Ho avvicinato Gianni Ferrara anzitutto perché era napoletano, un intellettuale di cultura napoletana che si trovava a Roma negli anni nei quali la Facoltà di giurisprudenza della vecchia Sapienza romana ospitava molti docenti di cultura napoletana, Guarino, Sandulli, Leone, Esposito, Motzo d’Accadia, Bonifacio e a scienze politiche Calabrò, e sembrava che si fosse ricostituito un ambiente culturale che mi ricordava la mia città natale. Egli è stato un protagonista del dibattito culturale, giuridico e politico nel nostro Paese e la sua visione critica e storica del diritto costituzionale italiano e europeo lo portava verso una cultura più aperta allo sviluppo sociale. Gianni Ferrara resta uno scrittore di diritto costituzionale particolarmente sensibile alla politica e all’etica, impegnato nella difesa degli interessi della parte più debole della società, quella che non trova adeguato riconoscimento nella prassi costituzionale, e neppure in quella giurisprudenziale e legislativa e ancora di meno nell’ordine del mercato e dell’economia finanziaria. La costituzione italiana tende nei suoi principi fondamentali a riconoscere un vero e proprio primato ideale ai valori costituzionali della politica e della giustizia sociale, al lavoro, considerato come fondamento della Repubblica, avviando un discorso che inevitabilmente si scontra con le logiche del profitto e del mercato. Egli rivolge la sua critica alla “violenza neoliberista” (Forma di governo e forma di Stato nella crisi attuale della democrazia, in Aa.Vv., Studi in onore di Claudio Rossano, vol. II, p. 961 ss., e p. 972) e denuncia l’insufficienza della tutela del lavoro inteso come principio fondamentale della Repubblica nella prassi costituzionale, tenendo conto delle prospettive di un costituzionalismo aperto verso lo sviluppo e la cultura sociali, cui fanno pensare non poche enunciazioni costituzionali.
Vorrei anzitutto testimoniare la partecipazione di Gianni Ferrara a due seminari che si svolsero uno a Bologna e l’altro a Roma, uno con la partecipazione di Helmut Ridder e della sua scuola di critica del diritto della Repubblica federale di Germania e della democrazia liberale, e quello romano con la partecipazione di Federico Spantigati e alcuni studenti impegnati politicamente nella facoltà. Gli atti di quei convegni non sono mai stati pubblicati, probabilmente per il loro contenuto radicalmente democratico, che insisteva nel non accettare la riduzione del diritto costituzionale dell’Europa occidentale a un’esperienza prevalentemente giurisprudenziale e culturale e all’esigenza di ristabilire un orientamento democratico. Il seminario che si svolse a Roma, con la partecipazione di pochi docenti e molti studenti, aveva ad oggetto anch’esso un tema prevalentemente politico e storico, Rosa Luxemburg e la crisi della democrazia in Germania dopo la prima guerra mondiale; il seminario di Bologna guardava con interesse alle posizioni della sinistra tedesca negli anni di crisi della politica e dell’economia, immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale, e alla rivista Demokratie und Recht allora diretta da Stuby e da Ridder.
Gianni Ferrara ha pubblicato vari studi in occasione di raccolte accademiche di scritti in onore di alcuni colleghi; negli studi Rossano (2013, vol. II, cit. , p. 961 ss.) ha pubblicato ad esempio uno scritto intitolato Forma di governo e forma di Stato, nel quale denuncia la crisi attuale della democrazia e della costituzione, sottolineando tra l’altro che la crisi costituzionale è imputabile soprattutto alla «deregulation», che ha reso possibile una vera e propria «modificazione degli Stati a favore del mercato», con il risultato di promuovere gli interessi dei cittadini più favoriti dall’andamento del mercato e del profitto economico, che non il principio di eguaglianza tra i membri della società. Negli Scritti Guarino (1998) rivolge la sua critica al pensiero di Carl Schmitt, autore che egli studia con grande interesse, affermando tuttavia che non si può accettare l’affermazione di Schmitt secondo cui popolo e Stato si identificherebbero, perché, egli osserva, «nella visione schmittiana il conflitto sociale scompare dalla storia delle costituzioni lungo tutto il tempo della loro vigenza» e tale venir meno è alla base stessa del mutamento costituzionale (vol. II, p. 211 ss.). Negli scritti in onore di Leopoldo Elia, 1999 (vol. I, p. 593 ss.), Ferrara si sofferma in modo particolarmente efficace sull’instaurazione delle costituzioni del Secondo dopoguerra e sui limiti che tale potere ha incontrato in Europa nell’effettività, segnalando con tutta la sua forza che questi limiti sono da vedere «nella stessa esigenza storica», che finiva per «suscitare sollecitare e legittimare il potere costituente dei paesi che uscivano dalla tragedia dell’oppressione e della guerra», un potere costituente che «si caratterizza per i limiti in presenza dei quali esso nasce e si manifesta». Nello scritto, infine, che egli mi ha dedicato nel 2010, vol. II, pag. 307 ss., Le mutazioni del regime politico italiano, nella raccolta intitolata Il diritto tra interpretazione e storia, egli si pone la domanda sul mutamento del regime politico legata al significato reale assunto dall’enunciazione dell’art. 1 secondo cui la Repubblica è fondata sul lavoro, osservando che se il valore fondamentale «non è più il lavoro, quale valore lo avrebbe sostituito come fondamento della Repubblica? Quale conquista di civiltà segnerebbe il regime politico che si instaura? Non si sa, non si vede. Non è presentabile?». La risposta che egli accenna lo conduce a concludere che resta comunque «un ostacolo che si para sul percorso» dell’interprete della Costituzione, che indica una contraddizione tra il «dover essere» e «il modo di essere di uno stato»; egli non può fare a meno di indicare la «mutazione di regime», che dipende dal mutamento dell’economia, rispetto a quello che avrebbe dovuto essere un valore fondamentale della Repubblica italiana.