Sommario. 1. Il bilanciamento «sbilanciato» della legge n. 40 del 2004. – 2. Il referendum impossibile … anzi, no. – 3. La tutela «minima» della legge n. 40/2004 e la paura dell’«horror vacui». – 4. La sconfitta politica del referendum e dello Stato laico.
1. Scorrendo la legge n. 40 del 2004, recante «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita», ci si avvede, immediatamente, che la fecondazione assistita è sì riconosciuta ed ammessa dal legislatore ma circondata da condizionamenti e riserve tali da mettere in discussione la riuscita dell’intera cura medica. Ad esempio, se ci si sofferma sulle audizioni dei molti esperti ascoltati in sede parlamentare nel corso delle audizioni conoscitive, si apprende, che sotto il profilo medico-scientifico, le possibilità di successo della terapia sono, in base alla disciplina adottata, seriamente compromesse, e si aggiunge il rischio per la salute della donna che vi si sottopone1. In altri termini, la legge, in aperta contraddizione con il titolo che dichiara, più che «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», vuole, in realtà, disincentivare l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita, anche da parte di coloro che possiedono i requisiti per accedervi.
La natura e la qualità dei divieti, nonché il tipo di sanzioni che è dato riscontrare in molte delle sue disposizioni, alimentano il sospetto che la soluzione legislativa adottata non sia solo rozza nella fattura e «inutilmente declamatoria»2, ma anche piegata ad un’opzione etica facilmente individuabile. In tal modo, però, il legislatore non ha solo delegittimato il testo agli occhi di chi non condivide una simile scelta etica, ma ha, altresì, arrecato una consistente violazione al carattere laico e pluralistico del nostro ordinamento costituzionale3.
Si sa che la regolamentazione delle tecniche di fecondazione assistita è uno di quei delicati settori, come l’eutanasia o le forme di disponibilità del corpo umano, in cui il diritto deve confrontarsi, da una parte, con i progressi medico-scientifici e, dall’altra, con l’autonomia dei singoli. Sempre più spesso, infatti, il diritto, ma in particolare la legge, è chiamato a dirimere conflitti o ad affermare «diritti» emersi a seguito dello sviluppo delle nuove tecnologie. Espressioni come «diritto a procreare», «diritto ad un patrimonio genetico non manipolato», «statuto dell’embrione» sono solo alcune, fra le tante, rappresentazioni verbali impiegate per dare veste giuridica alle esigenze che si vanno configurando in seno alle moderne società.
Tuttavia, se non si può evitare che il legislatore intervenga in ambiti così delicati e complessi, caratterizzati il più delle volte da visioni etiche contrapposte, bisogna fare in modo che la legge non veda legittimato il suo intervento solo in virtù del suo apparato autoritario, in forza del quale veicolare valori non percepiti come tali dall’intera collettività. Occorre cioè che la norma giuridica svolga una funzione integratrice tra i molteplici interessi in concorso e non ridursi, invece, a semplice strumento ideologico col quale imporre la scelta etico-giuridica della «maggioranza», come è accaduto nel caso della legge in esame.
La legge n. 40 del 2004 è senza dubbio il portato normativo di acquisizioni culturali molto nette, arroccate su un concetto di «vita» più consono alle leggi della natura che al diritto, le quali ne presuppongono l’intangibilità fin dal suo inizio. Non c’è traccia, invece, delle conquiste culturali degli anni settanta, in particolare del principio di autodeterminazione, che molto ha contato nella definizione delle politiche del corpo umano (aborto, contraccezione, omosessualità) e confermato come vigente, nel nostro ordinamento, dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 27 del 1975, sulla legittimità costituzionale della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (n. 194/1978). In quell’occasione, infatti, la Corte ebbe ad affermare che se la tutela del concepito ha «fondamento costituzionale», basandosi sugli articoli 2 e 31 Cost., ciò non toglie che «l’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godono pur essi di tutela costituzionale». In tal caso «la legge non può dare al primo una prevalenza totale e assoluta, negando ai secondi adeguata protezione» e soprattutto che «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».
Ne consegue che, qualunque tentativo di equiparare, con argomenti logico-giuridici, la vita di chi è già persona con la «vita» dell’embrione deve necessariamente ricorrere a posizioni etiche, non utilizzate dalla Corte, e non condivise, almeno fino ad oggi, neppure dal legislatore. La legge n. 194/1978, infatti, è riuscita a trovare un giusto punto d’equilibrio fra situazioni confliggenti in modo drammatico, a porre in essere una mediazione tra la tutela del concepito e il diritto alla vita e alla salute della donna, individuando l’autodeterminazione di quest’ultima non come potere discrezionale di scelta sulla vita del concepito, ma come criterio di assunzione di responsabilità in ordine alla soluzione del conflitto tra diritto alla vita del feto e diritto alla salute della donna. E’ per questo motivo che la Corte, dopo aver riconosciuto la legittimità costituzionale della legge, con la sent. n. 27/1975, non ha esitato a definirla come costituzionalmente necessaria, e quindi non abrogabile per via referendaria, (cfr. le decisioni n. 26/1981 e n. 35/1997), in quanto capace di assicurare un equo bilanciamento fra interessi costituzionalmente garantiti, senza sacrificare in modo permanente nessuno di essi.
Al contrario, la disciplina sulla fecondazione assistita non lascia spazio a mediazione di alcun genere: tra il diritto alla vita dell’embrione, sin dal suo inizio, e l’autodeterminazione della donna, che pure ricopre un ruolo fondamentale per la venuta ad esistenza del futuro soggetto, la prevalenza va senz’altro al primo. La radicalità del legislatore si spinge al punto di attribuire al concepito la qualità di «soggetto», più sulla scia di un giudizio di valore, che non sulla considerazione dei presupposti giuridici che governano tale condizione . Tant’è che l’art. 1, comma 1, della legge suona come una disposizione quanto mai retorica, costretta a stabilire una fittizia, quanto improbabile, parificazione tra tutti i soggetti coinvolti nelle tecniche, incluso il concepito. Si tratta, chiaramente di una scelta che vale unicamente a connotare ideologicamente l’intera legge5, e che dal punto di vista giuridico appare solo come un artificio capace di comprimere sostanzialmente i diritti dei soggetti già esistenti6.
Il carattere assoluto e non comprimibile del diritto alla vita del concepito (ma vale sempre la pena ricordare che nel caso di specie siamo di fronte ad un embrione «in vitro», e quindi non ancora concepito come lo intende la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza7), emerge, in primo luogo, da quelle norme della legge n.40/2004 che trasformano, in nome della tutela dell’embrione, le tecniche di fecondazione assistita da strumento di cura volontario a trattamento sanitario obbligatorio (nei confronti della sola donna!). L’art. 6, comma 3, prevede, infatti, che la coppia può revocare il proprio consenso all’accesso alle tecniche di fecondazione assistita solo «fino al momento della fecondazione dell’ovulo», oltre il quale si dovrà procedere in ogni caso all’impianto8. Non sono previste eccezioni, ad esclusione dell’esimente temporanea dovuta a «grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione» (art. 14, comma 3), trascorso il quale bisognerà procedere il più presto possibile.
La natura coattiva della disciplina è ulteriormente rafforzata dalla previsione, contenuta nell’art. 14, comma 5, in cui si stabilisce l’obbligo di informare la coppia «sullo stato di salute degli embrioni prodotti» da trasferire in utero. E’ difficile, però, comprendere a cosa serva un simile obbligo di informazione, posto che, nell’ipotesi in cui anche visivamente (o meglio, solo visivamente, in quanto la legge vieta qualunque tipo di indagine sull’embrione) si dovessero riscontrare delle anomalie, bisognerebbe procedere ugualmente all’impianto dell’embrione nell’utero della donna. La norma non è solo crudele ma anche beffarda!
Appare chiaro che in entrambe le fattispecie, il legislatore ha predisposto dei comportamenti che, oltre a sollevare dei dubbi sulla loro concreta esperibilità9, mettono a repentaglio la salute psico-fisica della donna, costretta, contro la sua volontà, a sottoporsi ad un doppio intervento, prima di inoculamento e successivamente di aborto. Tanto basta per affermare che, le norme menzionate sono, di certo, in aperto contrasto con l’ultima parte della previsione costituzionale contenuta nell’art. 32, comma 2, in base alla quale, la legge che disciplina il trattamento sanitario obbligatorio non può «in nessun caso» violare il limite del rispetto della persona umana10. Solo di recente, con l’approvazione delle Linee guida da parte del Ministro della Salute, si è cercato di attenuare il carattere coercitivo della disciplina, dichiarando «non coercibile» il trasferimento dell’embrione affetto da gravi e irreversibili malformazioni11. Tuttavia è difficilmente ipotizzabile, allo stato attuale del nostro sistema delle fonti, che un atto amministrativo, a cui la legge affida il compito di definire «l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita» possa poi alterarne i contenuti, specie là dove si decide in materia di divieti.
Ma non basta. Il carattere assoluto, non bilanciabile, del diritto alla vita dell’embrione prevale anche sulla libertà della ricerca scientifica, che pur rappresenta un aspetto indefettibile di un ordinamento democratico12. In questo caso il sacrificio discende dalla preclusione per «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano», con la successiva specificazione di altri quattro puntuali divieti (art. 13, commi 1 e 3), cui si aggiunge quello riguardante «la crioconservazione e la soppressione di embrioni» (art. 14, comma 1). I limiti della legge n. 40 sulla ricerca scientifica riguardano in particolare il campo delle cellule staminali embrionali, le quali allo stato attuale della ricerca sono favorite alle cellule staminali c.d. adulte perché totipotenti e quindi capaci di sviluppare indifferentemente tessuti ed organi, oltre ad avere una elevata capacità di proliferazione13. Nel caso di specie, però, l’individuazione del contenuto del divieto è più complesso in quanto la compressione della libertà della ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali si ricava da altre norme che in apparenza non sembrano attinenti al tema indicato. Così, nella sua specificazione va a rientrare l’obbligo di raccogliere, presso una struttura pubblica individuata dalle Linee guida, tutti gli embrioni soprannumerari prodotti fino all’entrata in vigore della normativa, per conservarli fino al loro naturale deterioramento; il divieto di importare embrioni dall’estero, al fine di ostacolare la fecondazione eterologa, vietata dalla legge; nonché il divieto per la c.d. clonazione terapeutica per la produzione di cellule staminali c.d. autologhe (che possiedono lo stesso patrimonio genetico della cellula somatica adulta del donatore, il cui nucleo viene trasferito in un uovo privato del suo nucleo. Si tratta della c.d. clonazione terapeutica, con la quale si ottiene la produzione di cellule staminali senza pervenire alla produzione di embrioni).
Il divieto di procedere in ricerche e studi sugli embrioni soprannumerari, destinati alla consumazione naturale, si risolve, chiaramente, in un grave nocumento per lo sviluppo della ricerca scientifica nel nostro Paese, la quale, muovendosi in un contesto di estrema globalizzazione, rischia di rimanere al traino di Stati meno vincolati dalle loro legislazioni nazionali. C’è anche da dire che la limitazione della ricerca, nel settore delle cellule staminali, si traduce in una violazione, anche se mediata, del diritto alla salute, inteso come aspettativa della collettività ad ottenere, dai progressi della ricerca scientifica, un miglioramento delle condizioni di vita. E’ vero che al momento, le indicazioni che vengono dalla comunità scientifica sulle potenzialità delle cellule staminali sono troppo arretrate per tramutarsi in dato scientifico vero e proprio, ma ciò nonostante è difficile comprendere le ragioni di una preclusione che non osta contro alcuna situazione giuridica protetta, fatta eccezione per i diritti dei proprietari del materiale genetico conservato in frigorifero!
Ancora una volta, l’unico risultato conseguito con la legge n. 40 è un bilanciamento sostanzialmente «sbilanciato», o se si preferisce irragionevole, tra la libertà della ricerca scientifica, il diritto alla salute, entrambi costituzionalmente riconosciuti e garantiti, e un’idea di sacralità della vita che invece non è qualificabile giuridicamente.
2. Il forte dissenso sociale che ha accompagnato le scelte del Parlamento in materia di fecondazione assistita ha assunto, com’è noto, una veste istituzionale vera e propria, attraverso la presentazione di una plurima richiesta referendaria di abrogazione, totale e parziale, della legge n. 40/2004. La presentazione, quasi contestuale14, di una domanda di ablazione totale della legge unitamente a quattro quesiti parziali tutti convergenti sul medesimo oggetto, risponde ad una tecnica nuova, denominata del «plurireferendum»15, posta in essere allo scopo di incrementare le possibilità di successo della consultazione referendaria.
La chiamata in causa del corpo elettorale, attraverso la consultazione diretta, è parsa a molti come la soluzione più adeguata per rimuovere dall’ordinamento una legge in forte dissonanza con le opinioni (morali) e le idee di una parte del paese, al punto da preferirlo, nell’immediato, ad un eventuale ricorso dinnanzi alla Corte costituzionale per vizi di legittimità16. Sul piatto della bilancia, a favore del referendum c’è la forza politica dell’istituto, il suo «plusvalore», che gli deriva dall’essere espressione diretta del principio della sovranità popolare, condizione che naturalmente manca al giudizio di legittimità sulle leggi operato dalla Corte costituzionale. Si sa che l’esercizio del referendum, in quanto strumento di democrazia diretta, ha una valenza antagonista, finalizzata a porre il corpo elettorale in un rapporto dialettico con le decisioni assunte dalla maggioranza di governo, di controllo politico sulle medesime; ed è appena il caso di ricordare che tale valenza si rafforza in un sistema maggioritario in quanto tali sistemi sottraggono spazio all’azione delle minoranze in Parlamento, rafforzando la «dittatura della maggioranza». Nel caso di specie, offrire al corpo elettorale la possibilità di esprimersi sull’abrogazione o meno di una legge dalla connotazione etica ben chiara, significa rinviare allo stesso corpo elettorale la decisione sul mantenimento del carattere laico e pluralistico del nostro Stato di diritto, che la maggioranza parlamentare ha invece messo in discussione.
E’ stato detto, che la legge sulla fecondazione assistita, a causa dei contenuti tecnico-scientifici che la contraddistinguono, non si presta ad essere oggetto di una consultazione referendaria, specie nel caso di quesiti a carattere manipolativo. Certamente, l’osservazione ha un suo fondamento ma vale anche nei confronti del legislatore, la cui discrezionalità, nel caso di specie, deve basarsi sulle opinioni formulate dalla comunità scientifica, la quale, sul punto qualificante la normativa, vale a dire l’inizio della vita, non ha manifestato un convincimento unanime, tale da poter far dire di essere in presenza di una prova scientifica inconfutabile. Pertanto, il legislatore ha risolto in via autoritativa una questione scientifica altamente controversa, con l’unica certezza di sacrificare diritti riconosciuti dalla Costituzione come meritevoli di tutela, ad iniziare dal «diritto di procreare»17. Da quanto detto, consegue che la consultazione referendaria non ha ad oggetto solo, o esclusivamente, questioni di carattere tecnico-scientifico, ma concerne la sfera di libertà sia dei singoli sia della collettività, anche in relazione ai progressi della ricerca scientifica nel campo della salute. In altri termini i referendum presentati si collegano, anche se solo idealmente, alla stagione referendaria dei diritti civili, come divorzio e aborto, periodo in cui il referendum lasciava il corpo elettorale «libero» di scegliere tra l’unica alternativa se mantenere o abrogare la legge, o parti di essa, con una risposta popolare che denotava l’interesse per l’oggetto della consultazione.
In ragione delle osservazioni fin qui svolte, la domanda di abrogazione totale della legge n. 40/2004 è certamente la più adatta a far ripartire la dialettica tra Parlamento e corpo elettorale, oltre che a favorire un pronunciamento più semplice da parte dello stesso corpo elettorale, non condizionato da quesiti di carattere manipolativo che molto hanno inciso sulla disaffezione nei confronti dell’istituto. Inoltre, rispetto ai criteri che la Corte costituzionale si è data per costruire il giudizio di ammissibilità sulle richieste referendarie, ad iniziare dalla sentenza n. 16/1978, va detto che la domanda di ablazione totale soddisfa, senza ombra di dubbio, i canoni della chiarezza e dell’omogeneità in quanto il corrispondente quesito non pone problemi in merito all’applicabilità della normativa residua18. Né vale sostenerne l’esclusione sulla base dell’argomento che la legge disciplina argomenti diversi che potrebbero essere mantenuti oppure respinti dal corpo elettorale, per parti separate. A confutare la tesi, torna, ancora una volta, il parallelismo tra l’attività legislativa e l’esercizio del referendum, che portato alle estreme conseguenze ci induce a dire che mentre il legislatore è sempre libero di concentrare in un unico testo normativo disposizioni, anche non connesse tra loro, al corpo elettorale è invece preclusa la possibilità di «correggere» un simile errore.
Va aggiunto che, nel caso della legge n. 40/2004, è stata la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 45 del 2005, ad escludere il carattere disomogeneo della disciplina, affermando che gli articoli della legge «disciplinano analiticamente» nel loro complesso «una molteplicità di differenti profili connessi o collegati alla procreazione medicalmente assistita». Ciò è implicitamente confermato anche dalla legislazione dei Paesi europei che hanno disciplinato con legge la materia, le quali dimostrano che i problemi posti dalla fecondazione assistita e dalla ricerca scientifica sugli embrioni sono gli stessi regolati dalla legge italiana e sono accomunati da una regolamentazione effettuata nel medesimo atto normativo19.
Ciò nonostante, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 45 del 2005 ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo totale, accogliendo, invece, i quesiti parziali, aventi ad oggetto altrettanti aspetti qualificanti della normativa presa in esame. La sorpresa non deriva tanto dall’esclusione della domanda di ablazione principale quanto dall’ammissibilità del referendum parziali, i quali, come anticipato, si sovrappongono con il loro oggetto all’unica richiesta di abrogazione totale. In altri termini, è come se la Corte avesse sottovalutato la novità della tecnica dei «pluriferendum», degli effetti che possono discendere dall’approvazione, da parte del corpo elettorale, dei quattro referendum parziali, che, se fossero accolti tutti provocherebbero una sorta di «reviviscenza» dell’effetto abrogativo totale, in quanto la normativa residua non si potrebbe più dire capace di esprimere l’originaria volontà del legislatore20. Nel caso in esame, infatti, le richieste di abrogazione parziale vanno a censurare degli aspetti qualificanti la disciplina adottata dal legislatore, senza le quali la legge è privata del suo contenuto essenziale. E’ il caso, ad esempio, delle norme limitative della libertà della ricerca scientifica sugli embrioni in soprannumero; di quelle che dispongono il divieto di fecondazione eterologa; o delle altre concernenti l’obbligo di trasferire nel ventre della donna tutti gli embrioni fecondati «in vitro», anche se malati, lasciando, come detto, alla donna la triste alternativa di abortire in caso di anomalie del feto; nonché di quelle che impediscono, implicitamente, l’accesso alle tecniche delle coppie fertili ma portatrici di malattie, come conseguenza della precisa indicazione della terapia come cura per la sola infertilità; ed ancora, del tanto discusso art. 1, comma 1, che come detto azzera qualunque differenza tra il concepito (l’embrione in vitro!) e le persone già nate.
Le ragioni del’esclusione da parte della Corte, sono ancora più difficili da comprendere se si procede ad una lettura sistematica delle motivazioni di tutte e cinque le decisioni, dalla quale emergono delle aporie, difficili da giustificare con il solo metro della logica giuridica (ma non invece con quello dell’opportunità politica!). Rispetto al criterio dell’omogeneità e della chiarezza, la contraddizione risiede nell’ammettere i quesiti abrogativi parziali, in virtù «della sostanziale omogeneità dell’intero testo normativo»21, e nell’escludere l’abrogazione totale dell’intera legge senza impiegare il medesimo canone di giudizio. E’ come dire, che l’ablazione di un’intera legge, da parte del corpo elettorale, è preclusa perché sostanzialmente omogenea! Se si condivide l’assunto iniziale, secondo il quale «l’intera giurisprudenza costituzionale è stata finora attraversata dalla contrapposizione tra il ricorso (sempre più massiccio e sofisticato) a quesiti manipolativi ed il tentativo della Corte di contenere e limitare le strategie volta per volta escogitate dai promotori»22, occorre riconoscere che la sentenza n. 45 ha evidenziato una difficoltà oggettiva del giudice costituzionale ad adoperare, di fronte a plurime richieste aventi comunanza di «verso», il canone dell’omogeneità. Una difficoltà che, a giudizio di molti, è destinata ad andare oltre il singolo caso, fin al punto di pregiudicare la futura ammissibilità di altre richieste abrogative totali, a danno dell’istituto referendario privato, almeno nel caso in esame, del suo effetto giuridico più dirompente: l’abrogazione secca di un’intera legge. Viene da dire, come ha fatto un attento commentatore, che dopo la sentenza n. 45 del 2005, siamo forse giunti al paradosso finale dell’intricata giurisprudenza costituzionale stando alla quale «se il referendum è manipolativo allora abbiamo dubbi sull’ammissibilità perché è manipolativo; se il referendum è sull’intera legge allora abbiamo dubbi sull’ammissibilità perché è sull’intera legge»23!
3. Ma le aporie nel ragionamento logico-giuridico della Corte non si fermano qui. Dal complesso delle decisioni, infatti, emergono contraddizioni ancor più rilevanti allorquando si passa ad esaminare il motivo che ha comportato la dichiarazione di non ammissibilità del quesito principale. In base alla sentenza n. 45, il carattere inabrogabile della legge n. 40, dipende dall’essere una legge costituzionalmente necessaria, in quanto è la «prima legislazione organica» del settore, che «coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali»24. Lasciando da parte ogni ulteriore osservazione sulla compatibilità tra la natura di legge costituzionalmente necessaria e i dubbi di legittimità costituzionale che la disciplina solleva25, resta da chiedersi come faccia la Corte a conciliare una simile qualità con l’ammissibilità dei referendum abrogativi parziali, che incidono, come detto, su aspetti tutt’altro che secondari del testo di legge. In realtà, forse anche a causa dei limiti strutturali di cui soffre il giudizio di ammissibilità, la Corte non si preoccupa di giustificare un simile contrasto, rivelando, al riguardo, tutta la debolezza del suo ragionamento. Cosa replicare, infatti, a chi ha correttamente osservato che la tutela offerta dalla legge non può essere una volta riconosciuta, in sede di giudizio di inammissibilità, e, allo stesso tempo, giudicata disponibile o negata di fronte ai quattro quesiti parziali ammessi all’abrogazione26.
Ciò premesso, leggendo attentamente la sentenza n. 45, ci si accorge che la Corte, nel caso di specie, è andata configurando una nuova tipologia di legge costituzionalmente necessaria volta a preservare l’esistenza di una disciplina legislativa «qualsiasi». Ed invero, rispetto ad argomenti più tradizionali e consolidati, come la verifica del bilanciamento degli interessi operato dal legislatore, nella decisione prevale la tesi che «il vincolo costituzionale, da cui discende il carattere inabrogabile della legge, può anche riferirsi … al fatto che una disciplina legislativa comunque sussista», indispensabile al fine di assicurare il «livello minimo di tutela legislativa» dei molteplici interressi coinvolti nella materia. Da questa prima asserzione, se ne deduce che la legge sulla procreazione medicalmente assistita per il solo fatto di essere la prima disciplina organica del settore, che «coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali», è per ciò stesso sottratta ad abrogazione, in quanto unica disciplina in grado di assicurare, ai medesimi interessi «un livello minimo di tutela legislativa»27.
L’esigenza di preservare l’esistenza di una disciplina legislativa della procreazione medicalmente assistita, spiega perché siano sempre possibili sue modificazioni o sostituzioni ma non l’abrogazione totale neanche per volontà del legislatore. Tant’è che il giudice costituzionale, anche nel tentativo di fugare i dubbi su un insanabile contrasto tra referendum e modifiche legislative ad una legge costituzionalmente necessaria, legittima le abrogazioni referendarie parziali, alla stregua di una qualunque modifica legislativa, mentre ne esclude l’abrogazione totale ad opera del corpo elettorale come la mera soppressione da parte del legislatore, al fine di garantire la tutela legislativa minima degli interessi costituzionali coinvolti. Così argomentando si arriva alla conclusione che il livello minimo di tutela, di cui ragiona la Corte costituzionale, «non è più quello richiesto o imposto dalla Costituzione»28 ma coincide con l’esistenza di una disciplina che assicura un livello minimo di tutela legislativa.
Le argomentazioni avanzate dalla Corte equivalgono ad affermare che la legge n. 40 è indisponibile, per qualunque forma di abrogazione, in quanto va a colmare una lacuna legislativa in un settore molto delicato ed in continua espansione. E’ chiaro, altresì, dal richiamo fatto alla sua precedente giurisprudenza, vale a dire la sentenza n. 347 del 1998, che la Corte pensa in particolare alla protezione del prossimo nascituro, senza sfiorare la controversa questione scientifica dello statuto dell’embrione come invece ha fatto il legislatore29. Tuttavia, è proprio il riferimento alla sentenza n. 347/1998 a suggerire alcune considerazioni in merito al tanto denunciato vuoto legislativo che lederebbe la tutela del soggetto «più debole». Nonostante il suo carattere interlocutorio30, giudicata da molti come una soluzione «pilatesca», la sentenza ha di certo carattere monitorio nei confronti del legislatore, affinché vada a colmare il vuoto legislativo sulla materia della fecondazione medicalmente assistita, facendo, però, espresso riferimento alla necessità di porre delle norme adeguate sulla «posizione del minore» o se si preferisce sulla tutela da assicurare alla «persona nata a seguito di fecondazione assistita». In altri termini, la Corte ritiene necessaria una legge che tuteli il «nato» da fecondazione assistita e non, come erroneamente si usa dire citando la sentenza, il semplice «concepito» (ovvero l’embrione non ancora impiantato).
Occorre chiedersi, a questo punto, se il «far west procreativo», determinato dalla totale assenza di norme sulla materia, ed esistente prima dell’entrata in vigore della legge n. 40, lasciasse, effettivamente, l’embrione privo di ogni forma di tutela e, quindi, in ultima analisi, relegato allo «status di cosa». Intanto, l’assenza di regole era stata in parte già superata, più che dalla menzionata decisione del giudice costituzionale, da una importante, ma poco ricordata, sentenza della Corte di cassazione31, che ha fatto suo il monito lanciato dalla Corte costituzionale, preoccupandosi di tutelare lo status dei nati con fecondazione eterologa, precludendo l’azione di disconoscimento nei loro confronti, da parte del coniuge che inizialmente aveva prestato, in modo valido, il proprio consenso, affinché la moglie si sottoponesse alle tecniche in oggetto. Erano, inoltre, intervenute due ordinanze del Ministro della sanità, del 5 marzo 1998 (Gazz. Uff. del 7 marzo 1998), successivamente prorogate, con le quali è stato vietato ogni forma di remunerazione della cessione di gameti, di embrioni e di materiale genetico, nonché ogni esperimento finalizzato alla clonazione umana ed animale, obbligando, nel contempo, i centri pubblici e privati abilitati alle pratiche di procreazione assistita a comunicare al Ministero tutta una serie di notizie all’evidente scopo di rendere possibile un controllo sull’attività svolta nei medesimi centri32.
C’è anche da considerare che il nostro paese, oltre ad essere stato tra i primi firmatari della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, del 4 aprile 1997, ha altresì proceduto alla sua ratifica, e del relativo Protocollo addizionale del 12 gennaio 1998, n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani, con la legge 28 marzo 2001, n. 145. Sebbene la Convenzione, lasci liberi gli Stati di decidere in merito allo status dell’embrione, e non ponga direttamente nessuna norma sulla materia della fecondazione assistita, molte delle sue disposizioni sono riconducibili alla tutela dell’embrione. Così, ad esempio, l’art. 12, che stabilisce il divieto di utilizzare test genetici predittivi a fini diversi da quelli medici o di ricerca legata alla salute del nascituro; il divieto, all’art. 13, di intervenire sul genoma umano per finalità diverse da quelle preventive, diagnostiche o terapeutiche; l’art. 14, che vieta il ricorso alle tecniche di fecondazione assistita per determinare il sesso del nascituro, salvo che per evitare una grave malattia ereditaria legata al sesso; e da ultimo, l’art. 18, che pone il divieto di produrre embrioni al solo scopo di effettuare ricerca.
Ma non vanno dimenticate neanche le disposizioni contenute nel Codice deontologico dell’Ordine dei Medici, approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione dei Medici nell’ottobre del 1998. Certamente, quest’ultimo strumento non ha la cogenza normativa delle disposizioni indicate in precedenza e, tuttavia, è da giudicare positivamente lo sforzo di autodisciplina che la categoria dei medici ha saputo porre in essere in una situazione che li vede sul banco degli imputati, intenti a soddisfare le richieste delle coppie con problemi riproduttivi. In particolare, l’art. 42, rubricato come «Fecondazione assistita» prevede che:«Le tecniche di procreazione umana medicalmente assistita hanno lo scopo di ovviare alla sterilità. E’ fatto divieto al medico, anche nell’interesse del bene del nascituro, di attuare: a) forme di maternità surrogata, b) forme di fecondazione assistita al di fuori di coppie eterosessuali stabili, c) forme di fecondazione assistita dopo la morte del partner. E’ proscritta ogni forma di fecondazione assistita ispirata a pregiudizi razziali; non è consentita alcuna selezione di gameti ed è bandito ogni sfruttamento commerciale, pubblicitario, industriale di gameti, embrioni e tessuti embrionali o fetali, nonché la produzione di embrioni ai soli fini di ricerca. Sono vietate pratiche di fecondazione assistita in studi, ambulatori o strutture sanitarie privi di idonei requisiti». Completano, l’elenco delle disposizioni riferibili alla materia, l’art. 43 con la disciplina su «Interventi sul genoma e sull’embrione» e l’art. 44 sui «Test genetici predittivi».
Certo, si tratta di regole in gran parte perfettibili, di varia natura, ed in molti casi datate rispetto agli avanzamenti delle tecniche, ma in grado di assicurare una forma di tutela confacente agli interessi costituzionali coinvolti, ad iniziare dal «soggetto più debole». La loro esistenza, e la pervicace ostinazione con cui si è omessa ogni loro considerazione nel corso dell’approvazione della legge, fa apparire l’argomento del vuoto legislativo, fatto proprio anche dalla Corte costituzionale, ancor più pretestuoso del necessario, strumentale ad una concezione ideologica che ha voluto la legge n. 40 del 2004 come un «male minore»33 da accettare, se si vuol soddisfare il diritto di procreare con l’aiuto delle tecniche.
4. L’ultimo atto di questo sofferto dialogo tra Parlamento, Corte costituzionale e corpo elettorale, risale al 13 giugno del 2005, giorno in cui il corpo elettorale ha decretato la sconfitta politica dell’istituto del referendum, disertando la partecipazione alla consultazione referendaria. Tra sostenitori dell’abrogazione parziale e fautori del mantenimento della legge n. 40, il vero vincitore è il forte astensionismo che si è registrato in tutto il paese, segno ulteriore della disaffezione dei cittadini nei confronti di un delicato istituto di democrazia diretta. Naturalmente, non si tratta in questa sede di interrogarsi sul funzionamento buono o cattivo dell’istituto del referendum, né tanto meno di passare al vaglio le tante ricette che gli studiosi vanno da tempo predisponendo per riportare in vita un malato in agonia.
Nel caso di specie, ad attirare l’attenzione di chi scrive è la forte valenza politica dell’astensione, che assume un significato completamente diverso dalle precedenti tornate referendarie. Sappiamo tutti che l’astensione è, da tempo, diventata l’espediente al quale ricorrono quanti vogliono conservare la normativa di cui si chiede l’abrogazione referendaria. Si fa leva sulla norma di salvaguardia contenuta nell’art. 75, comma 4, Cost., posta a garanzia della legittimità della consultazione, per evitare il raggiungimento del quorum, inficiando la validità della chiamata alle urne del corpo elettorale. La tecnica astensionista rende quindi ancora più difficile e gravoso il compito dei promotori del referendum, i quali, oltre a predisporre i quesiti, a dover raccogliere le firme, a preoccuparsi del giudizio di ammissibilità della Corte, devono anche assicurarsi la maggioranza dei partecipanti al voto.
La singolarità del caso, è data dal fatto che in quest’occasione la tecnica dell’astensione è stata accolta e fatta propria, con tatticismo degno della migliore ars politica, dalla Conferenza episcopale italiana34, la quale per bocca del suo Presidente, il cardinale Camillo Ruini, ha invitato l’elettorato cattolico italiano a non recarsi alle urne35. Le gerarchie della Chiesa cattolica hanno quindi deciso di sfruttare le anomalie dell’istituto ed hanno operato attivamente affinché il referendum perdesse, anche questa volta, il ruolo che esso riveste all’interno del nostro ordinamento democratico. La questione istituzionale è del tutto evidente, e non si pone tanto in termini di divieto o di legittimità costituzionale quanto di opportunità politica. Ci si chiede, se basti il tema della tutela della vita a «legittimare» una così forte ingerenza della Chiesa cattolica nella vita democratica di uno Stato laico, al punto da trasfigurare il funzionamento di un istituto essenziale al circuito della democrazia.
Qual è la lezione che si ricava dal complesso dell’intera vicenda che ruota intorno alla legge sulla procreazione medicalmente assistita? In primo luogo, c’è la doppia ferita inferta allo Stato laico e di diritto. Una prima volta, con l’approvazione di una legge scritta, secondo il giudizio di molti, sotto «dettatura» delle autorità ecclesiastiche, in nome di valori recepiti in modo profondamente diversi dal resto della collettività statuale, cui si aggiunge, come detto, l’ingerenza delle stesse autorità nella fase referendaria. L’esito della consultazione referendaria, e soprattutto la bassa percentuale dei votanti, rischia, inoltre, di procrastinare molto al di là nel tempo le possibilità di rivedere il testo della legge, in quanto la normativa esistente è stata tacitamente confermata dall’elettorato, anche se non c’è stata un’espressione netta a favore del no. Si deve anche aggiungere che a penalizzare i promotori dei referendum è stata la decisione della Corte costituzionale di escludere, con gli argomenti illustrati, il quesito abrogativo totale, più semplice da metabolizzare da parte del corpo elettorale, impaurito, in alcuni casi, dal contenuto tecnico-scientifico dei quesiti abrogativi parziali.
Resta sullo sfondo la questione dell’irragionevolezza della legge o se si preferisce della sua irrazionalità. Troppe volte si è ricordato, qui e altrove, che il carattere assoluto del diritto alla vita, voluto con la legge n. 40, porta alla soppressione di una fitta serie di diritti, incluso lo stesso diritto alla salute del nascituro non protetto in alcun modo nell’ambito della legge. E’ importante sottolineare tale aspetto, in quanto sempre più numerose stanno diventando le richieste formalizzate ai giudici, da parte di coppie portatrici di malattie genetiche, allo scopo di vedersi autorizzare l’analisi di preimpianto sull’embrione fecondato. La prima risposta è attesa per il 21 di giugno dal giudice di Cagliari, cui si è rivolta una donna affetta da ß-talassemia, la quale già in passato aveva subito un aborto perché il feto concepito allora risultava affetto da talassemia incurabile. Dalla decisione del giudice di Cagliari, e degli altri che dovranno pronunciarsi, dipende la possibilità di sollevare la questione di legittimità costituzione della legge, per poi riprendere un cammino più ragionevole e partecipato sulle modifiche da apportare alla legge.