“L’Unione europea non è in crisi, è in una crisi profonda”. Così ha commentato alla stampa il Presidente di turno dell’Ue, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, il fallimento del Consiglio europeo di Bruxelles del 16 e 17 giugno. Dopo la vittoria dei “No” nei referendum francese e olandese alla ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, il vertice di Bruxelles lungi dal rilanciare il processo di integrazione europea segna l’inizio di una profonda crisi politica dell’Unione. Ne è la prova il mancato accordo sul rifinanziamento del bilancio comunitario per gli anni 2007-2013.
Neanche l’ultima bozza di compromesso sulle prospettive finanziarie per gli anni 2007-2013, proposta dalla presidenza lussemburghese, che prevedeva un drastico contenimento delle spese all’ 1,06% del prodotto interno lordo dell’Unione e il congelamento ai livelli del 2004 dello “sconto” sul contributo finanziario ottenuto nel 1984 dalla Gran Bretagna, è riuscita a comporre i profondi contrasti emersi in seno al Consiglio europeo. Determinante per il mancato accordo è stato il rifiuto inglese di ogni compromesso che non rimettesse in discussione anche la politica agricola comune che assorbe oggi circa il 40% del budget comunitario e della quale Francia, Spagna e Italia sono i principali beneficiari. Il compromesso non soddisfaceva inoltre i governi di Olanda, Svezia e Finlandia che chiedevano ulteriori tagli alle spese e maggiori riduzioni al loro contributo finanziario.
A questo punto i 25 hanno un anno di tempo per trovare un accordo sul bilancio. Sembra però molto difficile che l’intesa possa essere raggiunta sotto la presidenza britannica. Il governo inglese è apparso infatti il principale artefice del fallimento del Consiglio europeo di Bruxelles. Sembra più realistica la possibilità di trovare un accordo nel primo semestre del 2006, sotto la presidenza austriaca.
Al primo semestre 2006 è stata rinviata la valutazione del processo di ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. I Capi di Stato e di Governo degli stati membri hanno infatti preso atto nella Dichiarazione del 18 giugno 2005 dei risultati dei referendum in Francia e in Olanda. I leaders europei pur non mettendo in discussione “la validità della prosecuzione dei processi di ratifica”, considerano necessario un “periodo di riflessione” per consentire che si svolga in tutti i paesi “un ampio dibattito, che coinvolga i cittadini, la società civile, le parti sociali, i parlamenti nazionali e i partiti politici”.
Di fatto tutte le decisioni riguardanti le sorti del Trattato costituzionale bocciato dal voto degli elettori francesi e olandesi vengono rinviate di un anno. Hanno contribuito a questo esito l’annuncio del governo inglese, la settimana precedente il vertice di Bruxelles, del rinvio a data da destinarsi del referendum fissato per settembre in Gran Bretagna e l’intenzione espressa dai governi di Danimarca, Repubblica Ceca e Irlanda di rinviare le proprie consultazioni referendarie. Del resto non sembrano esserci al momento soluzioni praticabili dopo il “No” francese e olandese. Si profila un accantonamento del Trattato e appare comunque ormai del tutto irrealistica la data del primo novembre 2006 per la conclusione del processo di ratifica.
Rivivere Waterloo: dal conflitto sulla contabilità finanziaria allo scontro egemonico intereuropeo
di G. Bucci e L. Patruno
“Re-enacting Waterloo” ha titolato l’Economist del 18 giugno 2005 (p.30) per sottolineare come l’antagonismo anglo-francese fosse tutt’altro che da consegnare definitivamente alla storia e, in particolare, a quell’episodio di giusto 190 anni fa, che segnò il destino di Napoleone Bonaparte.
Infatti, nel vertice europeo appena conclusosi è germogliata e attende ulteriori sviluppi un’altra battaglia fra i due contendenti di ieri e di oggi («For at that summit, another Anglo-French battle looms»).
In realtà, due diverse tattiche e strategie si sono fronteggiate.
Il campo di battaglia è stato il “rebate” ottenuto dall’Inghilterra nel 1984 e su cui Blair, come Wellington, ha attestato le sue batterie a strenua difesa di una invalicabile linea rossa. Chirac, a sua volta, aveva ben delimitato e circondato quel campo di battaglia, al fine di mettere in risalto la posizione di isolamento e di egoismo nazionale della Gran Bretagna. Sotto il comando di Napoleone-Chirac le cariche congiunte contro il “rebate” non hanno sortito, però, effetto alcuno.
Qui, allora, è cominciato il gioco delle alleanze presenti e future.
Come si sa, decisivo per la vittoria della compagine guidata da Iron Duke fu l’arrivo sul campo di battaglia delle truppe prussiane guidate dal maresciallo Blücher. Mentre, sul fronte opposto, la stessa Grande Armée si componeva di numerosi soldati polacchi che ne formavano quasi un terzo.
Paradossalmente, oggi, questa alleanza viene negata dallo spauracchio dell’“idraulico polacco”. Espressione che simboleggia il tramonto e l’impossibilità di realizzare qualsivoglia modello sociale europeo. L’“idraulico polacco” è diventato il simbolo della liberalizzazione selvaggia alle porte, dell’invasione di lavoratori senza scrupoli perché affamati, pronti a prestare i propri servizi a ogni ora del giorno e della notte – e per pochi euro – pur di guadagnare valuta preziosa. Un simbolo che, non a caso, è stato reso celebre dall’olandese Bolkestein, il quale, recandosi a Parigi per difendere il suo contestato progetto di direttiva sulla liberalizzazione dei servizi, ebbe ad ammettere a Radio-France: «Sto benissimo da voi, ma non riesco mai a trovare un idraulico per la mia piccola fattoria; sarà un bene che gli artigiani polacchi possano venire a lavorare in Francia».
Ma anche l’alleanza Inghilterra-Prussia va attualizzata.
Schröder non è prussiano, è sassone. Fino ad ora l’asse Parigi-Berlino ha, bene o male, tenuto, sia in politica economica che in politica estera. Ma un nuovo Blücher si affaccia sulla scena europea, Angela Merkel, leader dei cristiano democratici in Germania, per ora all’opposizione, ma, con tutta probabilità, destinata a succedere all’attuale cancelliere tedesco dopo le consultazioni elettorali di settembre. Merkel e Blair hanno le stesse opinioni sui sussidi alla politica agricola comune (che occuperebbe gran parte del bilancio comunitario) e sulle nuove priorità da inserire nell’agenda di un’Unione europea più agile e flessibile riguardo alle sue politiche “comuni”.
Blair, come Wellington, giocando in difesa, ha prolungato i tempi della battaglia e ha ridimensionato il vertice europeo a mera schermaglia preliminare. Ciò al fine di assicurarsi, per il periodo della futura presidenza europea, una più ampia coalizione di forze capace di inglobare i nuovi “prussiani” (fra cui, probabilmente, anche gli italiani, da sempre desiderosi di schierarsi dalla parte del vincitore. Specie oggi per mano di un governo, come quello guidato da Berlusconi, che concorda pienamente con una linea di politica sociale ultra-liberalizzatrice del quadro economico e finanziario europeo).
Il parallelismo storico, tuttavia, finisce qui. La chiave di lettura reale, per cercare di interpretare il conflitto manifestatosi nell’ambito del Consiglio europeo dei giorni scorsi, non è quella del rifiorente nazionalismo. Non si sono, infatti, contrapposti due differenti modelli – perché tali non sono – di politica economica e sociale, ossia, da una parte, il paradigma dell’autosufficienza mercantilistica inglese e, dall’altra parte, l’integrazionismo funzionalistico franco-tedesco. Si è trattato, piuttosto, di una mera dialettica fra diverse aree di interessi strategici che condividono, nella sostanza, una medesima “filosofia”, ossia quella sintetizzata nel principio dell’economia di mercato aperta e in libera concorrenza.