Il primo episodio del reality sulla riforma della Costituzione si è concluso ieri in Senato. In seconda deliberazione, 218 voti favorevoli a un Comitato parlamentare per le riforme e un procedimento speciale di revisione, sul quale sono stati da più parte sollevati dubbi di incostituzionalità. I sì hanno superato solo di quattro – con numerose defezioni – la soglia dei due terzi dei componenti dell’Assemblea. Soglia – si badi – non necessaria ad approvare il disegno di legge, per cui sarebbe bastata la metà più uno dei componenti. Necessaria, invece, per l’effetto collaterale voluto di impedire la richiesta di referendum popolare ai sensi dell’art. 138 della Costituzione.
Si passa ora alla Camera, dove però il sovrabbondante – e incostituzionale – premio di maggioranza garantisce numeri tali da rendere agevole il raggiungimento dei due terzi. Il bavaglio al popolo sovrano è stato messo oggi.
Dunque la caccia al voto degli ultimi giorni tendeva all’obiettivo genuinamente democratico di porre argine a un referendum? Proprio così. E perché era tanto importante cucire le bocche? Soprattutto considerando che lo stesso ddl prevede che sulla riforma eventualmente approvata il referendum sia possibile qualunque sia la maggioranza conseguita. Creando il curioso paradosso che il popolo sovrano potrà domani comunque pronunciarsi sulla riforma della Costituzione eventualmente approvata, ma si vede oggi dolosamente negato il diritto di pronunciarsi sul come quella riforma debba venire in essere. Che senso ha?
Dal punto di vista della democrazia o dell’esigenza di avere una Costituzione solida e radicata nel consenso popolare, non ha ovviamente alcun senso. Ma aprire la porta al referendum avrebbe scardinato il cronoprogramma di riforma della Costituzione annunciato con grande pompa dallo stesso governo, e assunto a fondamento e ragione primaria dell’esistenza stessa dell’esecutivo. Tra richiesta referendaria e voto popolare, un ritardo di circa un anno. Mentre riformare la Costituzione entro i diciotto mesi dichiarati nel programma di governo è la polizza-vita dell’esecutivo.
Non desta meraviglia che una parte del paese consideri tutto ciò esecrabile. Non può esserci baratto tra un qualsiasi governo e la Costituzione. E ci sono punti che colpiscono profondamente e dolorosamente le coscienze di chi alla Costituzione crede. Che si voglia a ogni costo la riforma in un momento di profondo degrado della politica. Che il radicamento e la legittimazione delle forze politiche che sostengono il disegno riformatore siano e rimangano ai minimi. Che il parlamento in ipotesi sostanzialmente costituente sia in assoluto quello meno rappresentativo della storia repubblicana. Che quello stesso parlamento sia in specie gravemente distorto da artifici maggioritari che forniscono i numeri necessari per la riforma. Che i problemi del paese siano con ogni evidenza altri, come dimostrano le impietose statistiche sulle condizioni di vita di gran parte degli italiani. Che le riforme proposte siano in buona parte inutili o dannose, come prova l’esperienza degli ultimi vent’anni. Che ci siano dissensi profondi su questioni cruciali, come la giustizia, per cui il ministro Quagliariello non ha perso l’occasione di sollecitare un’iniziativa del governo. Infine, che sia piuttosto la Costituzione dei diritti e dell’eguaglianza – quella sì – a richiedere con urgenza di essere attuata. Il mantra per cui certe riforme sono necessarie non basta a renderle davvero tali.
E non basta legare un governo a quelle “necessarie” riforme per renderlo un governo del fare. Supponiamo che il voto in Senato abbia indotto a Palazzo Chigi brindisi per lo scampato pericolo. Senza quei quattro voti di margine il re sarebbe stato nudo. Il polverone delle riforme non avrebbe più potuto fare da schermo alle insufficienze del governo nel rispondere con efficacia ed equità alla crisi che attanaglia il paese.
Ma non c’è da farsi illusioni. La ripresa rimane incerta e lontana, mentre sulla riforma si preparano settimane e mesi in cui fatalmente emergerà la volontà del governo di arrivare a un esito qualsivoglia, facendo leva sull’apparente tecnicismo delle proposte dei saggi, strozzando tempi e dibattito, sostituendo la finta emergenza di un cambiamento istituzionale a quella vera dei molti milioni che combattono la povertà, la disoccupazione, l’insufficienza dei salari e delle tutele per i più deboli. Una rappresentazione teatrale in piena regola.
Gli antichi Cesari sapevano bene che al popolo bisogna dare insieme panem et circenses. E dunque il governo si prepari. Oggi ha avuto i numeri parlamentari. Ma altra cosa sarà domani avere i consensi che contano davvero.