Di seguito il testo della pronuncia del Consiglio di Stato, con la quale è stata ritenuta legittima la deliberazione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa del 24 luglio 2003, che esclude dalla partecipazione all’elezione del giudice della Corte costituzionale prevista dall’art. 3 L. 11 marzo 1953 n. 87 i magistrati del Consiglio di Stato collocati fuori ruolo. Ai fini dell’elettorato attivo è infatti richiesta, oltre al possesso della qualifica, anche l’effettività nell’esercizio delle funzioni.
14 novembre 2003 – C.d.S., IV Sez. – Pres. ed Est. SALVATORE P. – C.G. ed altri (avv. Clarizia) c. Consiglio di presidenza giustizia amministrativa (avv. St. Criscuoli) – (Conferma T.A.R. Lazio Sez. I 26 settembre 2003 n. 7777).
FATTO E DIRITTO.
1. Con istanza del 20 giugno 2003 gli odierni appellanti – nella loro qualità di Consiglieri di Stato collocati fuori ruolo per l’assolvimento di incarichi istituzionali o di diretta collaborazione presso l’Esecutivo, Organi costituzionali e Autorità indipendenti – hanno richiesto al Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa di riesaminare la questione della partecipazione dei magistrati fuori ruolo all’elezione del Giudice della Corte costituzionale prevista dall’art. 3 della legge n. 87 del 1953.
L’Organo di autogoverno, con delibera del 24 luglio 2003, ha escluso che i Consiglieri di Stato collocati fuori ruolo siano titolari di elettorato attivo nella suddetta elezione.
Il ricorso proposto dagli interessati avverso tale delibera è stato respinto dal Tribunale con la sentenza in epigrafe indicata.
Di tale sentenza gli stessi hanno richiesto l’integrale riforma, previa sospensione dell’efficacia, proponendo l’appello qui in esame.
Si è costituita l’Amministrazione, insistendo per il rigetto del gravame.
Nella Camera di Consiglio dell’11 novembre 2003 il Collegio, preso atto di quanto concordemente richiesto dalle Parti, ha evidenziato la sussistenza dei presupposti per definire immediatamente la causa nel merito, ai sensi degli artt. 21 e 26 della legge 6.12.1971 n. 1034 e successive modifiche.
2. L’appello non è fondato e la sentenza impugnata merita di essere confermata, sia pure alla luce di alcune integrazioni motivazionali.
A sostegno del ricorso gli appellanti rilevano da un lato che la normativa applicabile (sia costituzionale che ordinaria) ricollega nella fattispecie l’elettorato attivo esclusivamente al possesso dello status di Consigliere di Stato e non già all’effettivo esercizio delle relative funzioni e dall’altro che tale status non viene meno nel caso di collocamento fuori ruolo.
A tale ultimo riguardo, gli appellanti osservano che il Consigliere di Stato è generalmente investito di incarichi esterni (con conseguente collocamento f.r.) proprio in ragione delle qualità di terzietà ed imparzialità che rivengono dalla sua appartenenza all’Istituto e che comunque l’espletamento di tali incarichi si ricollega sempre all’esercizio di quelle funzioni di consulenza giuridico-amministrativa che l’art. 100 Cost. intesta al Consiglio di Stato.
Infine gli appellanti rilevano che la tesi interpretativa fatta propria dal Consiglio di Presidenza esibisce un evidente profilo di contraddittorietà nella misura in cui introduce una ingiustificata diversificazione fra i requisiti previsti per l’elettorato attivo e quelli per l’elettorato passivo, essendo sin qui incontestata l’eleggibilità a Giudice della Corte costituzionale del magistrato collocato fuori ruolo o non attualmente investito di funzioni di Istituto.
3. Procedendo alla ricostruzione della normativa di riferimento, il Collegio ritiene di poter sin d’ora prescindere da ogni approfondimento in ordine alla doglianza da ultimo sintetizzata, in quanto la stessa Costituzione detta nella fattispecie discipline diverse per l’elettorato attivo (art. 135 primo comma) e quello passivo (art. 135 secondo comma), in particolare attribuendo quest’ultimo anche ai magistrati delle giurisdizioni superiori collocati a riposo i quali ovviamente non fanno parte dei relativi Collegi elettorali: risulta quindi palese già al livello costituzionale la disomogeneità dei requisiti postulati nelle due ipotesi.
Tanto chiarito, si ricorda che l’art. 135 comma primo della Costituzione, per quanto qui interessa, prevede che “la Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati….. per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative.” Dal raffronto fra il disposto del primo comma dell’articolo citato (il quale per l’elettorato attivo richiama le “supreme magistrature) e del secondo comma (il quale come detto richiede per l’elettorato passivo l’appartenenza alle “giurisdizioni superiori”) sembra potersi evincere che il Costituente ha inteso utilizzare, nei due casi, due diversi criteri di riferimento: oggettivo e relativo cioè agli Organi supremi, nel primo comma; soggettivo e relativo cioè ad uno status magistratuale, nel secondo comma.
I lavori preparatori confortano l’assunto secondo cui il primo comma dell’art. 135 Cost. individua i Collegi eligenti negli Organi di vertice delle magistrature ordinaria e amministrativa, mentre il secondo comma attribuisce l’elettorato passivo a quanti abbiano comunque conseguito uno status, indipendentemente dalla attualità del medesimo.
Al riguardo forse non è inutile ricordare che il Progetto di Costituzione sottoposto all’Assemblea dalla Commissione dei Settantacinque prevedeva all’art. 127 (poi divenuto 135) criteri di composizione della Corte del tutto diversi da quelli poi contemplati nel testo definitivo, disponendo nel senso – per quanto qui interessa – che un quarto dei Giudici fosse scelto dall’Assemblea Nazionale all’interno di una rosa di magistrati designati “dalle magistrature ordinaria e amministrativa”.
Nel corso di una discussione particolarmente ampia ma tutta ovviamente focalizzata sul nodo allora sostanziale (il carattere prevalentemente politico o giurisdizionale da attribuire al nuovo Organo) l’articolo fu modificato una prima volta, nella parte che qui interessa, con l’accoglimento da parte del relatore Perassi (Atti A.C.- Resoconti stenografici pag. 2646) di un emendamento (a firma dell’on. Giovanni Leone ed altri) di tenore assai vicino al testo attuale, che affidava però la nomina di un terzo dei componenti della Corte al solo Consiglio Superiore della Magistratura.
Infine in sede di votazione finale, avendo l’on. Ruini a nome della Commissione accettato un emendamento proposto dagli onn. Aldo Bozzi e Persico, il Consiglio Superiore fu sostituito, nella qualità di organo eligente “dalle supreme magistrature dell’ordine giudiziario e amministrativo”. (A.C. pagg. 2650 e segg.) Viceversa, per quanto riguarda l’elettorato passivo, tanto l’art. 127 (ora 135) del Progetto (secondo cui la Corte era “composta per metà di magistrati, per un quarto di avvocati e docenti di diritto, per un quarto di cittadini eleggibili ad un ufficio politico..”) quanto il testo definitivo derivante dall’approvazione dell’emendamento Leone sopra richiamato (che richiedeva per gli avvocati il requisito dei venti anni di esercizio e per i magistrati l’appartenenza alle giurisdizioni superiori) collegavano, come si è detto, l’eleggibilità ad uno status personale.
Come è noto, il testo dell’articolo 135 è stato modificato (ma non nel primo e secondo comma) dalla legge costituzionale 22.11.1967 n. 2, la quale – dopo aver abrogato l’art. 3 della legge costituzionale 11.3.1953 n. 1 ove si prevedeva che la Corte fosse giudice “dei titoli di ammissione” dei suoi componenti – ha previsto una competenza della Corte solo per l’accertamento “dei requisiti soggettivi di ammissione” dei propri componenti.
In tal modo a partire dal 1967, per quanto qui interessa, è venuta meno la possibilità per la Corte di vagliare, in sede di verifica dei poteri, la regolarità delle operazioni elettorali in ordine ai profili di elettorato attivo.
Lo scenario suddescritto fa da sfondo al dato normativo nel quale viene in decisivo rilievo l’art. 3 della legge ordinaria 11.3.1953 n. 87 (recante, in applicazione dell’art. 137 comma secondo Cost., norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) ai sensi del cui primo comma: “I giudici della Corte la cui nomina spetta alle supreme magistrature ordinaria ed amministrative, sono eletti: a) tre da un collegio del quale fanno parte il presidente della Corte di cassazione, che lo presiede, il procuratore generale, i presidenti di sezione, gli avvocati generali, i consiglieri e i sostituti procuratori generali della Cassazione; b) uno da un collegio del quale fanno parte il Presidente del Consiglio di Stato, che lo presiede, i presidenti di sezione ed i consiglieri del Consiglio di Stato; c) uno da un collegio del quale fanno parte il presidente della Corte dei conti che lo presiede, i presidenti di sezione, i consiglieri, il procuratore generale ed i viceprocuratori generali della Corte dei conti”.
Tale norma identifica i componenti dei collegi costituiti dalle “supreme magistrature” mediante un criterio di riferimento per così dire composito e cioè tenendo contestualmente conto da un lato delle qualifiche rivestite dai magistrati secondo i rispettivi ordinamenti e dall’altro facendo riferimento – con evidenza, per la magistratura ordinaria – ai posti-funzione previsti nel ruolo del “Personale giudicante e del Pubblico Ministero addetto alla Suprema Corte di Cassazione” (Tab. G. allegata all’O.G. – R.D. n. 12 del 1941) così non equivocamente postulando la attualità delle funzioni effettivamente svolte presso l’Organo di appartenenza (Suprema Corte).
La norma, quindi, esclude – in generale – dall’elettorato attivo i magistrati che svolgono funzioni all’interno degli Istituti pur non avendo conseguito la relativa qualifica (ad es. magistrati d’appello applicati in Cassazione e referendari e primi referendari della Corte di conti o del Consiglio di Stato ante L. n. 186 del 1982) ed esclude altresì i magistrati di cassazione i quali, pur in possesso della qualifica ex art. 4 L. 24.5.1951 n. 392, svolgano funzioni ad es. direttive presso altri Uffici (presidente o di procuratore della Repubblica in taluni Tribunali o presidente di sezione o di avvocato generale presso le Corti territoriali), come allora potevano e tuttora possono ex art. 120 O.G..
In sostanza, la lettera della legge opera contestualmente su due piani idealmente distinguibili, identificando – espressamente, nelle disposizioni relative alla Magistratura ordinaria – il Collegio elettorale con l’Organo, per come composto da magistrati di una certa qualifica purchè attualmente ad esso addetti, e cioè svolgenti in seno ad esso determinate funzioni.
La conclusione sopraesposta trova espresso conforto nella giurisprudenza della Corte costituzionale la quale come è noto – avendo la Corte dei conti dubitato della legittimità dell’art. 2 comma primo lettera c) nella parte in cui esclude dall’elettorato attivo i magistrati contabili di qualifiche diverse da quelle ivi nominativamente indicate – dichiarò infondata la relativa questione (con sentenza 27.6.1963 n. 111) osservando che la legge non ha violato alcuna norma costituzionale, ma piuttosto, ha attuato l’intento del Costituente, “affidando compito così grave a collegi, che, sotto ogni aspetto, ha considerato supremi”.
In tal senso – ebbe a chiarire la Corte – l’articolo 135 quando parla di “supreme magistrature ordinaria e amministrative”, non si riferisce ai supremi magistrati ma alle magistrature in senso oggettivo (anche se non già nella loro composizione ordinaria, ma ad esse in quanto speciali collegi elettorali investiti dell’alto compito di designare un terzo dei componenti della Corte Costituzionale, l’organo a cui è affidato il compito di controllare la costituzionalità delle leggi e l’ordinata ed equilibrata convivenza degli organi costituzionali, tra i quali si suddivide l’esercizio della sovranità statale.). Più ampiamente, nel contesto della sentenza 10.5.1982 n. 86 dichiarativa dell’illegittimità degli artt. 7 e 17 L. n. 831 del 1973, la Corte ha poi osservato che “l’ordinamento processuale e giudiziario può bene formare l’oggetto delle più varie riforme legislative (alla sola condizione che non si contraddicano altri precetti costituzionali), per tutto ciò che riguarda le funzioni ed i giudici di merito: fino al punto di prevedere la completa unificazione dello stato giuridico di tali magistrati. Ma le leggi ordinarie non possono invece disporre delle funzioni costituzionalmente riservate alla Corte di cassazione (in base al secondo e terzo comma dell’art. 111); né possono dunque trascurare un siffatto motivo di diversità funzionale, nell’attribuire la qualifica di magistrato di cassazione: tanto più che questi giudici vengono distintamente considerati dalla stessa Carta costituzionale (negli artt. 106, terzo comma, e 135, primo e secondo comma), con sicuro riferimento ai soli magistrati investiti delle corrispondenti funzioni (o già titolari di esse).” Orbene, dal momento che l’art. 3 comma primo lettera a) della legge n. 87 del 1953, per quanto riguarda la Cassazione, ha collegato l’elettorato attivo non soltanto alla qualifica formalmente rivestita dai magistrati interessati ma ha altresì richiesto l’appartenenza (intesa come concreta investitura di determinate funzioni) degli stessi alla Corte, deve coerentemente ritenersi – a meno di non ipotizzare criteri inammissibilmente diversificati per le diverse magistrature – che il mero possesso di qualifica di Consigliere di Stato, richiamata alla successiva lettera b) dello stesso comma, non è sufficiente ai fini dell’attribuzione dell’elettorato attivo, richiedendosi anche in questo caso l’altro requisito relativo all’effettività dell’esercizio delle funzioni.
4. Così ricostruito il quadro di riferimento, ne deriva che i Consiglieri di Stato collocati fuori ruolo non hanno titolo a far parte dello speciale Collegio elettorale che la legge, come si è visto, identifica nell’Organo – Consiglio di Stato in una determinata composizione.
Si può pur convenire sul rilievo – ampiamente esposto dagli appellanti – in ordine alla tendenziale non incidenza del suddetto collocamento sullo status, e quindi sul regime dei diritti e dei doveri, del pubblico dipendente (ad es. VI Sez. 31.10.1997 n. 1549): il che – si osserva incidentalmente – dà ragione della prassi la quale (in difetto di espressa preclusione comminata dall’art. 7 c. 2 L. n. 186 del 1982) ammette i Consiglieri di Stato f.r. a partecipare alle elezioni dei componenti togati in seno all’Organo di autogoverno.
Del pari merita adesione la tesi che tendenzialmente, l’assunzione di incarichi istituzionali da parte dei Consiglieri di Stato si ponga idealmente in relazione di sostanziale continuità con quella imparziale funzione di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela, anche preventiva, della giustizia nell’Amministrazione che l’art. 100 Cost. commette all’Istituto.
E tuttavia, pur dovendosi in tali sensi ritenere che al collocamento f.r. del Consigliere di Stato non consegua in senso tecnico una vera e propria novazione o anche solo mutazione dell’originario e perdurante rapporto di servizio, non può seriamente contestarsi che l’istituto importa in generale – secondo l’antica distinzione giurisprudenziale poi confluita nell’art. 58 T.U. n. 3 del 1957 – una attenuazione del rapporto di impiego con conseguente sospensione del disimpegno delle prestazioni nell’Amministrazione di appartenenza cui fa riscontro l’esercizio di funzioni diversificate da quelle di istituto (ad es. Corte conti ris. 30.11.1951 n. 402): come sembra far evidente la circostanza che solo in virtù di espressa previsione (artt. 57 e 59 T.U.) il periodo di tempo trascorso nella posizione f.r. è computato agli effetti del trattamento di quiescenza e previdenza.
In effetti, come pragmaticamente chiarisce la giurisprudenza più recente, il collocamento fuori ruolo determina la situazione anomala del dipendente collocato al di fuori della struttura burocratica cui istituzionalmente appartiene lasciando scoperto l’ufficio di titolarità che può essere ad altri attribuito (VI Sez. 21.9.1984 n. 545); importa una modifica del rapporto di lavoro per effetto della quale l’impiegato viene destinato a svolgere presso un’amministrazione diversa da quella di appartenenza compiti speciali che presentano un qualche interesse per l’amministrazione originaria (IV Sez. 15.2.2002 n. 914); presuppone, in virtù dell’autonomia tra la messa a disposizione e l’assegnazione delle funzioni, che queste ultime – pur teleologicamente contemplate all’atto del collocamento – siano costitutivamente conferite con provvedimento dell’Amministrazione ad quam. (Sez. IV 12.11.1990 n. 891).
Quanto sin qui considerato conferma, a giudizio del Collegio, che il Consigliere di Stato f.r., esercitando aliunde i compiti affidatigli da altra Amministrazione, possiede sì la qualifica ma non possiede l’altro dei due requisiti contestualmente richiesti dalla legge ai fini dell’elettorato attivo, e cioè quello inerente l’esercizio concreto e attuale delle funzioni in seno all’Istituto; del quale egli, in tale limitatissimo senso, “non fa parte”, giusta la formula icastica pedissequamente utilizzata con riguardo ai Consiglieri di Cassazione fuori ruolo in tutti i Decreti di convocazione dei comizi elettorali presso la Suprema Corte.
5. L’interpretazione cui il collegio aderisce trova sicuro e valido fondamento nel contesto normativo. Essa trova, peraltro, un autonomo, parallelo e del pari decisivo supporto in una prassi del tutto consolidata che valorizza al massimo grado il criterio di effettività dell’appartenenza, escludendo – oltre che ai magistrati sospesi per motivi disciplinari – i magistrati collocati fuori ruolo dall’elettorato attivo.
Tale prassi – che trova origine in un concordato operativo stipulato prima dell’entrata in vigore della legge n. 87 del 1953 dai Presidenti pro tempore della Suprema Corte, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti – è stata da allora costantemente seguita ed esibisce quindi, in termini di diuturnitas e di opinio, i requisiti di una vera e propria consuetudine normativa.
Al riguardo il Collegio è ben consapevole del regime restrittivo che il vigente ordinamento detta per la fonte consuetudinaria, come si deduce dalla circostanza che gli “usi” (secondo la terminologia privatistica di cui agli artt. 1, 8 e 9 disp. prel . cod. civ.) possono validamente operare in via interpretativa o sostitutiva in quanto richiamati da disposizioni di leggi o regolamenti di natura dispositiva (consuetudine secundum legem) o in via integrativa nell’ambito di materie non disciplinate dalla legge (consuetudine praeter legem) mentre va recisamente esclusa la rilevanza abrogativa della consuetudine contra legem.
E tuttavia, a fronte del generale riconoscimento dell’attitudine di tale fonte-fatto a dettare solo norme subordinate perfino alle stesse norme secondarie di natura attizia quali quelle regolamentari, resta indubbio che sia pure negli specifici ambiti normativi di rilievo costituzionale – ferma l’inammissibilità di una consuetudine contraria alla Costituzione – ben si ammette una consuetudine integrativa anche tendenzialmente incompatibile con norme poste da fonti attizie ma non costituzionali.
In sostanza, al livello di rilievo costituzionale la consuetudine e la stessa prassi giocano un ruolo determinante, in quanto il fatto normativo nelle sue varie manifestazioni mantiene un suo proprio, peculiare valore e manifesta la propria, autonoma efficacia, pur nel contesto di un rapporto di innegabile complementarietà con le fonti attizie delle quali può rappresentare sia il momento ermeneutico integrativo sia il momento anticipatore.
Tanto emerge espressamente dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, in diverse occasioni ha precisato – respingendo l’obiezione relativa all’irrilevanza della prassi a fronte del diritto scritto – che la rilevanza della prassi o consuetudine costituzionale sta proprio nel collegamento di essa con il diritto scritto, nella sua capacità “esplicativa ed anche integratrice” rispetto ad esso (Corte cost. 10.7.1981 n. 119) e che le prassi applicative, allorché sono in armonia con il sistema costituzionale, contribuiscono ad integrare le norme scritte … alla stregua di principi e regole non scritti, manifestatisi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi (o comunque retti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe), vale a dire nella forma di vere e proprie consuetudini costituzionali.” (Corte cost. 18.1.1996 n. 7).
Ora se è vero che, i principi enunciati dalla Corte spiegano tutto il loro effetto nell’ambito proprio e specifico dei rapporti direttamente concernenti gli Organi costituzionali propriamente detti, non può dal pari contestarsi la doverosità sul piano ermeneutico della trasposizione dell’indicazione di fondo che da essi discende anche in un contesto, quale quello all’esame, diverso sì ma comunque assai contiguo; in un contesto cioè che – per il fine cui sono ordinate le procedure elettorali in contestazione, per l’avallo implicitamente offerto dalla Corte costituzionale (fin quando essa è stata pienamente competente in sede di verifica dei poteri) all’attuale regime delle stesse, per la posizione ordinamentale degli Organi coinvolti – orbita comunque in un ambito di pregnante rilievo costituzionale.
In tal senso si deve concludere che, quando anche per mera ipotesi fossero state in origine suscettibili di adesione interpretazioni della norma primaria diverse da quella qui seguita, la consuetudine di rilievo costituzionale nel tempo formatasi ha integrato la fonte scritta e, formando sistema con essa, concreta un autonomo ulteriore fattore ostativo rebus sic stantibus all’accoglimento della pretesa sostanziale prospettata dagli interessati Consiglieri di Stato f.r..
Sulla base delle considerazioni che precedono l’appello va perciò respinto.
Si ravvisano peraltro giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di questo grado del giudizio.