Secondo i dati ufficiali, al 30 aprile 2010 il numero dei detenuti è salito a 67452 a fronte di una capienza regolamentare di 44066. È di nuovo emergenza, come era facilmente prevedibile già all’indomani della concessione dell’indulto (estate 2006), visto che quel provvedimento non è stato accompagnato da un significativo mutamento delle politiche penali che privilegiasse il ricorso, nella misura più ampia possibile, a sanzioni non detentive. Ad incidere è stato anche un non adeguato ricorso a misure alternative nel corso della esecuzione della pena, nonostante i dati stiano a dimostrare che le percentuali di recidiva sono assai più alte per i detenuti che non ne hanno usufruito (68% contro 19%).
Se si guarda poi alla composizione della popolazione carceraria il dato è ancora più allarmante: essa è in prevalenza composta da stranieri (24922) e da tossicodipendenti (circa il 30%), con quasi la metà dei detenuti in attesa di giudizio. In questa situazione come è possibile pensare a un trattamento individualizzato, qual è quello delineato dall’ordinamento penitenziario? Come è possibile pensare ad un processo di rieducazione ove riferito a soggetti che ancora non sono stati condannati e quindi si presumono innocenti?
In attesa della realizzazione del c.d. piano carceri, si pensa ad una misura emergenziale, quale è quella proposta dal Ministro della Giustizia con il d.d.l. recante “Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno e sospensione del procedimento con messa alla prova” (A.C. 3291), il quale prevede, tra l’altro, che “La pena detentiva non superiore a dodici mesi, anche se parte residua di maggior pena, è eseguita presso l’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura assistenza e accoglienza” (art. 1). Secondo le stime ministeriali, i detenuti che potrebbero “beneficiare” del provvedimento sarebbero 10741. Di là dalle perplessità sul dato (non mi tornano i conti, considerando che circa il 40% dei detenuti “interessati” non ha una abitazione a disposizione), ciò che più impressiona sono le reazioni di autorevoli esponenti del Governo. Il Ministro dell’Interno considera la misura “peggiore di un indulto”, il Ministro della Difesa ha manifestato perplessità analoghe (è “una legge che non vorrei mai”). Non, dunque, perché la misura sarebbe insufficiente a ridurre il sovraffollamento (probabilmente, considerati anche i reati per i quali è esclusa l’applicazione del provvedimento, ne “beneficerebbero” solo 2500 detenuti), ma perché produrrebbe un effetto di eccessiva decarcerizzazione! Non perché – secondo quanto rilevato dall’ANM – introdurrebbe un automatismo che prescinde da qualsiasi valutazione circa la pericolosità del “beneficiario”, ma in quanto la magistratura già potrebbe realizzare obiettivi analoghi, avendo “gli strumenti per rendere il carcere necessario solo a chi per legge lo merita” (secondo quanto dichiarato dal Ministro La Russa). Affermazione, quest’ultima che meriterebbe un plauso, qualora effettivamente le politiche penali del Governo si fossero orientate a favore della applicazione, nella misura più ampia possibile, delle sanzioni non detentive. Ma non è così, ne sarà così. La tendenza è di segno contrario e sembra trovare riscontro in larga parte dell’opinione pubblica, convinta, in un’ottica esclusivamente repressiva, che il carcere sia l’unico strumento adatto a ripristinare la legalità violata. Poco importa, poi, se è il carcere non è il luogo della legalità, se l’esecuzione della pena si traduce – strutturalmente – in trattamento inumano e degradante. Poco importa se la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia perché i detenuti sono costretti a convivere in celle ove lo spazio riservato a ciascuno di essi è insufficiente ad assicurare una vita dignitosa o se qualche magistrato di sorveglianza (nella specie di Cuneo) intima alla direzione di un carcere di “adottare i provvedimenti ritenuti necessari e più opportuni” per porre fine alle “non tollerabili condizioni di vita dei detenuti”. Poco importa se tale disposizione del magistrato di sorveglianza non sia da riguardare come mera segnalazione, ma, in quanto rivolta ad eliminare violazioni dei diritti dei condannati, sia da considerare come prescrizione o ordine, “il cui carattere vincolante per l’amministrazione penitenziaria è intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa persegue” (Corte cost., sent. n. 266 del 2009). Poco importa se le celle trasudano di umidità, se le condizioni igieniche minime non sono in molti casi rispettate. Ciò che importa è che coloro che hanno violato la legge (o che, ove in attesa di giudizio, si presume l’abbiano violata) scontino la pena in carcere ovvero, più correttamente, marciscano in galera.
Ad imporlo è il diritto alla sicurezza dei cittadini “liberi” che prevale, annientandola, sulla “sicurezza dei diritti”, la quale dovrebbe implicare una effettiva lotta contro l’emarginazione e l’esclusione per la realizzazione di una società che consenta l’espressione delle potenzialità di sviluppo degli individui. Anche questa è un’esigenza di sicurezza, ma di segno diverso rispetto a quella che sembra muovere i nostri governanti. Un’esigenza che – secondo quanto sostenuto qualche anno fa da Baratta – dovrebbe implicare un radicale mutamento delle concrete politiche penali, le quali, appunto, più che informarsi al modello del “diritto alla sicurezza” dovrebbero informarsi a quello della “sicurezza dei diritti”, inserendosi nel quadro generale di una “politica integrale di protezione e soddisfazione dei diritti umani e fondamentali” che vede il diritto penale e gli indirizzi rivolti alla prevenzione dei delitti come elementi non già ad essa sostitutivi ma sussidiari.
Quanto ancora dovremo attendere per realizzare un obiettivo costituzionalmente imposto quale è quello dell’umanizzazione della pena? Non è sufficientemente cruda la realtà carceraria (già 25 suicidi nel 2010) per illuminare i nostri governanti? Scelgano la misura più opportuna e, soprattutto, più efficace per “svuotare” le carceri, ne costruiscano pure di nuove, ma si rendano conto che a tali misure vanno accompagnate scelte radicali che impediscano il riproporsi del problema del sovraffollamento, perfino quella estrema del “numerus clausus”, che impone alla magistratura di sorveglianza di scegliere un detenuto da “far uscire” ogni qual volta ne entra un altro. Privilegino un sistema di misure non detentive che ne garantisca l’effettività, creando le condizioni per trattamenti penitenziari realmente individualizzati, che contemplino, tra l’altro, la possibilità di lavorare dentro e fuori dal carcere. Cerchino di dare un senso a quella tensione verso la rieducazione preconizzata nell’art. 27 Cost. e, più in generale, di dare una concreta risposta all’impegno costituzionale di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2, Cost.). Se è vero che quest’ultimo è “compito della Repubblica”, ad esso non possono sottrarsi le nostre istituzioni, prima fra tutte il “Governo della Repubblica” e coloro che pro tempore lo compongono.