Testo rivisto e integrato dall’autore dell’audizione resa da Pietro Ciarlo alla Prima Commissione permanente della Camera dei deputati il 20 maggio 2004 sull’A.C. 4862 recante: “Riforma dell’Ordinamento della Repubblica”
1. L’attuale dibattito sulla riforma della Costituzione ha evidenziato tre esigenze di carattere istituzionale generalmente condivise cui il disegno in questione si ripromettere di rispondere.
La prima riguarda l’adeguamento della forma di governo ai nuovi assetti che si sono venuti determinando, soprattutto a seguito della riforma della legislazione elettorale.
La seconda, la necessità del coordinamento ex ante, non affidato solo ex post alla corte costituzionale, dell’attività legislativa di Stato e Regioni e, dunque, la problematica che ormai viene riassunta nella formula del Senato federale.
La terza riguarda la razionalizzazione del riparto delle competenze legislative previsto dall’art. 117 Cost., ma su questo oggetto il disegno in discussione non interviene. Viceversa, esso amplia la potestà legislativa esclusiva delle regioni in materia sanitaria, scolastica e di polizia locale aggravando i problemi di coordinamento con la legislazione statale, basti pensare alla previsione della lett. m) del secondo comma dell’art. 117. Questa scelta non appare dettata da esigenze di carattere istituzionale, ma esclusivamente dall’interesse di uno dei partiti della coalizione di maggioranza.
Oltre questo quadro di fondo, secondo gli estensori del progetto le suddette revisioni, per essere sistematicamente coerenti, richiederebbero una revisione del ruolo del Presidente della Repubblica e una variazione della composizione della Corte Costituzionale.
Infine, in modo inatteso rispetto al dibattito corrente, il disegno di legge ipotizza una modifica anche del procedimento di revisione costituzionale che renderebbe in fatto quasi impossibile future revisioni della Costituzione. Una tale modifica dell’art. 138 da un lato appare non richiesta, dall’altro estremamente pericolosa per gli equilibri futuri della nostra democrazia perché rendendo estremamente difficili le revisioni costituzionali non consente di trovare uno sbocco gradualistico alle tensioni che inevitabilmente si cumulano nel tempo. Tale modifica non solo non è condivisibile nel merito per l’eccessiva rigidità che determina, ma appare del tutto ultronea anche rispetto alla logiche del disegno di legge di cui si discute. L’unica motivazione che sembra sorreggerla è, pertanto, ravvisabile nel fatto che il disegno in discorso, per quanto attiene la ristrutturazione del Parlamento e in particolare la riduzione del numero dei deputati e dei senatori dovrebbe entrare in vigore, secondo quanto disposto dalle confuse norme transitorie, buon esempio di come non andrebbe redatto nessun testo normativo, dalla XVI legislatura. Tale differimento dell’entrata in vigore è stato ipotizzato nella considerazione che la riduzione del numero dei parlamentari ben difficilmente sarebbe stata approvata da chi volendosi ripresentare alle elezioni avrebbe sofferto la forte restrizione dei seggi in palio. Rendendo pressocchè impossibile le revisioni costituzionali, si vuole evitare che maggioranze successive possano vanificare la modifica ancora prima che essa acquisisca efficacia. Dunque le ragioni che stanno al fondo di un intervento così pesante in una materia tanto delicata non sembrano riconducibili a significative esigenze sistematiche. Francamente non credo che una Costituzione possa essere piegata alle esigenze di un così esasperato tatticismo.
Penso che il mantenimento dell’attuale disciplina della revisione costituzionale debba essere considerata una pregiudiziale per l’ulteriore sviluppo del dibattito.
Tuttavia, nonostante l’assoluto rilievo di tale ultimo profilo e di quello riguardante il Senato delle regioni, in questa mia audizione voglio concentrare l’attenzione sulle problematiche relative alla forma di governo perché esse appaiono esiziali soprattutto in virtù della ridefinizione del ruolo del Parlamento che viene ipotizzato.
2. Non appena il testo in discussione è stato deliberato dal Senato vi sono state numerose reazioni emotive, o se si vuole preconcette, in senso contrario. Tuttavia, man mano che lo studio del testo viene approfondito le preoccupazioni sembrano aumentare piuttosto che diminuire. E non perché le esigenze istituzionali dalle quali prende le mosse siano misconosciute, ma per le soluzioni di merito proposte.
In questo senso un valore emblematico ha la pubblicazione dal titolo “La Costituzione promessa” curata da Peppino Calderisi, Fabio Cintoli e Giovanni Pitruzzella per la Fondazione Magna Carta il cui Presidente onorario è il Presidente del Senato, senatore Marcello Pera. In tale opera diversi studiosi di sicuro valore analizzano il disegno in discussione. Il tono è costruttivo, ma il merito dei giudizi è devastante, minando in radice la proposta.
Condivido tutte le critiche mosse da Magna Carta e quasi tutte le soluzioni alternative proposte.
Giovanni Pitruzzella contesta l’opportunità di far discendere dalla mozione di sfiducia lo scioglimento necessario della Camera ( art. 94 c. 3, qui e per il seguito i riferimenti sono direttamente agli articoli della Costituzione che si intende revisionare) e ipotizza di dare al Primo ministro almeno la scelta se passare la mano ad altri o chiedere lo scioglimento anticipato. Senza entrare nel merito della soluzione alternativa proposta, essa nega il principio del simul stabunt simul cadent che viceversa è uno dei pilastri del progetto in discorso (pag. 20).
Ancora Pitruzzella giustamente critica come eccessivo il quarto comma del citato art. 94 dove si prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri “può chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo. In caso di voto contrario, il Primo ministro rassegna le dimissioni e può chiedere lo scioglimento della Camera dei deputati. Si applica l’art. 88” (ivi). In pratica l’abbinamento di questione di fiducia e voto bloccato determina un inevitabile “prendere” da parte della Camera in quanto il “lasciare” determinerebbe la sua dissoluzione. Effettivamente siamo dinanzi a una previsione cruciale di tutto l’impalcato della proposta: ricondurre al Governo, e per esso al Primo ministro, il controllo della funzione legislativa sottraendolo di fatto all’assemblea rappresentativa. Né in senso contrario può valere il rinvio all’applicazione dell’art. 88.
Il secondo comma dell’art. 88 prevede che il Presidente della Repubblica non emana il decreto di scioglimento richiesto dal Primo Ministro quando venga presentata alla Camera una mozione “sottoscritta dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si indichi il nome di un nuovo Primo Ministro”. Come si vede la mozione che potrebbe salvare la Camera dallo scioglimento anticipato deve essere sottoscritta da una maggioranza assoluta formata da soli deputati appartenenti alla maggioranza che si è determinata al momento delle elezioni. Siamo dinanzi ad una nuova figura istituzionale: la “maggioranza impossibile”. Basta, infatti, che un gruppo anche di modesta consistenza dei deputati della maggioranza non sottoscriva la mozione perché essa sia irricevibile. Dunque, l’abbinamento tra questione di fiducia e voto bloccato non trova un adeguato bilanciamento nella possibilità di sostituire il Primo Ministro, essendo il relativo procedimento di difficilissima attuazione fin dalla sua fase iniziale. Proponendo un quorum così elevato per la sottoscrizione della mozione che indica il nuovo primo ministro, la sua previsione appare solo pro forma. Nel senso che il testo in discussione può essere pur sempre difeso dicendo che esso contempla anche la possibilità di sostituire il Primo ministro, ma si costruisce una procedura che nella pratica rende del tutto aleatoria tale possibilità. Dunque, resta confermato che il suddetto abbinamento tra questione di fiducia e voto bloccato espropria di fatto la Camera della funzione legislativa.
Peraltro, le previsioni di cui agli articoli 88 e 92 sullo scioglimento anticipato e per la designazione di un nuovo Primo Ministro lasciano a dir poco perplessi anche per ulteriori motivi. Infatti essi stabiliscono che le mozioni per la designazione del nuovo Primo Ministro debbano essere semplicemente sottoscritte. Mai si fa riferimento a discussione ed approvazioni delle mozioni medesime. Si potrebbe sostenere che il mero rinvio alle mozioni presuppone di per se stesso la votazione e la discussione delle medesime essendo la mozione un atto preordinato alla deliberazione assembleare su uno specifico oggetto. Tuttavia, come nota anche Pitruzzella (ivi), il fatto che non vi sia un espresso riferimento a discussione e votazione può fondare un’interpretazione che ritenga sufficiente la semplice sottoscrizione per produrre gli effetti cui è preordinata la mozione stessa. Anzi va detto che questa interpretazione risulterebbe la più fondata non solo in base al tenore letterale delle disposizioni in discorso, ma anche per il fatto che la mozione sarebbe già stata sottoscritta da una maggioranza certa. In definitiva il circuito fiduciario diverrebbe del tutto extraparlamentare nel senso che la previsione degli articoli 88 e 92 secondo cui la mozione deve essere sottoscritta dai deputati appartenenti alla iniziale maggioranza “espressa dalle elezioni” rinvia al collegamento con il candidato Primo Ministro previsto dal secondo comma dell’art. 88, dunque ad un momento pre parlamentare. La mera sottoscrizione della mozione, dal canto suo, può avvenire in qualsiasi luogo e comunque si sottrae al dibattito parlamentare e alle logiche dell’assemblea che pur sempre rappresentano un imprescindibile elemento di garanzia democratica. Ciascun deputato sarebbe chiamato alla sottoscrizione nella sua solitudine individuale e se volesse resistere non potrebbe certo giovarsi del conforto immediato e diretto con gli altri componenti l’Assemblea. L’ipotesi che la sottoscrizione possa essere richiesta a ciascun deputato anche al proprio domicilio, casa per casa, richiama immagini che con la democrazia nulla hanno a che vedere. Non si tratta di dettagli. Questo allarmante scenario è completato dal il secondo periodo del c. 2 dell’art. 92 dove si prevede che l’elezione dei deputati debba avvenire “in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro”, presupponendo, dunque, un premio di maggioranza.
In definitiva ad un Primo ministro eletto direttamente ed in pratica inamovibile, viene conferito un decisivo controllo della funzione legislativa e, giusto per non sbagliare, anche una maggioranza precostituita. Le due principali funzioni di cui un’assemblea rappresentativa può godere, la fiducia e la legislazione, sono entrambe azzerate. Si ipotizza una inaccettabile marginalizzazione della Camera che va ben al di là di qualsiasi esigenza di razionalizzazione della forma di governo e di esercizio dei poteri. A questo punto non regge alcuna similitudine con la forma di governo regionale, non solo perché la regione non ha competenza in materie di primaria importanza come le libertà e la giurisdizione, ma anche perché il Presidente della Regione non ha alcun possibilità di intromettersi direttamente e quotidianamente nel procedimento legislativo. Egli deve affidarsi al controllo politico che ha della sua maggioranza. E’ già moltissimo, ma non è quasi nulla in confronto al potere che deriverebbe al Primo ministro dall’abbinamento tra questione di fiducia e voto bloccato. Già oggi, grazie ad un sistema elettorale che di fatto introduce una premialità per la maggioranza, la portata garantistica della riserva di legge si è diluita in modo preoccupante. Ciò che potrebbe accadere se dovesse essere approvata la revisione costituzionale in discorso è facile immaginare. La funzione della riserva di legge sarebbe completamente vanificata e sotto questo aspetto i diritti di libertà resterebbero in balia di chi controlla il processo legislativo. Forse verrebbe meno la funzione garantistica della stessa Costituzione, scomparendo qualsiasi accettabile bilanciamento dei poteri: la fulgida intuizione dell’art. 16 della dichiarazione dell’89 evidentemente soffre un periodo di scarsa fortuna.
A questo punto considerando il ruolo disegnato per la Camera che associa in un comune destino di marginalizzazione tutta l’assemblea, non ha molto senso discutere di statuto dell’opposizione, tuttavia mette conto citare almeno lo sferzante giudizio espresso sul punto da De Vergottini nel citato lavoro a cura di Magna carta. A proposito dello statuto dell’opposizione, quest’autore che da oltre trent’anni riflette su questo tema, basti ricordare il suo Shadow cabinet, parla di “contraddizioni evidenti”, “pericolosa confusione” ed “arretratezza”.
3. Se le osservazioni sin qui sviluppate non possono non suscitare allarme per il corretto funzionamento democratico della forma di governo ipotizzata, non minori perplessità il progetto suscita dal punto di vista funzionale.
Innanzitutto viene ipotizzato un Senato scarsamente rappresentativo delle regioni, basti ricordare lo sferzate giudizio del Presidente della Regione Lombardia secondo il quale questo Senato avrebbe di federale solo il nome, che dunque non è in grado per la sua stessa struttura di assolvere quella funzione di coordinamento ex ante della legislazione statale e regionale. In secondo luogo il rapporto tra Camera e Senato viene costruito su base competenziale e non procedurale, prefigurando una conflittualità tra le due camere per i quali si ipotizzano sistemi risolutivi tanto inediti da apparire davvero singolari. Ma sul Senato le critiche sono ormai infinite per cui mi limito a rinviare ai saggi di Lippolis e Caravita nella citata pubblicazione della fondazione Magna Carta.
Avviandomi alle conclusioni, voglio richiamare alcune norme, peraltro marginali, ma emblematiche della scarsa qualità complessiva del disegno in oggetto. L’art. 58 dichiara eleggibili a senatori una serie di categorie e comunque i residenti nella Regione alla data di indizione delle elezione, vale a dire tutti. Si ricorderà che nella formulazione iniziale questa norma prevedeva l’eleggibilità solo di chi avesse già ricoperto cariche pubbliche elettive. La levata di scudi contro questa formulazione del tutto autoreferenziale ha portato all’attuale disposizione che altri non ha esitato a definire ridicola. Detto questo non risulta chiaro cosa ci facciano in un Senato preteso federale dei Senatori eletti nella circoscrizione Estero come prevede il primo comma dell’art. 57. Priva di qualsiasi ragionevolezza è infine la previsione dell’ultimo comma dell’art. 60 dove, per assicurare la contestuale elezione di Consigli regionali e Senato, in caso di scioglimento anticipato dei Consigli, si ipotizzano legislature regionali allungate o accorciate a seconda dei casi, anche all’ estremo. L’ipotesi più probabile è quella di due microlegislature regionali consecutive, quando a portata di mano sarebbe stata la semplicissima soluzione di rinnovare parzialmente il senato in coincidenza con ciascuna elezione regionale.
Altri esempi di soluzioni, come dire, non conformiste, potrebbero essere addotti, ma preferisco concludere.
Il disegno di legge in oggetto, pur movendo da alcune esigenze generalmente avvertite, appare francamente eccessivo nelle soluzioni proposte a proposito della forma di governo perché in fatto spoglia la Camera delle sue prerogative fondamentali e a dir poco confuso nelle altre sue parti.
Come accennavo in inizio credo di poter dire che la migliore conoscenza del testo che con il tempo si sta determinando sta orientando in modo quasi unanime i costituzionalisti ad assumere atteggiamenti di dissenso se non di aperta condanna del disegno in oggetto. Lo testimoniano i numerosi convegni che si stanno svolgendo, la pubblicazione di Magna Carta, e per quanto mi risulta personalmente anche dal modesto osservatorio di componente del comitato direttivo dell’Associazione Italiana costituzionalisti. Non a caso questo organismo, per avviare un’analisi del testo, ha ritenuto di sottoporre ai membri dell’Associazione un documento con il quale vengono posti numerosi e non secondari interrogativi.
Non nutro nessuna diffidenza nei confronti di una forma di governo presidenziale nella quale l’esecutivo fosse eletto direttamente per un periodo predeterminato e fosse altresì dotato di forti poteri, ma in questa ipotesi il Parlamento dovrebbe essere attentamente salvaguardato nelle sue prerogative legislative. Del resto anche il Presidente degli Stati Uniti gode di un potere negativo di veto, peraltro superabile a maggioranza qualificata, sulla legislazione non certo della possibilità di sciogliere le Camere se esse non approvano le sue proposte.
Tra quelle che si potevano immaginare, le ipotesi formulate dal disegno in oggetto sono forse le più eccentriche rispetto ai principi del costituzionalismo.