TRIBUNALE DI SALERNO – SEZIONE I CIVILE – ORDINANZA 9 GENNAIO 2010 (GIUDICE SCARPA)
Il Giudice designato dott. Antonio Scarpa;
letto il ricorso per provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. proposto il 6 novembre 2009 dai coniugi (A) e (B) residenti in (X) nei confronti del Direttore Sanitario del (K), dottor (C), volto ad ottenere l’ordine di applicazione delle tecniche procreative medicalmente assistite imposte dal caso, subordinatamente proponendosi eccezione di incostituzionalità dell’art. 4, comma 1, della legge 40/2004, nella parte in cui tale norma subordina il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai casi di sterilità o infertilità documentate da atto medico; dedotto e provato dai ricorrenti:
1) di essere entrambi portatori di una mutazione del gene SMA1, causativo dell’Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1, idonea al 25%dei casi a trasmettersi in sede di concepimento della prole;
2) di aver già sostenuto quattro gravidanze, la prima culminata, nel 2003, con la morte della piccola (D) a causa della trasmissione della malattia genetica di cui i genitori sono portatori; la seconda e la quarta, nel 2004 e nel 2008, culminate con l’interruzione della gravidanza di feti risultati affetti dalla medesima malattia; la terza, nel 2005, a seguito della quale era nato il figlio (E) che dall’indagine prenatale era risultato invece non colpito dalla malattia;
3) che il (K), corrente in (XA), alla via (Y), cui essi si sono rivolti per ricevere trattamenti di procreazione medicalmente assistita e diagnosi genetica prenatale e preimpianto, non li ha però ammessi agli stessi per mancanza della condizione di sterilità-infertilità richiesta dall’art. 4, L. 19 febbraio 2004, n. 40;
sentito il resistente (K), a mezzo del procuratore costituitosi con comparsa del xx/xx/2010, in cui si ritiene che la legge 40/2004 limiti il medico nella diagnosi di preimpianto, e quindi ci si rimette al Tribunale per riceverne un ordine di autorizzare (A) e (B) all’accesso alle tecniche di PMA, ovvero per sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 cit.; sentite le parti all’udienza dell’ xx/xx/2010 e sciogliendo la riserva di pronuncia ivi assunta, il GD osserva quanto segue.
Il ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. è stato dunque proposto da una coppia di coniugi entrambi portatori di una grave patologia trasmissibile geneticamente, la atrofia muscolare spinale di tipo 1, già in passato purtroppo trasmessa in tre precedenti procreazioni. I ricorrenti si sono rivolti al convenuto (K), per intraprendere una nuova gravidanza. Sennonché, il convenuto (K) diretto dal dottor (C), ha reputato di non poter procedere, allo stato della legislazione, alla c.d. diagnosi preimpianto degli embrioni da prodursi, e di non poter pertanto esaudire l’aspettativa dei coniugi (A) e (B) di accettare il trasferimento di soli embrioni non affetti dalla indicata patologia.
Sarà invece di seguito facile considerare come gli interventi dapprima della giurisprudenza amministrativa sulle linee guida e poi della Corte Costituzionale (in particolare, con la sentenza n. 151/2008) abbiano cancellato dal sistema il divieto di diagnosi preimpianto previsto dalle linee guida, sicché non si intravedono ostacoli all’accoglimento delle richieste dei ricorrenti. Si ravvisano, quindi, nella condotta del convenuto (K) marcati profili di inadempimento contrattuale rispetto all’obbligo di prestazione professionale di procreazione dedotto in lite.
Il problema è dunque quello della diagnosi preimpianto sull’embrione in vitro (omissis). Invero, la L. 40/2004, limitando l’accesso alla pma alle coppie sterili o infertili (art. 4 co. 1), era sembrata, ad una prima lettura superficiale, escludere la possibilità della stessa fecondazione in vitro, e quindi la possibilità della diagnosi preimpianto sull’embrione, per coppie fertili, ma che presentassero, come nel caso in esame, un rischio qualificato di trasmissione di malattie gravi e inguaribili. Ciò sebbene non sia prevista alcuna sanzione per il medico che pratichi la pma a favore di coppie non sterili (arg. dall’art. 12 co. 2, che commina una sanzione pecuniaria amministrativa per chi applichi tecniche di pma in assenza di altri requisiti dettati dalla legge). Inoltre, nei casi in cui pure ammette la pma, la legge 40/2004 si riferisce solo indirettamente alla diagnosi preimpianto. Eppure, la prima interpretazione della disciplina del 2004 aveva fatto ritenere preclusa la liceità di una diagnosi preimpianto sull’embrione, argomentando dalla disposizione che consente la ricerca clinica e sperimentale su embrioni solo a condizione che si perseguano in via esclusiva finalità di tutela e sviluppo di quel singolo embrione (art. 13 co. 2) nonchè dal divieto di sperimentazione su embrioni (ex art. 13 co. 1), e dal divieto (assoluto) di selezionare embrioni a scopo eugenetico (art. 13 co. 3 lett. b).
Tale divieto della diagnosi preimpianto era stato poi esplicitato nelle «Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita», adottate con d.m. del 21 luglio 2004, nelle quali si stabiliva che «ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’articolo 14, comma 5, (dovesse) essere di tipo osservazionale».
Dopo alcune contrastanti e note decisioni di merito, si pervenne tuttavia, ed ormai due anni orsono, alla sentenza pronunciata dal Tar Lazio il 21 gennaio 2008, n. 398 (in «Foro it.», 2008, III, 207 e 312), che annullò, in quanto illegittima per eccesso di potere, la previsione delle Linee guida citata in precedenza, in base alla quale le indagini sullo stato di salute dell’embrione dovevano essere soltanto «di tipo osservazionale». Il TAR Lazio evidenziò come le Linee guida, a norma dell’art. 7 della L. 40 del 2004, avrebbero dovuto dettare soltanto la disciplina delle procedure e delle tecniche di procreazione assistita, senza alcun intervento sull’oggetto di quest’ultima, che appartiene all’esclusiva competenza del legislatore; «fermo il generale divieto di sperimentazione su ciascun embrione umano, la legge n. 40 del 2004 consente la ricerca e la sperimentazione e gli interventi necessari per finalità terapeutiche e diagnostiche se volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione, mentre le Linee Guida riducono tale possibilità alla sola osservazione». In seguito, l’11 aprile 2008, il Ministero della salute ha aggiornato le Linee guida sulla procreazione medicalmente assistita, con decreto ministeriale pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 30 aprile 2008. In sede di revisione delle Linee guida, quanto proprio alla diagnosi preimpianto sull’embrione, risulta del tutto eliminata la disposizione in base alla quale ogni indagine sull’embrione doveva essere di tipo osservazionale, aprendosi così la strada alle indagini genetiche preimpianto.
In particolare, le nuove linee guida contemplano:
– la possibilità di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) anche in ipotesi di coppia in cui l’uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili, e in particolare del virus HIV e di quelli delle epatiti B e C, riconoscendo che tali condizioni siano assimilabili ai casi di infertilità per i quali è concesso il ricorso alla PMA. Ciò già determina un ampliamento della concezione normativa di infertilità e quindi consente un maggiore accesso alle pratiche di procreazione assistita;
– la previsione che ogni centro per la PMA debba assicurare la presenza di un adeguato sostegno psicologico alla coppia;
– l’eliminazione essenziale dei commi delle precedenti linee guida che limitavano la possibilità di indagine a quella di tipo osservazionale.
Ciò rende la diagnosi preimpianto, al pari delle altre diagnosi prenatali, una normale forma di monitoraggio con finalità conoscitiva della salute dell’embrione, alla stregua dei doverosi criteri della buona pratica clinica, la cui mancanza dà luogo a responsabilità medica.
È vero che nell’altrettanto nota sentenza della Corte Costituzionale, 8 maggio 2009, n. 151 (la quale ha colpito in primo luogo l’art. 14 comma 2 e comma 3, l. n. 40 del 2004), non v’è riferimento esplicito alla diagnosi preimpianto, che pure aveva fatto oggetto di apposita precedente rimessione alla Corte da parte del Tribunale di Cagliari. Tuttavia, nel riassetto della disciplina dato dalla Corte Costituzionale la salute della madre assume un ruolo dominante, muovendo dal rilievo che la stessa l. n. 40 del 2004 non riconosce una tutela assoluta all’embrione, in quanto cerca di individuare «un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze della procreazione». Riconoscendosi allora alla stessa madre il diritto di abortire il feto malato, deve tutelarsi il diritto della madre a conoscere se il feto sia malato tramite appunto diagnosi preimpianto, senza arrivarsi irragionevolmente alla conseguenza di implantare il feto malato per poi abortirlo.
In dottrina si è elaborato a sostegno dell’assunto il «diritto della donna al figlio», per di più sano. Diritto soggettivo, da ascriversi tra quelli inviolabili «della donna» ai sensi dell’art. 2 Cost. Conseguentemente, anche le scelte consapevoli relative alla procreazione vanno inserite tra i diritti fondamentali costituzionalmente tutelati. Di più, il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative fa parte dei diritti fondamentali e personalissimi di entrambi i genitori congiuntamente, in maniera da garantire la pariteticità della tutela alla libera ed informata autodeterminazione di procreare tanto della madre che del padre.
Il diritto a procreare, e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di pma da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili; solo la procreazione assistita attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l’impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura «costituzionalmente» orientata dell’art. 13 L. cit., consentono di scongiurare simile rischio. La diagnosi preimpianto, richiesta dalle coppie che abbiano accesso a tecniche di procreazione assistita, è quindi funzionale alla soddisfazione dell’interesse dei futuri genitori ad avere adeguta informazione sullo stato di salute dell’embrione, nonché sul trattamento sanitario consistente nell’impianto in utero dell’embrione prodotto in vitro. Lo stesso art. 14, comma 5, l. n. 40 del 2004 prevede il diritto della coppia di chiedere informazioni sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero, informazioni determinanti per decidere se accettare o rifiutare il trasferimento. Una interpretazione parimenti costituzionalmente orientata dell’art. 6 comma 3 l. 40/2004 cit., in ordine alla irrevocabilità del consenso all’applicazione della tecnica una volta che abbia avuto luogo la fecondazione dell’ovulo, induce del resto a negare la sia pure astratta ammissibilità di un impianto coattivo degli embrioni laddove la donna intenda revocare il proprio consenso. Come ricordato dalla stessa Corte Costituzionale, «… in materia di pratica terapeutica la regola di fondo deve essere l’autonomia e la responsabilità del medico, che con il consenso del paziente opera le necessarie scelte professionali».
Deve pertanto affermarsi, quanto al fumus boni iuris della domanda ex art. 700 c.p.c., il diritto dei ricorrenti coniugi (A) e (B) a conseguire dal (K) di (XA), diretto dal dottor (C), l’adempimento contrattuale delle prestazioni professionali consistenti nelle tecniche procreative medicalmente assistite, imposte dalle migliori pratiche scientifiche, di diagnosi preimpianto degli embrioni da prodursi e di trasferimento nell’utero della Signora (A) di embrioni che non evidenzino la mutazione del gene SMA1, causativo della Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1, di cui i ricorrenti sono portatori.
Il contenuto e la funzione non patrimoniali dei diritti azionati in sede cautelare giustificano, ai fini del periculumin mora, l’irreparabilità del pregiudizio correlato alla compressione che tali situazioni soggettive subirebbero per il tempo occorrente a conseguire una pronuncia di condanna in sede di cognizione piena ed esauriente.
A norma dell’art. 669-octies, comma VII, c.p.c. deve provvedersi sulle spese del procedimento cautelare secondo l’esito di soccombenza. Non di meno, occorre rilevare che, alla luce delle difese delle parti, si è qui delineata quella particolare situazione che in dottrina è definita come «processo simulato», avendo le parti stesse dimostrato di utilizzare lo strumento processuale non già come mezzo per risolvere una controversia, bensì come espediente tecnico per realizzare un fine comune ad entrambe, di tal che il provvedimento giudiziale sembra privato del suo fisionomico carattere decisorio, per atteggiarsi a meccanismo attuativo dell’accordo dei finti contendenti. Volendosi escludere che tale anomala instaurazione del processo “intra volentes” vada censurato con la nullità del procedimento, pare allora opportuno procedere d’ufficio alla condanna della parte formalmente soccombente (K) altresì al pagamento a favore dei ricorrenti di una somma equitativamente determinata, a norma del comma 3 dell’art. 96 c.p.c., pari ad € 2.500,00 per ciascuno dei due medesimi ricorrenti, alla luce della condotta processuale del convenuto che, evocato in lite per l’inadempimento ingiustificato dell’obbligo professionale di diagnosi preimpianto, non ha poi in giudizio mosso alcuna concreta resistenza alle richieste degli attori.
P.Q.M.
Il Giudice designato visti gli artt. 700 e 669-octies c.p.c., accoglie il ricorso per provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. proposto dai coniugi (A) e (B) ed ordina al Direttore Sanitario del (K) dottor (C), l’adempimento contrattuale delle prestazioni professionali consistenti nelle tecniche procreative medicalmente assistite, imposte dalle migliori pratiche scientifiche, di diagnosi preimpianto degli embrioni da prodursi e di trasferimento nell’utero della Signora (A) di embrioni che non evidenziano la mutazione del gene SMA1, causativo dell’Atrofia Muscolare spinale di tipo 1, di cui i ricorrenti sono portatori; condanna il (K) a rimborsare a (A) e (B) le spese.