La Banca d’Italia, nello svolgimento delle sue funzioni di consulenza e di informazione in materia economica e finanziaria in favore del Paese e, quindi, del pubblico, ha presentato, il 19 novembre 2005, il Bollettino economico n. 45 (relativo alla congiuntura economica internazionale, alle politiche economiche e finanziarie nell’area dell’euro e in Italia).
Le 105 pagine di cui si compone, tracciano un quadro preoccupante dell’economia italiana. Il Paese appare avviluppato in una stagnazione nella quale risulta difficoltoso potersi districare.
L’andamento dell’economia reale registra una crescita lenta che si prefigura, per il 2006, di poco superiore all’1 per cento. Questa moderata ripresa è destinata, tuttavia, ad “attenuare”, ma non a “risolvere” i «problemi dell’economia italiana» che sono di natura strutturale.
Si fa riferimento, in particolare, alla competitività del sistema produttivo in diminuzione e del debito pubblico in aumento. I contenuti del Bollettino economico ricalcano lo schema di analisi adottato dagli ispettori del Fondo monetario internazionale, che, nella loro lettera al Governo italiano, avevano sollecitato l’Esecutivo a non sottovalutare le difficoltà di fondo della nostra economia che registra un tasso di crescita del prodotto potenziale pari all’1,2 per cento. Mentre, dunque, lo sviluppo economico italiano si attesterà, anche per il prossimo anno, entro questo margine, il mondo, invece, crescerà ad un ritmo del 4,3 per cento, l’Europa dell’1,6 per cento e gli Stati Uniti del 3,3 per cento.
L’andamento degli indicatori congiunturali non risulta, tuttavia, univoco. Emerge, infatti, da un lato, una accelerazione della domanda ed un aumento del clima di fiducia della famiglie e, dall’altro, l’esistenza di stime che indicano come la produzione industriale sia rimasta, nel bimestre Ottobre-Novembre, stazionaria, ossia attestata sul livello raggiunto a Settembre. Essa segna, comunque, una flessione di mezzo punto percentuale sul trimestre precedente.
Sulla base di queste premesse si prevede, quindi, che l’incremento del PIL sarà ancora più basso di quello, pur modesto, realizzatosi nel terzo trimestre.
La scarsa crescita dell’economia nel corso del 2005 produrrà, necessariamente, effetti negativi anche nel prossimo anno. La ragione principale di essa viene individuata, tuttavia, nella questione della produttività. Si evidenzia, infatti, che, nel primo semestre dell’anno, l’aumento del costo del lavoro è stato del 25 per cento mentre la produttività ha subito una flessione dell’1,5 per cento. Il costo del lavoro ha subito, cioè un aumento del 4,1 per cento per unità di prodotto. In Francia, nel medesimo periodo, il medesimo costo ha fatto registrare un -0,9 per cento ed in Germania un –3,2 per cento.
Si è osservato, inoltre, che i problemi del nostro Paese hanno un origine risalente e sono di carattere strutturale.
Non sono state colte le opportunità offerte dalle innovazioni tecnologiche ai fini di una riorganizzazione dell’apparato produttivo, sicché la struttura produttiva non è stata in grado di reggere la sfida competitiva della globalizzazione. Nell’ultimo decennio la quota del commercio estero dell’Italia si è dimezzata e l’export ha, pertanto, perso quel ruolo di volano che conserva, invece, negli altri Paesi.
Il Bollettino economico evidenzia che, dopo dieci anni di continua flessione, il rapporto tra il debito ed il PIL tornerà, quest’anno, ad aumentare, passando dal 106,5 al 108,2 per cento.
Risulta, pertanto, tangibile la preoccupazione per la tenuta dei conti pubblici italiani. Si ritiene che l’obiettivo del 3,8 per cento di indebitamento netto nel 2006, previsto dalla legge finanziaria, possa essere raggiunto anche se la sfida si profila alquanto impegnativa.
Si è, poi, precisato che servono, in prospettiva, riforme strutturali di spesa pubblica ed il ritorno ad un significativo avanzo primario delle amministrazioni pubbliche per ridurre il peso del debito.
In relazione allo sviluppo si ritiene, in particolare, necessaria «un’azione ad ampio spettro diretta a liberare risorse da destinare al rafforzamento della dotazione di infrastrutture, della formazione di capitale umano e della ricerca; a favorire l’ammodernamento del sistema produttivo; a innalzare il grado di concorrenza sui mercati interni dei prodotti e della proprietà delle imprese; ad aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione».
C’è da segnalare, peraltro, una novità in questo Bollettino economico della Banca d’Italia, ossia l’introduzione di nuovi indicatori di competitività internazionale dei prezzi.
Ora, l’indicatore di competitività internazionale di prezzo di un Paese è costruito come rapporto tra un indice dei prezzi di quel Paese, espresso in una data valuta, e una media ponderata dei corrispondenti indici, espressi nella stessa valuta, dei suoi principali concorrenti sui mercati internazionali. I “pesi” riflettono la rilevanza dei singoli Paesi concorrenti su tutti i mercati di sbocco inclusi nell’indice, compreso quello del Paese considerato.
La Banca d’Italia prende atto che, negli ultimi anni, la crescita del commercio internazionale ha interessato, esponenzialmente, molto di più i Paesi non industriali che i Paesi industriali. «Ciò ha indotto», si legge a p. 16 del Bollettino, «la Banca d’Italia a estendere, da 25 a 62 paesi, la copertura geografica degli indicatori mensili che essa elabora per misurare l’evoluzione della competitività internazionale nel settore manifatturiero, calcolati sulla base dei prezzi alla produzione».
Cosicché, mentre «negli indicatori precedenti la competitività era misurata con riferimento ai paesi avanzati, in quelli nuovi si tiene conto anche della concorrenza esercitata dai principali paesi non industriali» (p. 16).
Le conseguenze dell’allargamento dello spettro degli indicatori di competitività internazionale dei prezzi è evidente: non può non registrarsi un «peggioramento della competitività complessiva dell’Italia», che si è «accentuato dal febbraio 2002, in concomitanza con il deprezzamento del dollaro; in questo periodo sono state particolarmente rilevanti le perdite nei confronti della Cina e di Hong Kong» (p. 17).
Il punto, però, una volta constatata questa perdita di “competitività” – perdita che qui viene registrata sul piano di un’analisi economica comparata, apparentemente forzata dai dati “oggettivi” della crescita spropositata di alcuni Paesi non industriali –, è come inquadrarne cause ed effetti all’interno di una teoria e di una prassi istituzionali, compatibili con il costituzionalismo democratico e sociale. Si può ipotizzare, infatti, una “corsa al ribasso” – pur in un quadro di garanzie democratiche formali – della linea generale di politica economica e sociale complessiva (influenzata dall’ideologia monetarista), al fine di perseguire l’obiettivo della competitività globale, quale «dominance reasonig» di una cultura dell’economia tutta ripiegata sui propri concetti politico-contabili (abbozza una teoria della prevalenza del valore dominante, all’interno del rapporto istituzioni-economia, E. CARDI, Mercati e Istituzioni in Italia. Diritto pubblico dell’economia, Torino, Giappichelli, 2005, p. 19: «in alternativa alla soluzione che ordina a livello normativo il rapporto tra i valori in gioco, si colloca l’ipotesi in cui lo schema normativo lasci “incompleto” l’ordine giuridico dei valori contemplando però la prevalenza di un valore “dominante” – dominance reasonig – la cui realizzazione è affidata ad una istituzione legale incaricata di fare valere quei valori nell’esercizio delle funzioni ad essa assegnate»).
Quali sono, allora, le ricadute della “competitività”, intesa intrinsecamente come fattore di crescita, al di là e al di sopra delle condizioni politiche e sociali in cui la sua dinamica si realizza, sul piano dell’«utilità sociale» complessiva? Intesa, l’utilità sociale, non come mero limite utopico negativo dell’attività economica (o come mero limite consumeristico dei difetti produttivi), ma come concreto orizzonte realizzativo delle aspettative di coesione sociale, come fattore integrativo dell’unità anziché della disgregazione sociale.
Questa domanda potrebbe essere propedeutica alla successiva valutazione normativa, costituzionale e sociologica, che dovrebbe accompagnare le nuove strutture societarie e istituzionali, le quali, nel campo del diritto pubblico dell’economia, paiono sempre di più rappresentare il modello di riferimento nell’azione e nell’intervento dei pubblici poteri.
Un esempio ce lo offre proprio il Bollettino della Banca d’Italia, che pone in rilievo i dati salienti della ripresa economica in Giappone, sottolineando, in particolare, la riforma epocale che ne ha determinato il passaggio essenziale: la privatizzazione del suo sistema postale.
Va ricordato, infatti, che il 14 ottobre scorso è stato approvato dal Parlamento giapponese il progetto di privatizzazione di Japan Post, l’impresa pubblica che dal 2003 aveva rilevato la gestione del sistema postale dalla Postal Services Agency. Il piano di privatizzazione è stato reso possibile dal rafforzamento della coalizione di governo dopo le elezioni dell’11 settembre di quest’anno. Proprio per questa ragione, nel mese di luglio, il Primo ministro giapponese aveva sciolto una delle due Camere del Parlamento, in seguito alla mancata approvazione del progetto di privatizzazione.
Il piano prenderà avvio nel 2007 e si concluderà nel 2017, inserendosi nel programma di riforme del governo. Riforme che hanno per obiettivo una radicale trasformazione del sistema economico e finanziario giapponese, limitando al minimo indispensabile – nel “limitato” significato che questa espressione può avere nel rapporto più generale tra potere pubblico e economia (su cui, per tutti, le sempre attuali e preziose pagine di M. S. GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, il Mulino, 1995, spec. pp. 15-33) – l’influenza dell’operatore pubblico (così il Bollettino a p. 18).
La posta in gioco è la gestione, soprattutto ad opera delle società di previdenza privata (c.d. investitori istituzionali) dell’ingente volume di risparmio depositato presso il sistema postale.
Come si rileva dal Bollettino della Banca d’Italia, «l’ammontare del risparmio postale qualifica Japan Post come la più grande istituzione creditizia del mondo in termini di depositi. La raccolta del ramo bancario al 31 marzo 2005 raggiungeva i 214.000 miliardi di yen (circa 1.550 miliardi di euro, il 42 per cento del PIL). Il complesso delle attività di Japan Post (incluse quelle detenute da Kampo, il ramo assicurativo, superiori a 120.000 miliardi di yen) ammontavano, alla stessa data, a 386.000 miliardi di yen (2.813 miliardi di euro), equivalenti al 76 per cento circa del prodotto. Japan Post impiega 240.000 dipendenti ed è, per numero di addetti, la più grande impresa pubblica giapponese. Conta circa 25.000 sportelli» (p. 18).
Ora, si continua a leggere nel documento stilato dalla Banca d’Italia, la privatizzazione di Japan Post avverrà secondo le seguenti modalità e scadenze temporali: «nella fase iniziale della privatizzazione (nel 2007) verrà costituita una holding (Japan Postal Services Holding Company) interamente partecipata dallo Stato. Questa controllerà quattro società distinte, a cui verranno affidate la gestione dei prodotti e dei servizi bancari (Post Bank), assicurativi (Post Insurance), postali in senso stretto (Post Mail), l’amministrazione e la gestione degli immobili, la commercializzazione di servizi finanziari e assicurativi al pubblico attraverso la rete degli sportelli (Post Office Network). Tra il 2007 e il 2017 lo Stato provvederà a vendere sul mercato i due terzi delle azioni della holding, mantenendo una quota del 33 per cento. La dismissione verrà perfezionata con le modalità e i tempi individuati dal Postal Services Privatization Committee, i cui membri, di nomina governativa, sono rinnovabili ogni triennio. Nello stesso arco di tempo, la holding procederà alla totale privatizzazione sia di Post Bank sia di Post Insurance, mentre Post Office Network e Post Mail rimarranno sotto il suo controllo» (p. 18).
Quali sono le implicazioni di questo articolato e complesso processo di privatizzazione?
Ovviamente un incremento della “ratio” competitiva. Come, per esempio, la possibilità per banche e assicurazioni private di competere alla pari con Post Bank e Post Insurance, in una lotta per la contendibilità del mercato del risparmio.
Ma, un’ulteriore implicazione – assai più rilevante sul piano della giuspubblicistica – sarà una diversa modalità di finanziamento del debito pubblico. Con tutte le conseguenze possibili che questa novità reca in sé.
Japon Post, infatti, è stato fino ad oggi il principale sottoscrittore dei titoli del debito pubblico, tanto che alla fine dell’anno fiscale 2004, deteneva il 25 per cento dei titoli di Stato in circolazione. A fronte del 12, 6 e 3 per cento detenuto rispettivamente (sempre nel 2004) dal sistema bancario, dalle società di assicurazione e dalle famiglie (p. 19).
Ora, durante le fasi della privatizzazione, i depositi a tempo presso Japan Post, che ammontano al 75 per cento circa della raccolta postale, nonché le polizze assicurative, «confluiranno, sino alla loro naturale scadenza, presso un’apposita banca-ponte» (p. 19). Questo darà la possibilità a Post Bank e a Post Insurance di investire in altri strumenti finanziari, sia pure a basso rischio come titoli di debito pubblico, obbligazioni municipali e garantite dallo Stato. Pertanto, alla scadenza di quei depositi, le società “private” – controllate parzialmente dallo Stato – Post Bank e Post Insurance potranno investire le risorse “liberate” dei depositi in «eventuali strumenti finanziari alternativi a quelli garantiti dallo Stato» (p. 19).
Non solo. « (…) Post Insurance dovrà individuare i prodotti e i servizi assicurativi da offrire sul mercato a condizioni comparabili a quelle offerte dalle società assicurative nipponiche e straniere già operanti in Giappone» (p. 19).
Qualche riflessione è d’obbligo.
Un sottile crinale separa la c.d. moral suasion , intesa come capacità di influenzare le scelte degli operatori – dato un certo contesto e certe condizioni economiche di riferimento – dissuadendoli o inducendoli a tenere una determinata condotta ritenuta preferibile alla luce di un quadro giuridico-economico assunto come “dominante”, dalle tecniche di persuasione derivanti dallo strumentario classico del giurista, quello legato allo schema comando-sanzione (strumentario, per la verità, che anche nelle più accanite semplificazioni manualistiche, risulta molto più articolato di come viene ormai superficialmente descritto e rappresentato). Una linea sottile che, in questo caso, passa attraverso la descrizione e la proposizione di un modello che, qui, è, però, presentato soprattutto (e non poteva essere diversamente) come un “fatto”. Un “fatto” che produce ulteriore competitività e, dunque, ulteriore crescita economica.
Ebbene, nel modello di privatizzazione nipponico, ritroviamo alcuni elementi essenziali del nuovo tipo di intervento economico del pubblico potere. Un nuovo tipo, sempre più ricorrente anche nel continente europeo. Composto da due elementi portanti, messi in evidenza da un rigoroso studio di Luciano Gallino. Ossia lo “Stato azionista” e una nuova forma di neocapitalismo manageriale, rappresentato dai c.d. “investitori istituzionali” (L. GALLINO, L’impresa irresponsabile, Torino, Einaudi, 2005, partic. pp. 50 ss.).
Lo “Stato azionista”, scrive Gallino, è quello che «possiede rilevanti quote azionarie – sovente il 100% – delle imprese che forniscono servizi pubblici: energia, trasporti urbani, ferrovie, acquedotti, poste. Poco meno numerosi sono i paesi in cui lo Stato possiede quote azionarie anche in società di diversi comparti dell’industria e del terziario; talora come unico proprietario, altre volte come socio di maggioranza o di minoranza, in ambedue i casi le quote restanti essendo di proprietà privata» (L. GALLINO, op. cit., pp. 50-51).
In uno Stato del genere, cosa vorrà dire avere come obiettivo prioritario l’interesse alla «massimizzazione del proprio patrimonio»? Soprattutto nel momento in cui questo Stato è costretto, di fatto, a muoversi secondo le logiche del mercato, attesa la competizione con altri soggetti impegnati nel medesimo settore. Il fine di molte di queste joint ventures, data la loro natura, in che misura potrà dirsi “sociale”? E, infine, il nuovo ruolo assunto dallo “Stato azionista” non ci dice, forse, qualcosa di più (o di meno, se si vuole) sulla famosa evaporazione – nell’ambito della globalizzazione economica – dello Stato, “nano” tra i giganti multinazionali, considerati apoditticamente ad esso estranei e alieni quanto a struttura “esistenziale” (nel senso di ragion d’essere)?
Altro elemento sono, poi, i c.d. “investitori istituzionali”, ossia i fondi pensione privati e pubblici, i fondi d’investimento, le compagnie di assicurazione (così L. GALLINO, op. cit., p. VIII), il cui fine principale e costitutivo coincide con la massimizzazione del profitto per gli azionisti (del valore delle azioni possedute).
Che tipo di logica seguiranno i gestori di questi fondi? Non seguiranno, forse, una logica, di fatto, esclusivamente “finanziaria”? E, in questo contesto, quale sarà il reale valore (attesi tutti i recenti scandali italiani europei e americani, su cui lo stesso L. GALLINO, op. cit.) che tali investitori attribuiranno agli interessi diffusi di coloro che si affidano a tali fondi per assicurasi un futuro migliore o per prevenire difficoltà e imprevisti della loro vita individuale e sociale?
Sono tematiche che richiederebbero ben altro spazio e diversa sede di riflessione e che, tuttavia, il Bollettino qui in esame non può mancare di suscitare, non solo a livello di comparazione economico-istituzionale fine a se stessa, ma, più concretamente, a livello di conseguenze nella società politica ed economica in cui queste dinamiche vanno seriamente ad incidere.
Un ultimo punto.
Traspare dal Bollettino la dominance reasoning di cui la Banca d’Italia – anche attraverso la sua incorporazione nel sistema europeo delle Banche centrali e la conseguente implementazione della finalità istituzionale della Banca centrale europea – si fa interprete autorevole e accreditata. Quella “ragione dominante”, quel “valore dominante” ben espresso nella Strategia di Lisbona e ribadito nel recente vertice di Hampton Court.
Il fatto è che non si attribuisce alcun rilievo alla circostanza che le imprese, anziché investire in ricerca, continuino a lesinare sul costo del lavoro. Nel vuoto assoluto di politiche industriali, salva l’elargizione di incentivi, si assiste ad un deterioramento della dotazione infrastrutturale necessaria per la produttività e ad una sperequata distribuzione dei redditi che spinge le famiglie dei lavoratori a risparmiare per difendersi da un futuro percepito peggiore del presente.
Le radici di questo malessere economico affondano, principalmente, nella crescente precarizzazione del lavoro che concerne il 13 per cento dei lavoratori e nella strategia della flessibilità che condanna il sistema economico ad una permanente stagnazione.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che, nella recente riunione informale dei governatori delle Banche centrali nazionali, si è deciso che, nel prossimo Consiglio direttivo della Banca centrale europea del 1° dicembre, si provvederà ad un rialzo dei tassi d’interesse per fronteggiare i rischi di inflazione, con quel che ne consegue per i mutui necessari all’acquisto della casa e per i cittadini ed i lavoratori che chiedono, alle banche, i finanziamenti necessari per avviare attività o soddisfare bisogni fondamentali.