Di cosa si è parlato nella riunione informale Ecofin tenutasi a Manchester il 9 e 10 settembre 2005? La domanda è tutt’altro che retorica, visto che di quella riunione ciò che è pubblicamente trapelato è stato, soprattutto, il dibattito sull’applicazione o meno al “caso Fazio” del codice etico di autodisciplina sottoscritto dai governatori delle Banche centrali.
Se guardiamo, però, ai comunicati stampa ufficiali della Presidenza britannica, l’obiettivo della riunione informale dei ministri finanziari dei Paesi dell’Unione torna ad assumere un respiro più ampio e, al contempo, una specifica valenza di politica economica generale. “Rispondere alle sfide della globalizzazione” («Responding to the Challenger of Globalisation»), questo il tema istituzionale dell’incontro.
La risposta europea, come si sa, è racchiusa nello “scrigno” teorico e ideologico della Strategia di Lisbona, la quale include: a) politiche sociali e politiche del lavoro moderne e flessibili che consentano ai singoli cittadini di ottenere, attraverso lo sviluppo delle proprie personali capacità, il giusto e meritato successo in un mondo in cambiamento («modern social and labour market policies that match flexibility with fairness and ensure that citizens are equipped with the skills, support and incentives they need to succede in a changing world»); b) una riforma della legislazione per ridurre i lacci e laccioli che ancora soffocano il mondo degli affari, inibendo crescita e competitività («further reform of regulation to reduce excessive and unnecessary burdens on business, and foster growth and competitiveness»); c) creare un unico e genuino mercato dei servizi («a commitment to the Single Market, includine the creation of a genuine single market in services»); d) apertura totale e concorrenziale dei mercati («trade opennes, globally and between the EU and its major trade and investment partners».
Questo programma è una strana combinazione, composta dalla filosofia della “terza via” seguita e applicata da Tony Blair in Gran Bretagna, dalle suggestioni sempre vive e mai sopite indotte dalla linearità ultraliberista di soluzioni-tipo come la Direttiva Bolkestein sui servizi, e, in ultimo, dal fine istituzionale – l’unico vero motore dell’indirizzo politico prima della Comunità e oggi dell’Unione europea – di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza.
Quanto all’influenza britannica, è particolarmente significativo che le “moderne” (forse “postmoderne”?) politiche sociali e politiche del mercato del lavoro abbiano come epicentro le “abilità”, le “capacità” (skill) del lavoratore. In un discorso tenuto a Londra il 7 aprile 1997, durante la campagna elettorale, Blair affermava: «Stripped to its bare essentials, an economy has three resources at its disposal – raw materials, plant and machinery, and the skills of its workers. And the most important of these, especially in the modern world, is the last. Raw material are certainly significant, but many economies have flourished without them. Plant and machinery are crucial, but in the era of open global capital markets, even that can be acquired from abroad. But without a skilled workforce, the people with the ability and knowledge to staff a modern economy, that economy is nowhere. Global firms may invest in countries with unskilled labour, but workers will be paid accordingly. Education and economic growth go hand in hand, the one making the other possible». L’accezione del termine “skill” non considera la crescita culturale e sociale della persona, dell’individuo, ma, all’opposto, enfatizza la sua preparazione professionale, il suo “essere pronto” di fronte alle esigenze di un mercato del lavoro in evoluzione. Lo stesso “lavoro”, in quest’ottica, si ammanta di connotazioni morali riferite alla sfera della realizzazione individuale, del successo personale, piuttosto che legarsi alla consapevolezza di una rivendicazione e di un diritto sociale.
A ciò si aggiunge il collegamento a un preciso contesto macroeconomico e giuridico di riferimento: un mercato unico dei servizi e del lavoro, libero da quelle regolamentazioni di legge, potenzialmente distruttive della giusta tensione verso crescita e competitività. Ricordiamo che, ad esempio, la Direttiva Bolkestein era una proposta espressamente finalizzata a «ridurre i vincoli alla competitività», relativamente «ai servizi per il mercato interno» (IP/04/37, 13 gennaio 2004). Il progetto di tale Direttiva stabilisce proprio «un quadro giuridico generale per eliminare gli ostacoli alla libertà di insediamento dei fornitori di servizi e alla libera circolazione dei servizi in seno agli Stati membri»; laddove, poi, la medesima Direttiva definisce (art. 4) i servizi come segue: «Ogni attività economica che, secondo l’art. 50 del Trattato istitutivo, si occupa della fornitura di una prestazione oggetto di contropartita economica». Praticamente tutti i servizi. In questo senso, va anche ricordato quel promemoria della Commissione (Memo/04/03, 13 gennaio 2004) ove, in modo chiaro ed inequivoco, gli “ostacoli” sono rappresentati dalle legislazioni e dai regolamenti nazionali, considerati dalla Commissione europea «arcaici, obsoleti e in contraddizione con la legislazione europea». Bisogna “riformare” per “modernizzare”.
Tutto questo, ovviamente, ben si sposa con la liberalizzazione globale degli scambi commerciali e con un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza. In quest’ottica la Direttiva Bolkestein e il GATS si basano su principi comuni.
L’Unione europea deve, quindi, attrezzarsi per affrontare la competizione con le altre aree geopolitiche, presenti ed organizzate sul mercato globale, anche se, come ha affermato il cancelliere Gordon Brown: «l’economia europea oggi è troppo fragile per poter tener testa alla globalizzazione» e deve, specie sotto la spinta della nuova crisi petrolifera, accelerare il passo delle riforme strutturali.
La riunione dell’Ecofin aveva, del resto, come tema centrale della discussione, quello del “caro-petrolio”. In questa sede si sono valutati i riflessi che il nuovo shock avrà sulla crescita dell’area. Una crescita che, presumibilmente, si fermerà all’1,2% e dunque perderà, a causa del “caro-petrolio”, almeno uno 0,4% rispetto alle previsioni della primavera scorsa.
Il ministro lussemburghese Claude Junker, da poco sostituito alla guida dell’Ecofin dal collega inglese Gordon Brown, ha, dal canto suo, affermato che la bolla petrolifera potrebbe pregiudicare lo sviluppo dei paesi dell’Unione e che, se si dovesse confermare il prezzo del greggio a 70 dollari di media per tutto l’anno, il PIL potrebbe diminuire dello 0,25%-0,30%, rispettivamente, in questo anno e nel prossimo.
Se, dunque, i temi principali, dell’incontro Ecofin di Manchester, sono stati quelli relativi al petrolio, alla crescita ed ai conti pubblici, appare evidente che il modo di analizzarli e di risolverli non poteva non essere che quello imposto dall’istituzione tecnocratica che governa la moneta e che dispone dei più possenti strumenti di politica economica. Quella istituzione, cioè, che costituisce il potente – autonomo ed “indipendente” – bioregolatore dell’efficienza competitiva del polo geoeconomico europeo. Il tipo di analisi e le misure proposte, in relazione alla questione dei conti pubblici, sono state, indubbiamente, “condizionate” dall’indirizzo espresso nel Bollettino mensile della Banca centrale europea pubblicato il 9 settembre 2005. Una relazione che ha manifestato rilevanti preoccupazioni per il fatto che alcuni paesi membri (Francia, Germania, Italia, Grecia e Portogallo) hanno sforato i parametri del Patto di stabilità e crescita e che ha somministrato i soliti “farmaci” neoliberisti propri della politica economica perseguita dalla BCE (Cfr. G. BUCCI E L. PATRUNO (a cura di), Il Bollettino mensile della Banca centrale europea fa il punto sulla finanza pubblica dell’eurozona e resta fedele al fine istituzionale della stabilità dei prezzi come criterio-principe del risanamento, in questa Rivista, nella rubrica “Notizie” del 13/09/2005), ossia quelli consistenti nelle riforme “strutturali” finalizzate al risanamento dei conti pubblici mediante tagli considerevoli alla spesa sociale e nella contestuale privatizzazione pressoché generalizzata dei servizi pubblici (scuola, sanità, acqua, elettricità, ecc.).
Sulla base di tali premesse, i ministri dell’Ecofin si sono limitati, obbedientemente, a ribadire la suddetta impostazione e si sono limitati a lasciar liberi i governi nazionali di adottare misure di mero sostegno alle fasce più deboli della popolazione e alle famiglie a basso reddito.
Un tipo di interventi “paternalistici” e “pauperistici” che richiamano alla memoria la cultura monoclasse del tradizionale liberalismo ottocentesco e non quella sociale contenuta nei programmi di trasformazione economico-sociale, finalizzati alla realizzazione dell’eguaglianza sostanziale, recepiti nelle costituzioni del secondo dopoguerra.