1. Il decreto legge n. 259/06, con cui l’attuale Governo ha statuito disposizioni urgenti in materia di intercettazioni telefoniche illegali, contiene, innanzi tutto, una modifica dell’art. 240 del cod. proc. pen., cui sono stati aggiunti due commi. Il neo-secondo comma così recita: «L’autorità giudiziaria dispone l’immediata distruzione dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni, relativi al traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti. Allo stesso modo si provvede per i documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni. Di essi è vietato eseguire copia in qualunque forma. Il loro contenuto non costituisce in alcun modo notizia di reato, né può essere utilizzato a fini processuali o investigativi».
Come è noto, il decreto legge in esame trova la propria motivazione di necessità ed urgenza nelle risultanze di un’inchiesta giudiziaria che ha portato alla luce una vera e propria rete spionistica privata, facente capo al responsabile della sicurezza della società Telecom e ad una agenzia investigativa allo stesso collegata, la quale avrebbe detenuto una quantità abnorme di informazioni (desunte da tabulati, intercettazioni e varia altra documentazione) illegalmente raccolte e conservate. Per quanto stabilito dal nuovo art. 240 del cod. proc. pen., l’autorità giudiziaria dovrà disporre l’immediata distruzione di questo materiale.
A fini probatori, poi, il nuovo comma terzo del menzionato articolo prevede che «delle operazioni di distruzione è redatto apposito verbale, nel quale si dà atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione e dell’acquisizione, delle sue modalità e dei soggetti interessati, senza alcun riferimento al contenuto delle stesse».
Nonostante quest’ultima cautela del legislatore, la materia appare estremamente delicata. Si pongono, sul piano strettamente processuale, questioni importanti, relative agli stessi principi ispiratori della procedura penale modificata dal codice del 1989, e, non da ultimo, la problematica relativa alla genuinità della prova e alla sua ripetibilità in sede dibattimentale. Sul punto, peraltro, va segnalato che il Consiglio superiore della magistratura – su richiesta del Ministro della giustizia – ha espresso il proprio parere, argomentando che il decreto legge n. 295/06 andrebbe parzialmente modificato, proprio per tutelare il diritto di difesa sia dell’imputato che della parte lesa. Nel parere, approvato all’unanimità dal plenum, si ritiene che la distruzione della documentazione illegalmente acquisita non possa avvenire immediatamente, ma soltanto «dopo un contraddittorio delle parti, davanti al giudice e con garanzie di riservatezza». Nell’attesa, il materiale andrebbe conservato.
Comunque sia, se i fatti dovessero venire confermati, si tratterebbe, per la vicenda de qua, certamente di un’attività illegale. Infatti, nella disciplina delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, contenuta negli artt. 266-271 cod. proc. pen., è stata riprodotta la stessa ratio di ‘inviolabilità’ espressa nell’art. 15 Cost., ove è precisato che la libertà e la segretezza delle comunicazioni possono venire limitate solo «per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge». In questa prospettiva, l’art. 267 cod. proc. pen. prevede che, di regola, l’intercettazione possa venire disposta dal pubblico ministero solo a seguito di autorizzazione da parte del giudice per le indagini preliminari, il quale vi provvederà con decreto motivato nella propria qualità di organo garante delle libertà individuali – quando, in presenza di «gravi indizi» di reato, non necessariamente già orientati a carico di una determinata persona, l’intercettazione stessa risulti «assolutamente indispensabile» per la prosecuzione delle indagini. Nei casi di urgenza, poi, le intercettazioni potranno essere disposte dal pubblico ministero con decreto motivato, comunque sottoposto alla convalida del gip entro le successive quarantotto ore. In parte diversa – secondo un recente indirizzo delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (anche a seguito dell’ordinanza n. 281 del 17 luglio 1998 della Corte costituzionale) – la disciplina autorizzativa relativa all’acquisizione di tabulati, inerenti al traffico telefonico riconducibile ad una certa utenza. Per essa (e, comunque, in ossequio al secondo comma dell’art. 15 Cost.) può bastare il provvedimento dell’autorità giudiziaria, impersonata dal pubblico ministero.
A questo specifico regime probatorio, in tema di intercettazioni, si affianca, nel cod. proc. pen., il principio più generale di «legalità» in materia di prova, declinato in quella regola (art. 191) che stabilisce la non utilizzabilità delle «prove illegittimamente acquisite», cioè ammesse o assunte «in violazione dei divieti stabiliti dalla legge». Una regola, questa, «evidentemente diretta a sottolineare la portata garantistica delle norme sulla prova, esplicitando nel contempo la reazione negativa dell’ordinamento di fronte al fenomeno delle prove illegittime, perché acquisite contra legem: cioè nella inosservanza di un divieto concernente il momento della loro acquisizione (ovvero, prima ancora, della loro ammissione, come tale destinato ad inficiarne anche la successiva acquisizione)» 1).
La migliore dottrina costituzionalistica ha collegato il senso normativo ultimo di tale regola ‘processuale’ ad un rispetto ‘sostanziale’ dei diritti costituzionalmente garantiti 2).
Di contro, si è sostenuto che tale regola potrebbe trovare giustificazione rifacendosi esclusivamente alle ragioni ‘intrinseche’ dello specifico divieto di ammissibilità probatoria. Il che dovrebbe implicare, su un piano interpretativo più generale, che, nonostante il divieto normativo, qualora il giudice lo ritenesse indispensabile ai fini dell’accertamento della “verità” – «secondo la misura dei suoi poteri» e secondo una interpretazione massimalista della «legge del processo» – sarebbe possibile disporre comunque e validamente di una prova, seppure illegittimamente acquisita 3).
Come accennato, invece, secondo la teoria “sostanziale”, «la regola dell’inutilizzabilità processuale delle prove illecite» dovrebbe direttamente dedursi «dai principi su cui si fonda qualsiasi ordinamento civile rispettoso dei diritti e della dignità dell’uomo, che sia organizzato come “Stato di diritto”. In un ordinamento così caratterizzato è infatti contraddittorio sostenere – a prescindere dalla esistenza o meno di una Costituzione e/o di una specifica previsione costituzionale (come quella dei citt. artt. 13, 14 e 21 Cost.) -, che l’interpretazione delle norme processuali sulla formazione della prova possa andar disgiunta dal rispetto dei valori sostanziali recepiti dall’ordinamento» 4). Il punto focale è, dunque, il seguente: «se il “costo sociale” lamentato dalla cd. teoria processuale è che, seguendo la opposta teoria sostanziale, si escluderebbero delle prove, nonostante la loro importanza per la ricerca della verità dei fatti, il “costo sociale” lamentato dalla cd. teoria sostanziale è che, seguendo la opposta teoria processuale, si determinerebbe un imbarbarimento della convivenza civile nei rapporti tra privati, nonché ad opera di magistrati, funzionari pubblici e agenti di polizia» 5) .
2. Appare evidente, quindi, che quando, in sede penale, si è affrontato il problema dell’inutilizzabilità delle intercettazioni di comunicazioni e conversazioni, si è sempre fatto riferimento al regime delle prove illecitamente acquisite (art. 191 cod. proc. pen.). Questa regola sulla inutilizzabilità processuale delle prove illecitamente acquisite dovrebbe fondarsi, in effetti, su un duplice principio connaturato allo “Stato di diritto”: a) «il divieto penale della tutela arbitraria delle proprie ragioni (che, in uno Stato di diritto, si pone in antitesi con la tutela giurisdizionale)», in modo da non concedere ai privati «di ottenere “giustizia” sulla base di illeciti da loro commessi»; b) «il rispetto del principio di legalità da parte di tutti i pubblici poteri», in modo che tutte le pubbliche autorità non possano «perseguire la ricerca della “verità” dei fatti rilevanti per il processo senza rispettare le norme che, di tali autorità, disciplinano la competenza e le modalità di azione» 6). Ciò che si vuole evitare, con tale regola, è la degenerazione del rapporto tra intangibilità della sfera del privato e corretto uso del potere pubblico (in tutte le sue forme). Non è pensabile, in uno “Stato di diritto”, che il privato si faccia giustizia da sé raccogliendo illecitamente delle prove da sottoporre successivamente all’attenzione dell’autorità giudiziaria, chiamata, così, a soddisfare un interesse personale alla “verità”. Né, parimenti, è concepibile che il potere pubblico si intrometta illegalmente nella sfera del singolo, abusando, illimitatamente, delle proprie prerogative “poliziesche” e della propria funzione di garanzia dell’ordine pubblico.
A guardare bene, però, il decreto in esame si pone il problema in termini più ampi, adottando una prospettiva parzialmente diversa. Statuire la «distruzione immediata» di atti e documenti «illegalmente formati o acquisiti» (i quali non possono, in nessun caso, essere considerati notitiae criminis) significa che non si ritiene neanche possibile perseguire una qualche “verità” sulla base di quei documenti. Una “verità”, appunto, che non sia la stessa «illegale» formazione o acquisizione di quei documenti. E questo, forse, perché il comportamento che si vuole colpire e che si ritiene oggetto della norma penale è, al di là delle singole finalità per le quali si raccolgono informazioni, la stessa «raccolta illegale».
Qui, non si prevede che sia solo lo Stato ad abusare delle sue prerogative “poliziesche”, ma che l’intero sistema della società dell’informazione, nella sua attività di sfruttamento di dati non accessibili legalmente, possa rappresentare un pericolo per i diritti costituzionalmente garantiti.
2.1. Se è così, ad essere in questione non è tanto il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, o l’idea che esista un «potere invisibile» 7) capace di dar vita a un «doppio Stato» 8), quanto piuttosto una patologia della società dell’informazione – costituita in buona misura da soggetti privati in grado di disporre, per le finalità più diverse, anche soltanto commerciali, di una cospicua mole di informazioni –, le cui prerogative “classificatorie” 9) possono prestarsi agli usi più disparati e influenzare pesantemente i profili, pubblici e privati insieme, del principio democratico di autodeterminazione dei cittadini 10).
Ne deriva, se si accetta questa interpretazione, un rafforzamento della tesi “sostanziale” relativa al fondamento normativo della regola processuale che stabilisce il divieto di inutilizzabilità delle prove illecitamente acquisite. Non residua più alcuno spazio logico o teorico per sostenere un possibile ‘aggiramento’ del divieto da parte delle pubbliche autorità.
In un certo qual modo, si deve supporre che le raccolte e le conservazioni illegali di documenti, atti, supporti relativi a intercettazioni, informazioni e altro materiale inerente all’esercizio della libertà di comunicazione, essendo, per loro natura, lesive dell’autonomia morale e sociale della persona (perché potenzialmente indirizzate “soltanto” a influenzarne o a modellarne i codici culturali di riferimento) non possano costituire la base ‘legale’ per alcun tipo di accertamento penale che non sia quello relativo alla responsabilità di chi ha posto in essere quei comportamenti illeciti. Qui non è in gioco soltanto il rapporto tra individuo e Stato. La minaccia, infatti, potrebbe, con molta più probabilità, provenire da società private dotate degli strumenti tecnologici e finanziari adeguati per condizionare gli stili di vita dei singoli. Si modifica lo scopo della norma penale. Oltre a preservare il cittadino dall’intrusione illecita del potere pubblico nella sua vita e a garantire che lo stesso pubblico potere non venga usato a fini personali, ciò che si vuole prevenire è la lesione del principio di autolegislazione (rectius: autodeterminazione) che è alla base della vita democratica e che investe, trasversalmente, sfera pubblica e sfera privata. Siamo alla radice della questione: la tutela delle regole democratiche, o, per usare l’espressione di Pace, il rifiuto dell’ «imbarbarimento della convivenza civile».
3. Infine, qualche ultima osservazione relativa all’art. 4, comma primo, del decreto legge in esame, ove sono previste le sanzioni pecuniarie per gli autori della divulgazione degli atti o dei documenti di cui al novellato art. 240 cod. proc. pen., comma secondo: «A titolo di riparazione, ciascun interessato può chiedere all’autore della divulgazione […], al direttore o vice-direttore responsabile e all’editore, in solido fra loro, una somma di denaro determinata in ragione di cinquanta centesimi per ogni copia stampata, ovvero da cinquantamila a un milione di euro secondo l’entità del bacino di utenza ove la diffusione sia avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico. In ogni caso, l’entità della riparazione non può essere inferiore a ventimila euro».
Non paiono potersi rilevare, in questa norma, profili di incostituzionalità, soprattutto se si ritiene corretto il ragionamento precedentemente svolto, dal quale si può desumere un giustificato diritto all’oblìo in evidente contrasto con un diritto di cronaca che, qui, assumerebbe quasi esclusivamente i connotati dell’accanimento mediatico.
Anche perché, come è stato osservato, il diritto di cronaca – al pari del diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero – (e, in tal senso, diversamente dalla ratio dell’art. 15 Cost.) non è da prospettarsi come un «assoluto»; la tutela del diritto di cronaca deve essere sempre garantita «compatibilmente con la salvaguardia degli altri valori costituzionalmente recepiti» 11).
Né si può ritenere, qualora dovesse ricorrere la fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 240 cod. proc. pen., che, viste le modalità con cui sono state acquisite le informazioni e la loro natura, sussista un qualche diritto dell’opinione pubblica a essere informata. Anche se i dati raccolti illegalmente non dovessero essere considerati ‘sensibili’. Mai, come in questo caso, l’appello al «diritto del popolo ad essere informato («the people’s right to know»)» costituirebbe «il pretesto per rivendicare una posizione privilegiata degli operatori professionali dell’informazione», una mera «teoria mistificante e squisitamente corporativa» 12).
Non solo. Il richiamo a un ‘diritto a sapere’ dell’opinione pubblica nasconderebbe «dietro il ricorso a una entità pseudoempirica, una sostanziale autolegittimazione» del potere della società dell’informazione di agire indipendentemente da qualsiasi limite legale 13).
1) G. CONSO – V. GREVI, Compendio di procedura penale, Padova, Cedam, 2006, 3° edizione, p. 310.
2) Così A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale. Introduzione allo studio dei diritti costituzionali, Padova, Cedam, 2003, 3° edizione aggiornata e modificata, p. 290 ss..
3) La tesi è sostenuta da F. CORDERO, Tre studi sulle prove penali, Milano, Giuffrè, 1963; ID., Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2001 (cit. in A. PACE, op. cit., p. 290), secondo il quale l’illiceità del fatto non determina, di per sé, l’inammissibilità processuale della prova.
4) A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, op. cit., p. 292.
5) Ibidem, p. 291.
6) Ibidem, pp. 292-293.
7) Di «potere invisibile» con riferimento a un potere pubblico non effettivamente controllato dai cittadini ha parlato N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1995, 2° edizione, p. 17 ss.: «L’ideale del potente è sempre stato quello di vedere ogni gesto e di ascoltare ogni parola dei suoi soggetti (possibilmente senza essere visto né ascoltato): questo ideale oggi è raggiungibile. Nessun despota dell’antichità, nessun monarca assoluto dell’età moderna, pur circondato da mille spie, è mai riuscito ad avere sui suoi sudditi tutte quelle informazioni che il più democratico dei governi può attingere dall’uso di cervelli elettronici», p. 19.
8) L’idea del «doppio Stato», come è noto, è stata sviluppata da E. FRAENKEL, Der Doppelstaat (originariamente scritto in tedesco, ma pubblicato in edizione inglese col titolo The Dual State nel 1941), tr. it. di P. P. Portinaro, Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura, Torino, Einaudi, 1983, per spiegare le peculiarità dell’instaurazione “legale” del regime nazista. È stato G. ZAGREBELSKY, L’arbitrio senza Stato, in La Repubblica del 22 settembre 2006, a riprendere questa immagine per spiegare le ricadute costituzionali della rete nazionale di ascolto illegale scoperta dalla magistratura. «La radice» del problema, scrive l’Autore, «è la distinzione che manca tra interessi pubblici e interessi privati; è l’assenza di autonomia tra le due sfere; è la tentazione dell’una a ricercare il favore dell’altra; è, in definitiva, la corruzione del senso delle responsabilità pubbliche come di quelle private».
9) Uno dei lati più preoccupanti e oscuri della società dell’informazione, scrive S. RODOTÀ, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Roma-Bari, Laterza, 2004, nuova edizione accresciuta, p. 137, è l’obiettivo della «classificazione»: «Nel mondo dei consumi e della logica di mercato, infatti, la sorveglianza non ha come obiettivo quello di impedire o scoraggiare determinati comportamenti. Queste possono rivelarsi finalità del tutto estranee o indifferenti per chi raccoglie sistematicamente informazioni: anzi, l’interesse è abitualmente quello di far sì che i comportamenti di consumo vengano il più possibile ripetuti. L’obiettivo vero è quello della ‘classificazione’: la società della sorveglianza si connota progressivamente come società della classificazione. Quando si dice, ad esempio, che le informazioni sono necessarie per le strategie d’impresa, si mette in evidenza la necessità di disporre delle caratteristiche dei possibili destinatari di un prodotto, di individuare il target di una campagna pubblicitaria. Questo significa una incessante produzione di profili individuali, familiari, di gruppo, costruiti utilizzando e incrociando le informazioni più varie. La società si scompone. Con quali effetti? Una adesione permanente ai bisogni e ai gusti individuali, in una prospettiva che esalta la sovranità del consumatore? O l’obbligo di rientrare in parametri di normalità statistica, pena l’esclusione dal mercato o un accesso a condizioni particolarmente onerose? E quindi: una via verso il riconoscimento sempre più marcato delle diversità o verso l’imposizione di criteri di conformità ai profili prevalenti?». Per un ulteriore approfondimento dell’aspetto ‘classificatorio’ della ‘società dell’informazione’ si rinvia al saggio di F. BILANCIA, La falsa percezione dei bisogni ed il disinteresse dei cittadini per la tutela dei propri diritti, in AA.VV., Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza, Roma, Carocci, 2006.
10) «Viviamo in un mondo», scrive ancora S. RODOTÀ, cit. p. 151, «in cui proprio le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno contribuito a rendere sempre più labile il confine tra sfera pubblica e sfera privata: e la possibilità d’una libera costruzione della sfera privata e d’uno sviluppo autonomo della personalità sono diventate condizioni per determinare l’effettività e l’ampiezza della libertà nella sfera pubblica».
11) A. PACE-M. MANETTI, Art. 21. La libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Commentario della Costituzione fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro Italiano, 2006, pp. 25-26.
12) Ibidem, p. 350.
13) L’ultimo periodo virgolettato si riferisce alla definizione di ‘opinione pubblica’ contenuta in G. MARRONE, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica, Torino, Einaudi, 2001, p. 253.