Emergenza costituzionale*


1. Se i nostri costituenti, dopo aver brillantemente schivato il lapiriano richiamo a Dio, avessero voluto sintetizzare in un’epigrafe in capo al testo il senso ultimo del loro lavoro, avrebbero dovuto precedere la scuola francofortese nel confezionare la massima “l’unico potere legittimo è quello limitato”: dunque anche quello di derivazione democratica, nella convinzione secondo cui se “la sovranità del popolo è illimitata”, che la si conferisca “a un solo uomo, a più o a tutti, ne risulterà sempre un eguale male” (B. Constant).
Nel dare spessore – giuridico e istituzionale – a tale principio la costituzione ha seguito due percorsi: uno poco battuto dal costituzionalismo contemporaneo; l’altro, al contrario, da esso pressoché unanimemente seguito.
Il primo riguarda la configurazione della forma di governo: nel delineare gli equilibri fra gli organi titolari dell’indirizzo politico, quello che è stato definito “complesso del tiranno” si è incrociato con l’intenzione (e l’esigenza) di valorizzare l’unica fonte di legittimazione del potere politico allora disponibile, quella delle identità partitiche (di massa e non). Per un verso, quindi, è rimasta preclusa la strada – molto praticata dal costituzionalismo euro-americano – della concentrazione e verticalizzazione del potere in capo all’esecutivo; per un altro, con la scelta proporzionalistica, politicamente connessa al progetto di attuare la costituzione1) attraverso tecniche decisionali inclusive e non esclusive, si è favorita la piena esplicazione di quelle identità (indispensabili, fra l’altro, per familiarizzare il corpo sociale con la nascente democrazia), raggiungendo pure l’obbiettivo – anch’esso percepito come “antitirannico” – d’impedire l’investitura diretta dell’esecutivo e del suo premier da parte della maggioranza degli elettori.
Se queste scelte potrebbero essere considerate, soprattutto da parte di chi non si riconosce nel modello di democrazia ad esse sottese, storicamente contingenti – legate cioè alle peculiarità della situazione italiana – e in parte storicamente fallite2), di ben altra “universalità” è il secondo percorso: quello che ha condotto, da un lato, a un disegno complessivo dell’assetto sociale in chiave poliarchica; dall’altro, alla rigidità costituzionale e alla previsione di organi (moltiplicatisi poi nella versione delle authorities) imparziali e indipendenti posti a garanzia di quella rigidità e, più in generale, della correttezza dell’esercizio del potere, quello di matrice democratica compreso.
“Poliarchia” significa – come ha insegnato R. Dahl – che la gestione del potere è disseminata, per evitare ogni monolitismo, in sottosistemi funzionalmente autonomi (politico, economico, finanziario, informativo, sindacale, religioso …), in modo da garantire, accanto al dinamismo sistemico inerente al pluralismo delle sedi decisionali – in grado di far valere una pluralità di interessi, valori, obbiettivi – la stabilità del sistema: nel senso che, essendo quello politico l’unico potere sottoposto a periodiche verifiche, ciò che viene messo in palio nelle tornate elettorali è una quota essenziale (data la possibilità del potere rappresentativo del corpo elettorale di conformare normativamente, nel rispetto della costituzione, gli altri) e tuttavia limitata del potere complessivamente esercitato in un certo assetto sociale.

2. A voler concentrare l’attenzione sul tema del rapporto fra potere politico e organi custodi delle legalità – non l’unico, ma fra i più importanti cavalli di battaglia del costituzionalismo euro-americano – si può cominciare col dire che la costituzione trova il punto di saldatura fra sovranità popolare e limiti, in chiave garantistica, al potere da esso espresso nel riconoscimento – memore degli orrori appena perpetrati3): non è un caso, forse, che nessun altra costituzione ha trovato la forza espressiva dell’incipit di quella tedesca – della centralità della persona umana, vista unitariamente come titolare di un frammento della sovranità e di (nella maggior parte dei casi, “inviolabili”) diritti individuali oltreché di inderogabili doveri: aprendo in tal modo la strada per valorizzare la peculiarità del principio democratico – unico fra i principi di legittimazione nel quale la fonte del potere coincide con coloro che al potere sono soggetti – al fine di emanciparlo da ogni primitivismo di stampo giacobino-rousseauiano e di modellarlo nella forma “civilizzata”della democrazia liberale: un “modello additivo”4) certo non scontato sul piano teorico, ma il cui successo storico trova radici concettualmente plausibili proprio in quella peculiarità.
Esso infatti poggia – pur senza confondere piani che restano irriducibilmente diversi: quello dell’esercizio del potere e quello della soggezione ad esso – su una benefica circolarità5), in forza della quale, per un verso, i singoli, per poter adeguatamente esercitare il frammento di sovranità di cui sono titolari devono poter godere d’intangibili sfere di libertà; per un altro, essi potranno fruire di quelle libertà solo se il potere politico – tranne rare eccezioni da loro affidato, senza vincolo di mandato, a un ceto di professionisti della rappresentanza – venga esercitato nel rispetto dei diritti sanciti dalla prima parte della costituzione.

3. Nel dinamismo di un simile contesto – ostile a ogni forma di monolitismo organicistico6), sia per quanto riguarda la concezione del popolo (che non annulla le individualità di cui è composto) che per quel che riguarda il rapporto di rappresentanza (costruito sul principio di distanziamento, e non di identificazione, della libertà di mandato) – trovano le loro radici le tecniche di tutela, vanto delle democrazie liberali, da un potere che rimane “altro” e dunque da limitare: tecniche la cui matrice comune sta nel principio di sostituzione del governo delle leggi a quello degli uomini, ben scolpito in una celebre affermazione di Thomas Paine (“come nei governi assoluti il re è legge, così nei governi liberi la legge dovrebbe essere re”).
Tale principio non risparmia neppure il popolo: affermare che esso esercita la sovranità “nelle forme e nei limiti della costituzione” (art. 1 Cost.) significa – come scriveva Carlo Esposito nel 1948 – che “fuori della Costituzione e del diritto non c’è la sovranità popolare, ma l’arbitrio popolare”, essendo – quella del popolo – una sovranità costituita, non costituente (G. Guarino, 1967).
Men che meno quel principio risparmia i rappresentanti del popolo: ancora Esposito notava che niente è tanto inesatto quanto la comune affermazione secondo la quale in regime democratico la maggioranza è onnipotente, dovendo, al contrario – in quel regime più che in altri – rispettare limiti costituzionali, estesi e insuperabili, finalizzati alla tutela della “sovrana dignità di tutti i cittadini”, posta al centro – è possibile aggiungere – di un’area dell’indecidibile7), presidiata da custodi estranei al processo elettorale, ma non certo alla democrazia, beninteso nella appena richiamata prospettiva additiva che la coniuga con il costituzionalismo.

4. Dal rifiuto – esplicitato dall’art. 1 – di una versione onnipotente del potere di matrice democratica, emerge che la rigidità della costituzione, garantita da procedure aggravate per la sua revisione, rende giuridicamente (non storicamente, è ovvio) inconcepibile un potere soggettivo (foss’anche quello del popolo o dei suoi più diretti rappresentanti) emancipato dalle norme poste a fondamento dell’ordine costituzionale: è quanto, con sintesi vertiginosa, ha sanzionato – con riferimento al potere parlamentare – il Conseil constitutionnel affermando, in una sentenza del 1985, che “la loi votée … n’exprime la volonté générale que dans le respect de la Constitution”.
Fra gli insegnamenti che si possono trarre da queste poche parole, vera e propria summa della democrazia costituzionale, vorrei segnalarne due.
Innanzitutto che – come ha notato un acuto commentatore – la “conformità alla Costituzione non è più soltanto un requisito di legittimità dell’atto legislativo, ma diventa condizione indispensabile perché la legge sia democratica, esprima cioè la «volonté générale», da non confondersi con qualsiasi deliberazione popolare e assembleare”8): si capisce come da questo principio alcuni ordinamenti (Francia, Spagna, Germania) abbiano tratto la conseguenza di attribuire anche ad una minoranza parlamentare il potere di adire l’organo di sindacato costituzionale.
In secondo luogo, che le forme e i limiti di esercizio della sovranità popolare non si esauriscono nelle procedure che regolano la rappresentanza politica o gli istituti cd. di democrazia diretta, ma comprendono “tutte le altre funzioni costituzionalmente previste per il soddisfacimento di altrettanti interessi fondamentali del popolo sovrano”9) e, aggiungerei, dei singoli individui che lo compongono. Il costituzionalismo demoliberale cioè – e dunque anche la nostra costituzione, in esso totalmente immersa – respinge il fraintendimento secondo il quale all’unicità della fonte del potere debba corrispondere il monolitismo del suo esercizio; è invece la “polifonia dei poteri costituzionali”10), in posizione di reciproca indipendenza, a essere ritenuta fondamentale (nonostante l’inevitabile possibilità di prevaricazioni, errori, invasioni di campo…)per “assicurare un sistema di garanzia e di tutela perché il potere – anche quello democraticamente legittimato – sia esercitato senza sacrificare essenziali diritti e interessi di nessun individuo e di nessuna parte”11).
Ciò significa che la sovranità popolare si esprime in sedi istituzionali diverse o, se si vuole, viene esercitata avvalendosi di strumenti istituzionali differenziati 12), nessuno dei quali – per definizione – può pretendere di monopolizzarla: in particolare, quelle che appaiono ai meno provveduti istituzioni antidemocratiche (in quanto, pur essendo estranee alla procedura elettorale, sono in grado di sindacare, in posizione di autonomia, le decisioni del potere di matrice elettiva), altro non sono che istituzioni potenzialmente antimaggioritarie13), le quali proprio dal principio democratico – che, da quando ha incrociato il costituzionalismo, si esprime al massimo livello nell’approvazione dei testi costituzionali – traggono la loro legittimazione e giustificazione.
Rivendicare quindi i “diritti della democrazia” 14)serve certo a mettere in guardia da quanto c’è di estremistico in posizioni del tipo di quella recentemente espressa da un politologo americano (“The «Western model of government» is best symbolized not by the mass plebiscite but the impartial judge”) 15), ma andrebbe contro due secoli di storia se volesse accreditare una versione primitiva del principio democratico, esclusivamente identificato cioè, di volta in volta, nel puro dato numerico di un’aggregazione contingente di parlamentari: per non dire della strana logica che ispira la proposta di “strappar via i diritti alle corti” per affidare alla stessa maggioranza lo scioglimento delle inevitabili tensioni che possono crearsi fra esercizio del potere politico e rispetto delle garanzie degli individui e delle minoranze16).

5. Per chi riconosce che nella costituzione italiana tutto parla il linguaggio della disseminazione del potere (della quale fa parte – anche se qui non se ne è parlato – anche il rapporto fra centro e periferia e la possibilità di sindacare, per via referendaria, le decisioni del potere rappresentativo), dell’equilibrio fra i poteri – in funzione di limite a quello della maggioranza al governo – e della diversificazione delle loro matrici, è possibile valutare i primi trenta mesi del governo Berlusconi II sotto il segno dell’“emergenza costituzionale”, per esprimere la situazione di scollamento dai fundamentals della democrazia liberale che si è venuta a creare nella quattordicesima legislatura.
In effetti nei pensieri, nelle opere, nei progetti e nelle omissioni del governo in carica e della maggioranza che lo sostiene, si parla sempre il linguaggio – comprensivo degli assordanti silenzi in occasione di date-simbolo, che hanno voluto segnare l’estraneità, culturale ed esistenziale, alle radici antifasciste della Repubblica – della delegittimazione delle radici ideali della Repubblica (polemiche sulla Resistenza) e della Costituzione (accusata, fra l’altro, di sovietismo per il suo impegno a “civilizzare” il mercato); della concentrazione dei poteri (irrisolto e, con il decreto legge su Retequattro, “festeggiato” conflitto di interessi), in controtendenza rispetto a un principio fondante dei regimi costituzionali-pluralistici qual è “la dissociazione della potenza economica o sociale da una parte e del potere politico dall’altra”17); del depotenziamento e talvolta dell’asservimento del Parlamento; del privilegio antiegualitario a favore della classe politica, nella prospettiva di erigerla in classe-fortezza; della normalizzazione del potere giudiziario (dopo aver approvato una legge che depotenzia la funzionalità del CSM, si vorrebbe colpire al cuore – ancora una volta in funzione accentratrice18) – l’essenza stessa di quel potere, l’interpretazione della legge); dell’insofferenza o del disprezzo verso i poteri custodi della legalità nelle sue varie versioni (magistratura e, più velatamente, Corte costituzionale, anch’essa peraltro accusata di recente, dalla volgarità di un avvocato di regime, di essere composta in maggioranza da “maledetti comunisti”); dell’ulteriore verticalizzazione e concentrazione dei poteri (che non dispiace, invero, neppure a quella parte dell’opposizione che alla bulimia da ingegneria costituzionale coniuga l’anoressia da costituzionalismo: v. Appendice) quale si verificherebbe nel modello di “premierato assoluto” (L. Elia) in discussione al Senato; del rafforzamento del principio maggioritario conseguente al mancato adeguamento dei quorum – pensati in regime proporzionalistico – alle formule elettorali vigenti da un decennio; dello stravolgimento del ruolo della Consulta (attraverso la progettata alterazione, in chiave regionalizzante, dei suoi equilibri interni19)); della manomissione, sempre in chiave pro-maggioritaria, delle regole sulla par condicio in tema di propaganda elettorale; dell’asfissia e dell’ulteriore concentrazione (per il momento sventata dal rinvio presidenziale della “legge di sistema” in materia televisiva) di quello che una volta si chiamava quarto potere, ma che potrebbe avviarsi a diventare il primo maggiordomo, disposto a cantare come l’usignuolo dell’imperatore.
C’è da chiedersi se una certa furia delegittimante (un editorialista organico è arrivato a parlare della nostra come di una costituzione “fascistoide e criptocomunista”20)); le espressioni incontrollate di fondamentalismo maggioritario che si propone di strapazzare Montesquieu (un filosofo organico è arrivato a proporre che “in Senato sieda una commissione permanente per valutare l’operato di tutta la magistratura”21)); i vaneggiamenti di giacobinismo di destra (un avvocato organico ha predicato l’“allontanamento dalle aule di giustizia di tutti i giudici togati per farvi entrare i giudici popolari”22)); e, infine, l’arroganza espressasi nelle forme estreme della legislazione sibi et suis (L. Elia) – nei confronti della quale le virtù del costituzionalismo si sono preziosamente inverate nel rinvio presidenziale del 15 dicembre 2003 e nella sentenza della Consulta del 13 gennaio scorso – debbano ascriversi a carico delle novità istituzionali degli ultimi dieci anni.
Si potrebbe rispondere osservando che la tenaglia costituita – per esprimersi nei termini di un noto costituzionalista23) – da “fatto maggioritario elettorale” (la designazione sostanzialmente diretta, e dunque extraparlamentare, del presidente del consiglio) e “parlamentarismo maggioritario” (la tendenziale blindatura delle politiche governative in parlamento), non è certo una novità nelle democrazie occidentali, ma che essa non ha ricadute – se non, magari, nel senso del rafforzamento – sul pluralismo sistemico e sul ruolo delle istituzioni di garanzia. Sicché l’affermazione secondo cui “il sistema maggioritario … facendo venire meno le mediazioni che caratterizzavano i rapporti tra i partiti nel sistema proporzionale, inevitabilmente riduce quell’area comune di legittimazione politica sulla quale si fondava in primo luogo la delega alla funzione giurisdizionale di poteri e di scelte”24); o quella che individua la radice della crescita dei contrasti tra magistratura e classe politica nell’introduzione di una formula elettorale maggioritaria-bipolarizzante, “che però si accompagna alla rigidità delle regole che governano le relazioni fra magistratura e politica”25), sottolineano correttamente una inevitabilità o una radice soltanto italiana.
Forse, per spiegare l’ennesimo “caso italiano”, non è sbagliato sottolineare il fatto che in altri paesi il bipolarismo maggioritario ha radici diverse da quelle di un cocktail indigesto di artificialismo da laboratorio costituzionale e di populismo antipolitico. L’aver bevuto tutto d’un fiato quel cocktail ha prodotto, fra le altre, la conseguenza che l’immaturità democratica di un leader e della sua maggioranza abbia potuto scambiare un successo elettorale per una unzione26), e che questo successo, pantografato in sede di trasformazione dei voti in seggi, sia stato considerato addirittura capace di sottrarre i beneficiari alle regole dello stato di diritto. Si è in tal modo aperta “una singolare e inedita questione…in ordine alla compatibilità tra l’azione giudiziaria che dà seguito al dettato delle leggi e la volontà popolare che democraticamente si esprime quando sceglie una maggioranza di governo”27): una sorta di embolo mentale che rende sempre meno facile per la democrazia italiana trovare un punto di equilibrio fra “complesso del tiranno” e “libidine del capo”28).

Appendice.

Dell’insaziabile astrattezza di certa ingegneria costituzionale si può anche sorridere: a coloro che sono disposti a farlo, propongo un brano di Evelyn Waugh “L’inviato speciale” (1938) in E. Waugh, Opere, Bompiani, Milano, 1992, p. 319-320.

“Verso il 1870 diversi coraggiosi europei erano giunti a Ismaelia o nei pressi, equipaggiati con gli opportuni orologi a cucù, fonografi, cappelli a cilindro, abbozzi di trattati e bandiere delle nazioni che erano stati costretti a lasciare. Venivano in veste di missionari, ambasciatori, mercanti, cercatori d’oro, scienziati. Nessuno era tornato. Venivano mangiati, uno dopo l’altro, questi crudi, quelli stufati o in umido, a seconda delle usanza locali e del calendario (…). Spedizioni punitive avevano subito più danni di quanti non ne avessero fatti, e negli ultimi anni del secolo erano prevalse considerazioni umanitarie. Le potenze europee avevano deciso, ciascuna per conto proprio, che non sapevano che farsene di quel lembo di terra da cui non si ricavava un bel nulla, e che l’unica cosa meno desiderabile del vedere un vicino impiantarvisi era il fastidio di impadronirsene. Di conseguenza, per consenso generale, Ismaelia era stata espunta dalle mappe, e la sua immunità garantita. Siccome non c’era forma di governo comune alle genti così segregate, né nessi linguistici, storici, di costumanze o credenze, la si designò una repubblica. Un comitato di giuristi, tutti accademici, elaborarono una costituzione che prevedeva un parlamento bicamerale, rappresentanza proporzionale mediante voto trasferibile, un esecutivo che il presidente poteva sciogliere su raccomandazione di entrambe le camere, una magistratura indipendente, libertà di religione, istruzione laica, habeas corpus…”

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