituzionale e, anche se vorrà confermarne le principali differenze, non potrà certo non considerare l’evidente distanza che separa la rintroduzione della c.d. pregiudizialità parlamentare dall’affermata priorità della competenza del giudice ordinario. Con la conseguenza, quanto meno, di riconsegnare allo stesso giudice il pieno esercizio delle proprie attribuzioni almeno fino a quando non sopraggiunga la delibera di insindacabilità che ne preclude l’ulteriore svolgimento, salva sempre la possibilità di sollevare conflitto.
3. E, tuttavia, nonostante gli auspici di un possibile sviluppo “del dialogo giurisprudenziale” fra le due immunità, non si può non intravedere le obiettive difficoltà che attendono i giudici (e, con essi, la Corte) nell’adempiere al compito che è stato ad essi assegnato con la sentenza n.154/04.
Non si dimentichi, infatti, che il giudice costituzionale ha esplicitamente ammesso17 come, nonostante i tentativi fatti per dare una rigorosa interpretazione del “nesso funzionale”, risulti comunque “vana ogni pretesa di cristallizzare una regola di composizione del conflitto” che demarchi con la necessaria certezza il limite che separa le manifestazioni del pensiero sindacabili o insindacabili dei membri delle Camere: costretto, il giudice costituzionale, a dispetto di qualsivoglia rigore interpretativo, ad adottare criteri che, privilegiando canoni più sostanziali che formali, meglio si adattano alla tipicità dei singoli casi concreti: la più recente giurisprudenza a riguardo ne è del resto emblematica riprova18 .
Cosa accadrebbe se i giudici (e la Corte) dovessero operare, con un’uguale concretezza, nel ben più difficile e periglioso campo delle esternazioni presidenziali?
Certo non mancherebbero anche per il Capo dello Stato parametri di riferimento, ai quali si possa ricorrere.
Chi si è posto in questa prospettiva, ha messo in evidenza come non pochi siano gli elementi sintomatici che potrebbero essere utilizzati a questo fine.
Anche senza dover attingere al canone più incerto e sfumato della forma espressiva (che – si è detto – renderebbe difficile ricondurre all’organo presidenziale le esternazioni contrassegnate da un tasso di offensività troppo elevato per poterle riferire alla “moderazione” che ne contrassegna l’ufficio)19 , si sono così evidenziati alcuni criteri in grado di operare in tal senso: il ruolo (pubblico o privato) dei destinatari dell’esternazione, per prima cosa. Ma, ancora, l’oggetto stesso dell’esternazione, ovvero, le modalità di tempo e di luogo, in cui essa fosse posta in essere20 .
E, tuttavia, nonostante il possibile ricorso ad ognuno di questi criteri (ed altri ancora)21 , resta indubbio l’ampio margine di discrezionalità che contrassegnerebbe operazioni interpretative volte a definire la funzionalità o l’ extrafunzionalità delle esternazioni presidenziali.
E ciò, si badi bene, non perchè non sia possibile identificare una “sfera privata” alla quale ricondurre le opinioni espresse dal Presidente della Repubblica, nell’erroneo convincimento dell’impossibilità di distinguere la persona fisica dalla carica (come le due supreme corti hanno ampiamente dimostrato). Il fatto è (come sempre le due corti hanno ammesso) che la sfera entro la quale far rientrare l’attività privata del Capo dello Stato è, comunque, destinata ad essere così angusta e sfumata da rendere assai difficile definirne i limiti al di là dei quali rendere operativa la prerogativa di cui all’art. 90 Cost.
Una difficoltà, si sa, che nasce, non solo per l’indubbio valore politico (e quindi istituzionale) che assume ogni dichiarazione del Capo dello Stato, ma soprattutto per il quasi insuperabile ostacolo di poter definire, con la necessaria certezza, l’ambito entro il quale si svolgono le stesse funzioni presidenziali. E ciò soprattutto là dove – sempre a seguire l’indicazioni delle due corti – si annoveri tra di esse non solo la stessa rappresentanza dell’unità nazionale (come unanimemente affermato), ma anche la funzione c.d. di “autotutela” dell’istituzione presidenziale.
Da un lato, infatti, la rappresentanza dell’unità nazionale, ben lontano dall’esaurirsi in una mera rappresentazione simbolica e formale, si riferisce ormai, ad un’attività assai più complessa e articolata. La quale, tesa come è a fare dell’organo presidenziale il “principale tutore e garante” dei “valori e degli interessi comuni dell’intera nazione” (oltre che dei “fini costituzionali permanenti”), trova proprio nella varietà delle forme attraverso le quali essa si estrinseca il suo naturale veicolo di espressione22 .
D’altro lato, come la vicenda in esame ha ampiamente dimostrato, altrettanto varie e imprevedibili possono risultare le modalità attraverso le quali si ricorra a forme di “autotutela”, imposte da “esigenze oggettive” che obblighino il Capo dello Stato a “rispondere con immediatezza ed urgenza ad attacchi diretti all’organo presidenziale, per riaffermare le sue competenze ovvero per respingere offese attuali al decoro e al prestigio dell’ Istituzione”23 .
Ma, allora, se indeterminati e sfumati possono risultare gli stessi confini tra ciò che rientra nelle funzionali presidenziali (coperte dall’immunità ex art. 90 Cost.) e ciò che invece può collocarsi sul piano, necessariamente residuale, dell’attività privata (coperta da forme di responsabilità penale o civile), anche il giudizio riservato al giudice (e, se del caso, alla Corte costituzionale) risulta fortemente risicato e difficilmente esplicabile se non facendo ricorso a parametri assai incerti e indefiniti. Con la conseguenza, ci pare, di provocare, contrariamente a quanto accaduto per i singoli parlamentari, un ampliamento, piuttosto che una restrizione, della sfera di insindacabilità dell’operato dell’organo presidenziale.
E, tuttavia, il compito del giudice del rinvio è apparso in questo caso tutt’altro che difficile. Egli, infatti, non sembra aver avuto alcun dubbio e, nel riscrivere la sentenza sulla falsariga dei principi dettati dalla Cassazione, ha riconfermato la sentenza di condanna del tribunale romano. Vedremo se la Corte vorrà, con altrettanta sicurezza, confermarne il giudizio.
Vero è che la vicenda, ben può ascriversi, per le forme e il contesto nel quale sono stati pronunciati i giudizi attribuiti all’allora Capo dello Stato, tra i c.d. “casi di scuola” e, come tali, non ripetibili in futuro.
Non vi è dubbio, infatti, come è stato efficacemente sottolineato, che sia contrario alla “morale costituzionale”, prima ancora che a qualsivoglia norma giuridica, che la massima carica dello Stato usi il proprio potere di esternazione per gettar discredito su singole persone24 . La fiducia (e l’auspicio) è che esso rimanga realmente tale, senza che il giudice costituzionale debba essere nuovamente investito di questioni che attengano al legittimo esercizio delle esternazioni presidenziali.
Non vogliamo neppure immaginare, infatti, le conseguenze che il ripetersi di vicende simili a quella in esame provocherebbe sul nostro già debole tessuto politico ed istituzionale; oggi messo alla prova dalla gravità del conflitto in esame, ma che domani potrebbe trovarsi non in condizione di risolverlo con la dovuta obiettività e certezza.
1V. Corte di appello di Roma, sez. II civile, 23 settembre, 2004, n. 4024.
2 Su cui v. Il”Caso Cossiga”. Capo dello Stato che esterna o privato cittadino che offende?, a cura di R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi, Giappichelli, Torino, 2003.
3 L’attore del giudizio era, infatti, fra i firmatari della richiesta di messa in stato di accusa dell’allora Capo dello Stato.
4 Su cui v. in particolare, oltre al volume già citato alla nota n.2, L. Elia, Il Presidente iracondo e i limiti della sua responsabilità, in Giur. cost., 2004, 1608 ss; A. D’Andrea, L’irresponsabilità del Capo dello Stato non è pari all’insindacabilità dei parlamentari: la Corte “distingue” e rilancia l’interpretazione restrittiva dell’immunità, Ivi, 1613; E. Malfatti, La “doppia” pronuncia sul “caso Cossiga”: di molte strade percorribili, la Corte non sceglie la più lineare, Ivi, 1625.
5 V. sentenza n. 154/04, punto n.1 del considerato in fatto. La Corte non ha, invece preso in considerazione un altro principio, sempre espresso dalla Cassazione, che faceva rientrare le ingiurie o le diffamazioni espresse dal Capo dello Stato entro l’ambito dell’immunità ex art.90 Cost. se commesse “a causa” della funzione, e cioè come estrinsecazione modale della stessa, “non essendo sufficiente la mera contestualità cronologica, che dà atto solo ad un atto arbitrario concomitante”.
6 V.sentenza n. 120/04, punto n. 5 del considerato in diritto.
7 V. ancora sentenza n. 120/04, punto n. 5 del considerato in diritto
8 V. A. Pugiotto, Il “caso Cossiga” e la teoria dei vasi comunicanti, in Il “caso Cossiga”, cit., 406.
9 V. F. Giupponi, “Uno, nessuno, centomila”. Personaggi e interpreti dell’immunità presidenziale di fronte alla Corte costituzionale, www.forumcostituzionale.it, 1.6.2004.
10 V.F. Sorrentino, Tra immunità e privilegi, www.federalismi.it, n.16/2004.
11 V. in particolare G. Zagrebelsky, La riforma dell’autorizzazione a procedere, in Corr. giur., 1994, 284; R. Romboli, La “pregiudizialità parlamentare” per le opinioni espresse e i voti dati dai membri delle Camere nell’esercizio delle loro funzioni: un istituto nuovo da ripensare (ed abolire), in Foro it., 1994, I, 997.
12 V. sentenza n.154/04, punto 5 del considerato in diritto.
13 V. ancora sentenza n. 154/04, punto n. 5 del considerato in diritto.
14 V. A. D’Andrea, L’irresponsabilità del Capo dello Stato, cit., 1616 ss; E. Malfatti, La “doppia” pronuncia, cit., 1633 ss.
15 V. R. Romboli, Pregiudizialità parlamentare, effetto inibente della delibera delle Camere e una lettura più morbida del “nesso funzionale” da parte della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2004, 1235.
16 V sentenza n.120/04; ordinanza n. 311/05.
17 V. di nuovo, sentenza n.120/04, punto n.5 del considerato in diritto.
Sulla complessa attività compiuta a riguardo dalla Corte v. da ultimo M. Ruotolo, Corte, giustizia e politica, in Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. Tondi della Mura, M. Carducci, R.G. Rodio, Giappichelli, Torino, 2005, 323 ss.
18 V. per tutte, le discusse sentenze n. 347 e n. 348/04 sul c.d. “caso Pera”.
19 V. A. Ruggeri, L’ex Presidente della Repubblica come “potere dello Stato” e le sue (pseudo)esternazioni davanti alla Corte, in Il “caso Cossiga”, cit., 26.
20 V. F.S. Marini, Controfirma ministeriale e irresponsabilità del Presidente della Repubblica nell’esercizio del potere di esternazione, in Giur. cost., 2000, 3443.
21 V. F.S. Marini, op. loc. cit.
22 V. L. Paladin, Presidente della Repubblica, in Encicl.dir., XXV, Milano, Giuffrè, 1986, 222.
23 V. Cassazione civile, sez. III, sentenza 27.6.2000, n.. 8734, punto n.14.3.
24 V. A. Ruggeri, op. cit., 29.