Gaetano Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale, Laterza; Lelio Demichelis, Società o comunità. L’individuo, la libertà, il conflitto, l’empatia, la rete, Carocci; Maria Rosaria Ferrarese, La governance tra politica e diritto, Il Mulino.
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Quale rapporto tra il diritto, inteso come norma sociale, e la dimensione dei conflitti? Quali forme di regolazione giuridica, nella permanente trasformazione delle istituzioni pubbliche e nell’irrefrenabile dominio dei poteri economici privati? Quale spazio per l’autonomia individuale e per le istanze sociali nella tarda modernità del tecnocratico capitalismo globale? Come e perché ripensare la democrazia, al di là delle sue forme tradizionali? Potrebbero essere queste alcune delle domande comuni alle tre letture che si presentano in queste brevi note a margine.
Si parte con Maria Rosaria Ferrarese, sociologa del diritto e autrice di La governance tra politica e diritto (Il Mulino, pp. 218, € 18): un’analisi delle attuali forme di regolazione, dopo aver condotto un decennio di illuminanti studi su Le istituzioni della globalizzazione (2000), Il diritto al presente (2002) e Diritto sconfinato (2006). Quindi il sociologo Lelio Demichelis si interroga sul reale spazio di autonomia dell’individuo, in questa lunga e tarda modernità pericolosamente chiusa dall’egemonia incontrastata della tecnica, nel volume Società o comunità. L’individuo, la libertà, il conflitto, l’empatia, la rete (Carocci, pp. 246, € 24,50), che segue il suo Bio-Tecnica. La società nella sua forma tecnica (2008). Per giungere a un costituzionalista, Gaetano Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale (Laterza, pp. 418, € 35), da ultimo autore di Critica della democrazia identitaria (2008), che indaga la fondazione del costituzionalismo alla luce della “dinamica dei conflitti”: un prisma attraverso il quale ripensare l’intero percorso di avvicinamento alle democrazie costituzionali nel passaggio di millennio.
Gli Autori, e i titoli delle loro opere, lasciano intendere che si è voluto seguire un percorso interdisciplinare, per mettere a fuoco i mutamenti teorici e pratici delle forme del vivere associato. In particolare tutti e tre questi lavori partono da un’analisi critica delle esperienze giuridiche, fortemente orientata a indagare i nessi istituzionali, politici e comunicativi dei modi di produzione del diritto e di organizzazione dei rapporti sociali, nella crisi delle categorie fondanti la lunga modernità istituzionale dell’Occidente: statualità, democrazia rappresentativa, supremazia della legge, centralità del Parlamento, società vs. comunità.
La governance tra diritto e politica.
L’intento esplicitato da Ferrarese è quello di studiare la “governance come sfida alla, o come aggiustamento della democrazia”, come “tradizionale geografia istituzionale costruita dallo stato moderno”. Si parte da un dialogo/conflitto serrato tra “le sfide della governance” e le “presunzioni della democrazia rappresentativa”, dapprima ponendo l’accento sulla “crisi della legislazione”, l’insufficienza del clivage diritto pubblico/privato, l’impossibile, reale divisione dei poteri. Siamo al centro della polarità tra costituzionalismo delle garanzie e della limitazione dei poteri e governance prodotta da quel soft law che non pensa più il diritto come “formulazione normativa”, ma piuttosto come “funzione, come risultato, come effettività”. Sono le “impossibilità della rappresentanza” dinanzi alle “possibilità del costituzionalismo”: il deperimento “dell’ingegneria della delega” ai rappresentanti del popolo, lo sconfinamento territoriale oltre le frontiere perimetrate dalla democrazia istituzionale, il radicale mutamento delle società verso classi medie impoverite, massificate e individualizzate al contempo, pericolosamente sospese tra populismo seduttivo, spettacolarizzazione delle pulsioni, “gestione professionale delle percezioni collettive”. Si profila quindi la rivendicazione di nuove forme di partecipazione politica, la centralità della tutela delle minoranze, la riscrittura di nuove agende sociali e l’affermazione di inedite forme di produzione giuridica. E Ferrarese indaga da tempo il rapporto tra common e civil law nell’epoca globale, tra la tendenziale “americanisation du droit” e la necessaria, ma incompiuta, capacità di autotrasformazione della tradizione giuridica continentale, anche a fronte di un diritto comunitario spesso autoreferenziale. In questo oramai quarantennale cantiere si afferma la governance, come “esercizio del potere e produzione di norme giuridiche” attraverso strumenti e procedure che “legano soggetti, gruppi, comunità ai centri di potere”; ma anche come “modalità istituzionale” aperta, flessibile, a geometria variabile, in un “panorama giuridico privo di centro e affidato a meccanismi di conflitto tra norme e di competizione tra ordinamenti”. Nei due capitoli centrali della sua ricostruzione, Ferrarese interroga la “governance giudiziaria” e quella “contrattuale”. Da una parte riprendendo “il precedente americano” della garanzia giurisprudenziale nella democrazia maggioritaria e il “dialogo tra Corti” nel diritto europeo dell’ultimo cinquantennio. Dall’altro esplorando la “governance of contract”, a partire dall’antropologia dell’homo oeconomicus, nell’esperienza del “New Public Contracting” Thatcheriano, nel diritto globale della lex mercatoria, delle law firms e delle altre “istituzioni della globalizzazione” economica e finanziaria. In questo quadro la governance diviene “succursale della democrazia”: approfitta delle incapacità della rappresentanza politica per instaurarsi al centro di una “competizione tra gli interessi”, rispetto alla quale le istituzioni finiscono per divenire strumento della gouvernementalité foucaultiana, quasi riproducendo la “concezione cristiana del governo pastorale”; mentre in altri momenti si torna a una sorta di postmoderno medioevo della regolazione giuridica.
Società o comunità.
È quel rapporto tra “poteri, saperi e pastorato” che Lelio Demichelis indaga in Società o comunità, a partire proprio da “quell’arte di governo, di governamentalità”, che si fonda sulle “discipline”, sul disciplinamento, come “microfisica dei poteri”, per “normalizzare i comportamenti umani, stabilizzarli, ordinarli, armonizzarli” e recintarli in un sistema neo-comunitario: un apparato integrato e chiuso. È la descrizione della biopolitica foucaultiana, che porta alla “società di controllo” enunciata da Gilles Deleuze e al circuito totalizzante tra “ideologia, propaganda e tecnica”, che Demichelis ritiene alla base del “governo delle emozioni” e della connessa “industria del desiderio”; “l’integrazione” dell’individuo nella “comunità-apparato”, come strumento tecnico di neutralizzazione e pacificazione: “la morte del conflitto”. Si potrebbe altresì dire che è questo il percorso della lunga modernità: “la vita messa al lavoro”, applicando “Taylor ai tempi della rete”. Una sorta di neo, o tardo, fordismo, “biopolitica di apparato”, in cui gli “obiettivi aziendali di massima efficienza e di massimo coinvolgimento”, vengono introiettati individualmente, sotto le false e seduttive vesti delle “retoriche del divertimento e del piacere”, indotti da una oggettiva condizione di “analfabetismo emotivo, minorità emotiva”. Siamo al cuore oscuro di una condizione di vita che non conosce più un fuori: la convergenza, l’integrazione, l’assoggettamento è totale proprio perché si assiste a un continuo “processo di de-socializzazione”, in cui le “comunità chiuse, funzionali” – di “apparati tecnici”, più o meno “virtuali”, di “esperti”, che spesso sono solo agenti di marketing – prende il sopravvento sull’affermazione di una possibile “società sempre aperta”, in cui ci sia compresenza di “diritti e doveri; leggi e conflitto; società civile vs. potere”. È l’oramai plurisecolare antagonismo tra la Gemeinschaft-comunità (intesa come “organismo naturale a forte volontà comune, prodotto di una volontà organica”, tendenzialmente chiusa e identitaria) e la Gesellschaft-società (“risultato di una volontà arbitraria e di una riflessione razionalizzante che organizza lo stare insieme degli uomini sulla base di contratti, accordi, leggi”). Demichelis aggiunge a questo tradizionale confronto una pessimistica sensazione di ulteriore ottundimento del singolo individuo, nell’epoca del dominio incontrastato della tecnica, in una lettura che incrocia Gunther Anders con Hanna Arendt; dove “l’animal laborans può divenire la guida dell’homo faber”, costretto a essere “homo materia”, nel “processo di integrazione dell’uomo nell’apparato tecnico”, che diviene una sorta di “seconda natura”, con “l’arte della governamentalità” a disciplinare le forme di assoggettamento dei singoli.
Sembrerebbe una cupa ipoteca rispetto agli spazi di trasformazione nelle procedure di governance, ai tempi della rete globale; eppure, per riprendere le analisi di Ferrarese, è possibile intravedere in questi meccanismi di subordinazione al comando anche una “tendenza al decentramento”, alla frammentazione dei poteri, alle possibilità del controllo diffuso da parte di un’opinione pubblica attiva, che voglia uscire dalla “condizione di minorità” (Demichelis), alla “sperimentazione dal basso di meccanismi di partecipazione”, dentro l’accesso libero e gratuito alla rete, oltre la dimensione contrattuale e giurisprudenziale della governance tradizionale. È lo spazio post-democratico dei soggetti invisibili alle istituzioni centralistiche dello Stato nazione, così come alla disseminazione immateriale della globalizzazione tardo-capitalista: la scommessa è quella di immaginare forme del conflitto all’altezza del mutamento di paradigma avvenuto nei sistemi istituzionali e di produzione normativa.
Diritto e conflitti.
E proprio di Diritto e conflitti si occupa Gaetano Azzariti in un volume che ha il notevole pregio di essere sia un itinerario di lezioni di diritto costituzionale (come espressamente recita il sottotitolo del libro), che una proposta di ripensamento dei fondamenti teorici e istituzionali del costituzionalismo moderno e contemporaneo, alla luce della “dinamica dei conflitti”: un lavoro che necessita di un confronto ben più approfondito, che può essere solo suggerito e accennato in questa occasione. La prima parte del libro ricostruisce il “diritto come norma sociale, regola di condotta” della convivenza sociale, in cui “l’oggetto della scienza giuridica” si apre “alla società e alla complessità della realtà sociale” e l’ordinamento giuridico è inteso come “istituzione normativa e sociale”. È uno sforzo di nuova ricerca ed elaborazione quello che intraprende Azzariti, dinanzi alla “crisi della sistematica” e alla consapevole necessità di “ripensare il diritto delle Costituzioni”. Perciò nella prima parte costante è il riferimento alle dottrine che si fondano sul superamento del “monismo statualista” e si aprono al “pluralismo”, a cominciare, ovviamente, dall’indimenticato insegnamento di Santi Romano.
In conclusione di questa parte rimane volutamente senza risposta la domanda fondamentale sulla “costruzione del consenso sociale, che è sempre artificiale, ma può anche essere fortemente manipolata, nonché vacuamente spettacolare”. E questo è il punto di partenza dell’analisi critica proposta da Azzariti nella seconda, assai più ampia, parte del volume: il rapporto tra “ordinamenti e conflitti” alla luce di una loro “composizione autoritativa”, piuttosto che di una “soluzione procedurale”, ipotesi alle quali viene preferita la “legittimazione dei conflitti”, nella transizione dal “potere del demos alla sovranità della Costituzione”. È un’ampia e suggestiva cavalcata nel pensiero politico e giuridico della tradizione occidentale, che prende le mosse da una radicale e inappellabile critica della “composizione autoritativa dei conflitti”, cui consegue il rifiuto della logica capitalistica dietro al “funzionalismo scettico di matrice nichilista”, che può essere combattuto anche “in forza di un illuminismo disincantato e critico” e non necessariamente “contrapponendo una visione dogmatica e determinista”: “oltre al nulla del nichilismo, il costituzionalismo e la storia”. In questo senso il “paradigma procedurale” di soluzione dei conflitti e il “normativismo” di matrice kantian-kelseniana si mostrano insufficienti dinanzi alla portata innovativa di “conflitti irriducibili”. Qui si parte dalle figure tragiche di Antigone e Socrate, passando per la “resistenza passiva” di Tommaso e giungendo alla potenza razionalizzatrice della “gigantesca macchina dell’obbedienza” hobbesiana (secondo la celebre ricostruzione di Norberto Bobbio), capace di influenzare tanto il pensiero liberale del “costituzionalismo moderno di Locke”, quanto “quello radicale e democratico” di Rousseau. In questo ampio e multiprospettico percorso proposto da Azzariti c’è un sapiente recupero della “dimensione sociale del diritto”, a partire dalla centralità dei conflitti, sia come “base della dinamica dell’ordinamento”, che come meccanismi di separazione e distinzione tra “i singoli e i gruppi”, consapevoli che questi stessi conflitti dovranno “trovare una loro conciliazione o almeno forme di convivenza, se si vuole evitare – alla lunga – la disgregazione dell’ordinamento nel suo complesso”.
Qui risiede per Azzariti il fondamento della “legittimazione dei conflitti”, attraverso il lento e faticoso affermarsi della “democrazia costituzionale”, che trova in Rousseau quasi una sorta di moderno fondatore, a partire dalla centralità del “contratto [che] assicura la libertà di tutti”; con ciò intendendo una libertà che tenga insieme “eguaglianza e fratellanza” (in tendenziale sintonia con quella égaliberté su cui insiste Étienne Balibar, ci pare). Soprattutto Rousseau, con il quale Azzariti sembra dimostrare una convincente empatia intellettuale, diviene il viatico alla “sovranità della costituzione”: l’affermazione post-rivoluzionaria del “nuovo patto sociale”, che limita e divide i poteri, garantendo anche i “diritti fondamentali” dell’individuo; è l’avvio del lungo percorso che porta alla “democrazia pluralista o costituzionale”.
Ma a noi sono piaciute in modo particolare le pagine sul Rousseau “fomentatore del cambiamento”, “critico dell’ideologia”, promotore di un “radicalismo eversivo” (così Azzariti). Ci sembrano restituire la doppia tendenza cui oscilla la nozione rousseauiana di volontà generale, tra “i due poli della Costituzione e dell’insurrezione” (per dirla ancora con Balibar). Soprattutto vi abbiamo letto la possibilità di intraprendere un percorso eterodosso nelle pieghe della tarda modernità giuridica, che ci conduca a una radicale trasformazione dell’esistente, anche tra le maglie oscure e a volte insondabili della governance postmoderna.
È il tentativo di pensare le lotte per il diritto fuori dal dominio della totalizzante coppia comando-obbedienza. La faticosa e mai abbandonata aspirazione a condurre una vita degna, affrancandosi dalla “condizione infantile”, dalla “minorità” in cui l’umanità si condanna a una “servitù volontaria”; sacrificando libertà, autonomia, dignità, in cambio di obbedienza, dipendenza e mera conservazione dell’esistente. Ci vengono in soccorso alcuni tra gli Autori che hanno accompagnato le ricostruzioni proposte in queste tre letture: Étienne de La Boétie nemico della “servitù volontaria”; Immanuel Kant teorico dell’”entusiasmo rivoluzionario”, nella radicale lettura foucaultiana; Adorno e Horkheimer critici della manipolazione del consenso e dei fallimenti dell’illuminismo; Guy Debord esegeta visionario della “società dello spettacolo”; Alain Touraine analista dei processi di soggettivazione, “in un contesto di conflitti sociali e liberazioni culturali”, in cui il “soggetto è libertà, liberazione, rifiuto”.
La sensazione che anche in “tempi di basso impero” (Azzariti), mentre l’apparato economico-finanziario sembra vivere una sorta di “pulsione di morte” (Demichelis), non si debba per nulla rinunciare ad un “atteggiamento critico”, che metta in discussione anche i fondamenti apparentemente scontati della moderna storia delle nostre libertà e garanzie, del nostro vivere in comune. E che si debba rivendicare l’esigenza di una “nuova critica radicale” (Demichelis), che assuma “il diritto costituzionale come scienza critica” (Azzariti), consapevole delle contraddizioni e dei passi falsi delle “esperienze giuridiche”, ma anche degli spazi di giustizia, autonomia e solidarietà che si danno all’elaborazione teorica, come alla prassi dei soggetti sociali, nell’”immanenza storicamente determinata” (Azzariti). Senza facili ottimismi, ma anche senza rigidi pessimismi fondati su incrollabili certezze, il diverso approccio metodologico di queste tre letture ci invita a pensare e praticare altrimenti il tempo che ci è toccato in sorte.
L’ipotesi di contrastare la corrotta finanziarizzazione dell’economia ipercapitalista e “la crisi del modello politico incentrato sullo stato” (Ferrarese), a partire, piuttosto che dalla previsione di leggi intese come “limitazioni dell’azione”, dalla creazione di “nuove istituzioni”, post-rappresentative e non statali, che siano “modello positivo di azione” (per dirla col Deleuze studioso di Hume). La sensazione che la centralità dei conflitti nel maturo capitalismo globale si dispieghi dalla necessaria lotta per la condivisione e trasmissione del sapere, inteso come “bene comune”, che già Condorcet definiva istruzione pubblica (contro la giacobina educazione nazionale), antagonistica tanto alla dimensione privata, che a quella statuale. E che intorno all’eccedenza della conoscenza si stia giocando tanto il massacro, prima generazionale e ora anche sociale, dell’ultimo trentennio in Europa, quanto le attuali, irriducibili rivolte sulla sponda meridionale del Mediterraneo. È questo un sottile, duraturo, filo rosso, in cui rimane però del tutto aperta la dimensione creativa delle nuove forme di regolazione giuridica, sicuramente oltre le “buone pratiche” di una good governance; che se dovessimo pensare ai “buoni esempi” e modi per produrre il diritto, verrebbe da pensare alla “Repubblica tumultuaria” del Machiavelli dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, che avremmo voluto trovare ricordata nel lavoro di Azzariti: “perché i buoni esempi nascono dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da que’ tumulti che molti inconsideratamente dannano”. Ma questo è lo spazio di riflessione che accompagna le tre letture nel reciproco autochiarimento, agli occhi del lettore interessato a una radicale trasformazione dell’esistente stato delle cose.