Il dibattito sul finanziamento pubblico ai partiti (secondo l’ipocrita formula del rimborso per le spese elettorali) si sta concentrando sull’aspetto patologico che è emerso con evidenza in questi giorni: l’uso a fini privati delle risorse pubbliche, in frode alle stesse organizzazioni politiche. Così, i tre segretari dei partiti che sostengono l’attuale governo stanno ipotizzando di sottoporre per legge a controlli esterni i bilanci delle organizzazioni politiche. Le misure di cui si parla ormai da tempo appaiono certamente utili per limitare i danni di sostanza e d’immagine che gli scandali recenti hanno fatto emergere: la certificazione dei bilanci da parte di società di revisione indipendenti e il controllo da parte della Corte dei conti (che si vuole però ora sostituire con un diverso, improvvisato e ibrido organo di controllo), ma anche l’iscrizione in bilancio delle donazioni private, potranno contribuire a rendere più trasparenti i rapporti tra i partiti e la società civile. Tuttavia, non è solo una questione di controlli.
Il rischio è quello di perdere di vista la questione d’ordine sostanziale che ruota attorno all’interrogativo: perché finanziare i partiti? La risposta a questa domanda essenziale è scritta in costituzione, all’articolo 49, laddove si indica a cosa servono i partiti politici nel nostro sistema democratico. Essi sono uno strumento (libere associazioni private) per rendere possibile ai cittadini di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Il finanziamento pubblico dunque trova il suo fondamento ultimo non nell’esigenza di tutelare le formazioni politiche in quanto tali, bensì nella ragione strumentale di favorire la partecipazione popolare all’attività politica.
Se ci si pone entro questa prospettiva, prima di ogni altra cosa ci si deve domandare se l’attuale normativa risponde all’indicazione della nostra costituzione. La mia impressione è che nel suo complesso essa sia ben poco rispettosa delle finalità costituzionali, per un insieme di ragioni che cercherò brevemente di richiamare.
Anzitutto, il finanziamento deve favorire la partecipazione politica dei cittadini e non invece garantire la conservazione del potere da parte dei partiti attualmente prevalenti. Per questo la modalità di distribuzione delle risorse appare sbagliata. Com’è noto, la legge prevede che le quote di finanziamento siano assegnate a seconda dell’esito elettorale, privilegiando dunque i partiti maggiori. Si ritiene cioè che il finanziamento sia un premio attribuito ai partiti per il successo conseguito. Non è così. In tal modo si finisce per alterare la competizione politica futura, e dunque la possibilità da parte di tutti i cittadini di concorrere a determinare la politica nazionale su un piano di parità. La vittoria elettorale legittima i partiti a governare, non a conservare il potere, ovvero a essere avvantaggiati nelle successive competizioni, godendo di maggiori risorse finanziarie pubbliche. Si dovrebbe ricordare un nobile e antico principio del liberalismo classico secondo il quale “ai nastri di partenza” devono essere garantite a tutti i competitori politici eguali chances di vittoria. Lo scontro ad armi pari dei contendenti viene considerata una condizione per assicurare una scelta consapevole e ragionata all’elettore. Ma ciò implica la necessità di garantire a tutti un’eguale possibilità di far conoscere il proprio programma politico e una medesima capacità di propaganda. È evidente che a tal fine il contributo pubblico dovrebbe essere egualmente distribuito tra tutti. È chiaro altresì che questa non rappresenterebbe una condizione sufficiente: i partiti maggiori godrebbero comunque di un surplus d’attenzione e di capacità di attrazione. Ma non è questo ciò che deve preoccupare, si tratta semplicemente di garantire la tendenziale parità “ai nastri di partenza”, non di alterare la “forza” che, per diverse ragioni, i più grandi e potenti possiedono. È vero che in alcune esperienze straniere, particolarmente sensibili alle ragioni della democrazia liberale, lo Stato si fa carico persino delle diseguaglianze di partenza. Così in Inghilterra, quasi tutto il contributo pubblico è riservato all’opposizione, proprio per riequilibrare lo “svantaggio” di non essere al governo. In Italia non si pretende tanto, ma almeno che ci si ponga il problema di non favorire eccessivamente, mediante il sistema di finanziamento pubblico, chi già gode di un vantaggio elettorale pregresso.
Il nostro attuale sistema distributivo delle risorse pubbliche ai partiti non solo penalizza le piccole e le nuove formazioni politiche, ma riflette anche una visione ormai superata di sostegno all’attività politica e di partecipazione dei cittadini. Non c’è bisogno di evocare la crisi di rappresentanza dei partiti per rendersi conto che ormai non sono solo le formazioni politiche tradizionali a determinare la politica nazionale. Il finanziamento pubblico alla politica dovrebbe allora essere in grado di guardare anche fuori dai partiti e favorire la partecipazione di soggetti diversi. È scandaloso immaginare che una quota di finanziamento sia riservata a diverse espressioni politiche anche non organizzate nella forma partitica tradizionale? In fondo il contributo fornito ai comitati promotori dei referendum – al di là delle modalità specifiche che lasciano assai a desiderare – rappresenta proprio una dimostrazione di un finanziamento a organizzazioni non partitiche.
Ma il punto più delicato è un altro ancora. Perché utilizzare il contributo diretto come unica forma di finanziamento ai partiti? La Corte costituzionale federale tedesca, nel 1992, ebbe a censurare la normativa di quel paese perché si limitava a prevedere i rimborsi elettorali, trascurando le altre attività non immediatamente riconducibili al momento del voto. A ben pensarci in effetti, il voto non rappresenta altro che il momento finale di un processo politico che si incentra su un’attività complessa fatta di iniziative formative e di propaganda, di partecipazione e coinvolgimento, di discussione e elaborazione politica e culturale. Ritengo che la diversificazione dei contributi possa rappresentare anche in Italia una via per attuare il disposto costituzionale e favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale. Si potrebbe continuare ad assegnare una parte dei contributi direttamente ai partiti per la competizione elettorale (e le spese di mantenimento degli apparati), ma un’altra parte potrebbe essere riservata a favorire l’attività e la partecipazione politica diffusa. Questa seconda trance di finanziamento pubblico non dovrebbe essere direttamente erogata a singoli soggetti politici (partiti o altro), ma lo Stato si dovrebbe limitare a regolare l’accesso, assumendo in proprio gli oneri di spesa, in misura eguale per tutti i competitori politici, al fine di garantire la loro parità di chances. Anche di questa modalità di finanziamento si trovano alcune briciole nel nostro sistema, si tratterebbe solo di comprendere l’importanza e farle diventare pane quotidiano. Potrebbe lo Stato mettere gratuitamente a disposizione locali per le riunioni, agevolazioni per i trasporti nei casi legati ad attività politica, contribuire alle spese collegate alla diffusione delle opinioni politiche, alla stampa dei manifesti e del materiale di propaganda (non limitandosi solo ad agevolazioni tariffarie per le spedizioni postali), potrebbe finanziare con maggiore razionalità e continuità la stampa di partito, ma anche le cooperative culturali (l’implicito riferimento alla drammatica situazione del manifesto, ma anche di Liberazione, non sembri accidentale). Tutte misure che non arricchirebbero nessuno, ma favorirebbero la partecipazione politica, e rafforzerebbero il tessuto democratico di una nazione. A garanzia dei partiti intesi come strumento di partecipazione dei cittadini e del pluralismo culturale nel suo complesso.
E qui si apre un’ultima questione, di carattere generale, ma tra tutte la più seria. Il finanziamento della politica deve rappresentare un mezzo per favorire la partecipazione e la democrazia politica, non può diventare una fonte di guadagno o arricchimento. Eppure, la cronaca di questi giorni dimostra il contrario. Non penso solo alle malversazioni di alcuni tesorieri di partito, ma alla questione più generale del tenore troppo sostenuto dell’attività pubblica dei partiti e del nostro ceto politico. In politica circola troppo denaro. I costi eccessivi e non funzionali all’attività politica devono essere vietati, bisogna fissare limiti di spesa rigorosi per la partecipazione alle competizioni politiche, sia dei singoli candidati sia delle liste di partito. Anche questo sarebbe un modo per pareggiare le posizioni di partenza dei contendenti. Non è moralismo il mio, ma solo la convinzione che troppi soldi facciano male alla politica, inducendo in tentazione. Se la politica vuole tornare a essere un servizio per la comunità, non può che ripartire da una visione francescana. Se i partiti in crisi vogliono affrontare la questione dei loro finanziamenti, bene fanno a proporre un più serrato sistema di controllo ai propri finanziamenti pubblici e privati, ma meglio farebbero a ridimensionare e ridistribuire le risorse.