Al termine di due anni di lavoro, il Parlamento europeo ha adottato, il 16 febbraio 2006, a larga maggioranza, in prima lettura, la sua relazione sulla direttiva avente ad oggetto la libera circolazione dei servizi nel mercato interno, meglio conosciuta come ‘direttiva Bolkestein’. Il testo di direttiva, così come emendato dal Parlamento europeo rispetto all’originaria proposta della Commissione, ha raccolto 391 voti favorevoli, 213 contrari e 34 astensioni; e la relativa risoluzione legislativa ha ottenuto 394 voti favorevoli, 215 contrari e 33 astensioni.
La ‘direttiva Bolkestein’ – dal nome del commissario europeo al mercato interno che se ne assunse la paternità, pur essendo il suo progetto votato all’unanimità dalla Commissione – è giunta all’esame del Parlamento europeo dopo aver suscitato forti polemiche, numerosi dibattiti, diverse manifestazioni e cortei (opportunamente ‘silenziati’ dal rumore massmediatico), e, probabilmente, dopo aver giocato un ruolo non secondario – quanto meno a livello di ridondanza mercatista dei suoi enunciati – tra le motivazioni che hanno contribuito alla reiezione della c.d. ‘costituzione europea’ da parte di Francia e Olanda, attraverso la consultazione referendaria.
Le élites politico-economiche europee hanno, quindi, scelto di superare la crisi del modello di integrazione europea non già rispondendo alle domande sociali dei cittadini europei che, dopo aver bocciato il Trattato costituzionale, si sono mobilitati contro la ‘direttiva Bolkestein’, ma approfondendo le politiche e le strategie di marca liberista.
Il fine primario, e – fino a pochi mesi fa – totalizzante, della direttiva resta quello di imporre, ai 25 Stati membri dell’Unione, le regole della concorrenza commerciale, senza alcun limite, in tutte le attività di servizio che non siano già coperte da altre normative europee, mediante una strategia operativa che contempli un’accelerata e uniforme privatizzazione dei servizi pubblici.
Il Parlamento europeo, nella votazione dello scorso 16 febbraio, ha cercato, in effetti, di smussare, con una serie corposa di emendamenti, la sopracitata impostazione, tentando di rendere compatibili le misure di liberalizzazione dei servizi, previste dalla Bolkestein, con il modello sociale tracciato nelle costituzioni europee del secondo dopoguerra. Una lettura attenta del testo della direttiva consente, tuttavia, di rilevare l’esistenza di numerose contraddizioni. L’utilizzo di una sintesi lessicale, dai significati palesemente criptici, consente di tenere insieme concetti giuridico-istituzionali e socio-economici antitetici ed autoelidentesi. Basti osservare quanto auspicato dal “considerando” 3, emendamento 3, che recita: «È (…) importante realizzare un mercato unico dei servizi, mantenendo un equilibrio tra apertura dei mercati, servizi pubblici nonché diritti sociali e del consumatore».
Si direbbe, insomma, “di tutto di più”.
In tale ottica, i diritti sociali rappresentano soltanto un limite esterno, ossia sono considerati alla stregua di meri riflessi di un meccanismo che resta saldamente ancorato alla priorità del mercato libero e privato.
Su questo, la proposta di direttiva, così come approvata dalla Commissione – e, dunque, nella sua forma, per così dire, pura e originaria -, è molto eloquente. Si tratta, peraltro, di una proposta ancora all’ordine del giorno, sia perché, nonostante gli emendamenti del Parlamento (che appunto emendano lasciando intatta la ratio del provvedimento), devono compiersi ulteriori passaggi per la sua definitiva approvazione, sia perché – a ben vedere – i moventi principali che sostengono la direttiva (eliminazione degli ostacoli giuridici frapposti dai pubblici poteri nazionali alla ricerca incondizionata di redditività e profitto nel settore dei servizi, l’altro grado di competitività e di convergenza dei risultati economici di cui il mercato interno necessita per funzionare secondo i dettami liberistici, i beneficiari principali di tale liberalizzazione – ossia le PMI e i consumatori, ecc.) sono ancora tutti lì (cfr., in particolare, il “considerando” 1 e il relativo emendamento 1, nonché il “considerando” 1bis nuovo – emendamento 2). Non potrebbe essere, del resto, diversamente, dato che la direttiva rappresenta la logica conseguenza del modo concreto di operare dell’impianto economicistico dei Trattati comunitari.
Il progetto di direttiva, già approvato dalla Commissione (IP/04/37, 13 gennaio 2004), stabilisce «un quadro giuridico generale per eliminare gli ostacoli alla libertà di insediamento dei fornitori di servizi e alla libera circolazione dei servizi in seno agli Stati membri». La direttiva definisce (art. 4) i servizi come segue: «Ogni attività economica che, secondo l’art. 50 del Trattato istitutivo, si occupa della fornitura di una prestazione oggetto di una contropartita economica». Sono presi, chiaramente, in considerazione tutti i servizi, eccetto quelli erogati direttamente e gratuitamente dai poteri pubblici, ossia l’istruzione, la cultura, la sanità e le cure sanitarie.
Un promemoria della Commissione (Memo/04/03, 13 gennaio 2004) presenta, peraltro, una lista incompleta dei servizi presi in considerazione dalla direttiva, che vanno dai servizi giuridici alle professioni artigianali, quali l’idraulico e il carpentiere, l’edilizia, la distribuzione, il turismo, i trasporti, i servizi sanitari e di copertura delle cure sanitarie, i servizi ambientali, gli studi di architettura, le attività culturali, gli uffici di collocamento.
La proposta della Commissione prevede (art. 16), allo scopo di eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei servizi, l’applicazione del c.d. ‘principio del paese d’origine’. Un principio che, almeno per ora, il Parlamento europeo ha ritenuto opportuno cancellare. Secondo questo principio, un fornitore di servizi è sottoposto esclusivamente alla legge del paese in cui ha sede l’impresa e non a quella del paese dove fornisce il servizio. Si comprende come, il mantenimento di questo principio, si sarebbe tradotto in un vero e proprio incitamento legale allo spostamento della sede delle imprese fornitrici di servizi verso i paesi dove le normative fiscali, sociali e ambientali sono più permissive. Con il risultato che questo principio, una volta diventato norma europea, avrebbe esercitato una forte pressione sui paesi i cui standard fiscali, sociali e ambientali proteggono di più l’interesse generale.
Altro punto-cardine della direttiva Bolkestein è rappresentato dai regimi di autorizzazione e dalle relative condizioni (artt. da 9 a 15 della proposta della Commissione). Gli Stati, per facilitare la libertà di insediamento, devono limitare le condizioni da porre all’autorizzazione relativa all’insediamento di un’attività di servizio. Le condizioni dovranno, cioè, essere non discriminatorie e obiettivamente giustificate da ragioni imperative di interesse generale, adeguate a tali ragioni, precise e non equivoche, obiettive e rese pubbliche in anticipo. Nel caso in cui i poteri pubblici non rispettino queste condizioni, il fornitore privato di servizi potrà ricorrere in giudizio. Non solo. Gli Stati, al fine di giustificare l’effettiva sussistenza di tali esigenze e per provare che esse non vanno oltre quanto strettamente necessario per assicurarne il soddisfacimento, devono modificare le proprie legislazioni per eliminare ogni caratteristica considerata “discriminatoria” rispetto ad una serie di condizioni (limiti quantitativi o territoriali basati sulla popolazione o su una distanza geografica minima; esigenze legate alla detenzione di capitale: obbligo di disporre di un capitale minimo per certe attività o avere una qualifica personale particolare per detenere il capitale sociale o gestire certe società; imposizione di un numero minimo di dipendenti; divieti e obblighi in materia di vendita in perdita e di saldi; obbligo da parte del fornitore di servizi di fornire, insieme al suo, altri servizi specifici, ecc.).
La direttiva sottrae, quindi, ai poteri pubblici qualsiasi potere di indirizzare l’organizzazione dell’attività, dello sviluppo e dell’espansione economica dei singoli paesi e dell’Unione.
È interessante notare, infine, come l’art. 23 della proposta di direttiva, approvata dalla Commissione, preveda un regime di norme particolari per le cure sanitarie. Secondo tale regime, infatti, qualora un fornitore di cure sanitarie di uno Stato X volesse stabilirsi nello Stato Y, quest’ultimo non potrebbe subordinare l’autorizzazione dell’insediamento alla pretesa che il fornitore in questione assuma gli obblighi sanitari in esso vigenti. Non potrebbe, cioè, pretendere che il fornitore medesimo si uniformi al suo sistema di sicurezza sociale. Un fornitore di prestazioni che si stabilisca in un paese, non è, quindi, tenuto a rispettare il sistema di sicurezza sociale del paese ove egli si vuole stabilire.
Rispetto a questo schema cosa è cambiato con gli emendamenti approvati dal Parlamento europeo?
Posto – come si è già sottolineato – che l’impianto ideologico neoliberista resta invariato, poiché la direttiva costituisce lo svolgimento normativo necessario di uno «spazio senza frontiere interne nel quale sono assicurate la libera circolazione dei servizi e la libertà di stabilimento» (“considerando” 1 fedelmente riprodotto nell’emendamento 1 del Parlamento), l’Aula ne ha ribadito la funzione specifica, ossia quella di stabilire le disposizioni generali che permettono di agevolare l’esercizio della libertà di stabilimento dei prestatori di servizi nonché la libera circolazione dei servizi Ha aggiunto, nel contempo, la necessità di garantire un «elevato livello di qualità» dei servizi stessi. Ha precisato, poi, che la direttiva «non riguarda la liberalizzazione dei servizi di interesse economico generale, né la privatizzazione di enti pubblici che prestano tali servizi». Ha ribadito, infine, che essa non pregiudica le disposizioni comunitarie in materia di concorrenza e aiuti.
Il Parlamento ha precisato, sempre in linea generale, che la direttiva non incide sulla libertà degli Stati membri di definire, conformemente al diritto comunitario, quelli che essi considerano servizi di interesse economico generale, né sulla libertà di determinare le modalità di organizzazione e di finanziamento di tali servizi e gli obblighi specifici cui essi devono sottostare. Si è chiarito, inoltre, che la direttiva non si applica al diritto del lavoro e, in particolare, non pregiudica le disposizioni relative ai rapporti tra le parti sociali, compresi il diritto di svolgere un’azione sindacale e il diritto a contratti collettivi, né pregiudica le disposizioni nazionali in materia di previdenza sociale vigenti negli Stati membri. Deve essere, cioè, pienamente rispettato il diritto di negoziare, concludere, estendere e applicare i contratti collettivi, e il diritto di sciopero. La direttiva, inoltre, non riguarda i servizi pubblici sanitari e l’accesso al finanziamento pubblico da parte dei prestatori di cure sanitarie.
Si è già accennato alla cancellazione, da parte del Parlamento europeo, del c.d. principio del paese d’origine. La nuova formulazione prevede che gli Stati membri devono «rispettare il diritto dei prestatori di servizi» di operare in uno Stato membro diverso da quello «in cui hanno sede» e devono assicurare il libero accesso a un’attività di servizio nonché il libero esercizio dell’attività di servizio sul proprio territorio. Resta, di conseguenza, il divieto, per gli Stati membri, di ostacolare la prestazione di servizi sul loro territorio imponendo requisiti discriminatori, ingiustificati e sproporzionati. La discriminazione, in particolare, non deve essere fondata sulla cittadinanza o sulla sede sociale. L’imposizione di requisiti specifici, da parte degli Stati membri, può determinarsi solo per giustificati motivi di politica pubblica, di politica di sicurezza, di protezione dell’ambiente e di salute pubblica.
I nodi vengono, però, al pettine quando si tratta di verificare il reale campo d’applicazione della direttiva e le sue relazioni con le altre disposizioni del diritto comunitario.
La direttiva, infatti, si applica «ai servizi forniti da prestatori stabiliti in uno Stato membro», anche se essa non potrà trovare applicazione in relazione ai servizi d’interesse generale «quali definiti dagli Stati membri», a meno che non si tratti di attività economiche «aperte alla concorrenza», ossia alla cui fornitura partecipano anche imprese private. Sono anche esclusi i servizi sociali, come l’edilizia sociale, l’assistenza ai figli e i servizi alla famiglia. Sono previste numerose altre deroghe. Il Parlamento, infatti, precisa che le disposizioni previste dall’articolo relativo alla libertà di prestazione dei servizi non si applicano ai servizi di interesse economico generale forniti in un altro Stato membro, come ad esempio, ai servizi postali, ai servizi di trasmissione, distribuzione e di fornitura e stoccaggio di gas, ai servizi di distribuzione e di fornitura idrica e ai servizi di gestione delle acque reflue e al trattamento dei rifiuti. Le suddette disposizioni non si applicano, inoltre, alle attività svolte dallo Stato o da un’autorità regionale o locale in campo sociale, culturale e giudiziario e, pertanto, non rientrano in tale definizione i corsi impartiti nell’ambito della pubblica istruzione da istituti pubblici e privati o la gestione dei regimi di previdenza sociale non impegnati in attività economiche.
Su questo terreno sorgono, però, dei legittimi interrogativi. Quali criteri userà lo Stato membro per definire i servizi di interesse generale? È, cioè, pensabile che, all’interno di un’economia di mercato aperta, in libera concorrenza e fortemente competitiva, quei criteri potranno avere una natura qualitativamente diversa dalle prescrizioni neoliberistiche contenute nei Trattati? È possibile, poi, affermare che, oggi sussistano, a livello nazionale, attività economiche non parametrate ai criteri aziendalistici dell’efficienza e dell’economicità e, quindi, considerate essenziali per la soddisfazione preminente di interessi pubblico-sociali?
Occorre, inoltre, considerare un’altra rilevante questione. Il Parlamento europeo ha, infatti, precisato, che, in caso di conflitto tra le disposizioni della direttiva e le altre normative comunitarie disciplinanti aspetti specifici dell’accesso all’attività di un servizio, nonché i profili del suo esercizio in settori specifici, «prevalgono e si applicano a tali settori specifici» le pertinenti normative comunitarie. Ora, siamo certi che queste normative “speciali” conterranno sempre disposizioni rivolte ad evitare privatizzazioni o a preferire, per l’espletamento di quel determinato servizio, attività economiche non aperte alla concorrenza commerciale?
Se, dunque, scompare, almeno per ora, nell’ambito dell’art. 16 il principio del paese d’origine resta, però, il fatto che la libera prestazione dei servizi fra i paesi dell’Unione potrà essere esercitata, di fatto, senza alcun vincolo. Non è un caso che, in materia, vengano pressoché mutuate le normative GATT dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Dal medesimo articolo spariscono, inoltre, anche i deboli richiami alla protezione dei consumatori e i riferimenti alle politiche sociali.
Anche i rassicuranti emendamenti sopra menzionati, relativi alla tutela dei lavoratori e dei loro diritti, vengono smentiti, dalla creazione, nei fatti, di un doppio sistema, per cui, da un lato, i lavoratori autonomi sono tenuti a rispettare la normativa del loro paese d’origine, dall’altro lato, invece, i lavoratori dipendenti sono sottoposti alle prescrizioni della direttiva 96/71/CE. Le norme in essa contenute, peraltro assai lacunose, prescrivono che, ai dipendenti stranieri debbano essere applicate le leggi del paese in cui lavorano per quel che riguarda il salario minimo e l’orario di lavoro, mentre per i contributi e la previdenza sociale deve valere la legge del paese d’origine dell’impresa. Permane, quindi, la deregolamentazione del lavoro autonomo e viene impressa una spinta ulteriore alla precarizzazione dei contratti di lavoro.
La direttiva, pur copiosamente emendata dal Parlamento europeo, conferma e rilancia la strategia liberista di un’Europa intesa come libero mercato dei servizi, in cui i diritti sociali ed i diritti del lavoro restano, pur mediante l’uso accorto di sofismi, subalterni e dipendenti alla cultura della competizione globale.
Si conferma, pertanto, la distanza fra l’Europa dei mercati, strutturata da una possente organizzazione dei poteri politici ed economici, e l’Europa dei cittadini e dei lavoratori.
A questi ultimi ed alle loro organizzazioni di massa resta, quindi, affidato il difficile compito di allargare la mobilitazione, nei singoli paesi ed in Europa, per determinare una discontinuità con le politiche liberiste e per rilanciare, a livello nazionale e sovranazionale, le irrinunciabili conquiste del costituzionalismo democratico-sociale.