La vittoria del Partito democratico e del suo leader, meglio, la vittoria di Renzi, leader del Partito democratico e Presidente del Consiglio, per gli effetti lucidamente individuati da Norma Rangeri su questo giornale, è stata indubbiamente straordinaria. Renzi ne ha dedotto che “ora non ci sono alibi per le riforme”. A cominciare da quelle costituzionali. Intende così trarre dal voto la legittimazione popolare a farle. C’era da aspettarselo come c’è da aspettarsi che a dargli ragione accorreranno in molti. Ma questa legittimazione non c’è stata. Le ragioni per negare che sia avvenuta non sono poche. Le più attuali, perché manifestate all’opinione pubblica, sono quelle ripetutamente dichiarate dallo stesso Presidente del Consiglio. Renzi ha più volte affermato che il significato politico dell’elezione per il Parlamento europeo era quello di ottenere che l’Ue abbandonasse la politica dell’austerity per adottare quella della crescita, ed in via generale, che, con l’elezione, si dovessero rappresentare e far valere gli interessi dell’Italia in Europa. Negli ultimi giorni della campagna elettorale aveva poi insistito sulla irrilevanza del voto quanto ad attività e durata del governo. Di conseguenza, durante tutta la campagna elettorale, correttamente, non si è fatto alcun cenno alle riforme costituzionali. Il loro iter parlamentare d’altronde era stato interrotto dopo l’approvazione di un ordine del giorno che impegna la prima Commissione del Senato a trasformare ampiamente , nel prosieguo dell’esame, il testo proposto dal Governo. Interruzione dovuta al passaggio ad un altro tema, ad un altro punto dell’ordine del giorno della politica italiana. Basterebbero queste constatazioni per escludere ogni sorta di autorizzazione, mandato, consenso del corpo elettorale a Renzi di imporre al Parlamento l’approvazione delle sue proposte di “riforme” della Costituzione.
A queste ragioni se ne aggiungono comunque ben altre. Una di esse è della massima evidenza. A determinarla è la dimensione della sua vittoria. Una vittoria che deve far riflettere.
Far riflettere perché pone sul banco di prova l’accoppiata legge elettorale-riforma del Senato, accoppiata che investe niente meno che la forma di governo e coinvolge la forma di stato. Ebbene, la prova conferma interamente le ragioni dell’opposizione già ripetutamente motivata all’una e all’altra riforma e a tutte due insieme. Una maggioranza come quella risultante dall’elezione del Parlamento europeo incrementata dal premio, più o meno modulato, previsto dal disegno di legge già approvato della Camera ed ora al Senato (A S. n. 1385) darebbe al Presidente del Consiglio un potere che non esito a definire assoluto. Perché, incombente sulla funzione legislativa, la assumerebbe, riducendola a traduzione dei diktat del Presidente del Consiglio in norme di legge. Con effetti che potrebbero essere anche irreversibili perché la funzione legislativa sarebbe concentrata in una sola Camera con l’altro ramo del Parlamento ridotto a simulacro di assemblea parlamentare. A tale potere se ne aggiungerebbe un altro. Quello ampiamente condizionante la composizione degli organi costituzionali di garanzia, Consiglio superiore della magistratura, Corte costituzionale, oltre che l’elezione del Presidente della Repubblica. Si metta poi in conto che, in quanto leader della maggioranza, un Presidente del consiglio ha già selezionato i parlamentari nel formare le liste dei candidati alle elezioni, stante la riduzione dei partiti a comitati elettorali dei leader.
La straordinaria vittoria del leader del partito democratico di domenica scorsa si colloca così all’opposizione delle riforme costituzionali che questo leader intende realizzare. Affermare che questa vittoria è fonte di legittimazione di tali riforme è affermare il falso. Questa vittoria non lo è. Domenica scorsa il corpo elettorale non ha deferito nessuna delega costituente, non ha celebrato nessun plebiscito preventivo.