Venerdì 23 gennaio 2009, dopo lunghi anni di salute precaria, Sergio Fois ci ha lasciato.
Sul profondissimo acume scientifico e sull’intensa produzione accademica di Sergio non è neppure il caso di soffermarsi, il primo essendo universalmente riconosciuto e della seconda parlando direttamente le opere: per entrambi – si può esserne certi – basterà la Storia a dar conto di tutto.
Questo ricordo va piuttosto alla persona e a quelle idee regolative che ne hanno costituito l’inalterabile faro tanto per la sua attività di studioso, quanto nel complicato mestiere di vivere, che mai come in questo caso hanno rappresentato un’irrinunciabile sincera endiadi. È difficile descrivere come in un solo uomo riuscissero a convivere lealtà e asprezza, coraggio e collericità, intransigenza e senso della pietas, franchezza e cocciutaggine, concorrendo a definire un carattere a dir poco complesso, che viveva con costante irrequietezza un proprio personale Mal sottile.
Un “composto” duro e spesso fieramente rivendicato – forse in parte retaggio della terra d’origine, la sua Sardegna –, che non ha mancato talora di generare frizioni e contrasti dai costi non irrilevanti (e che tuttavia Sergio non ha mai esitato a pagare) anche con le persone a lui più vicine, fra cui da ultimo neppure io negli ultimissimi tempi sono andato esente, quel che rimane per me un motivo di sincero rimpianto.
In questo quadro apparentemente contraddittorio, del resto, non si può non ravvisare un intimo principio di coerenza, costituito dall’inesausto anelito di Sergio verso un’idea di libertà della quale sola egli poteva dirsi davvero partigiano. Un ideale, quello della libertà, che ha finito per guidare la sua intera produzione scientifica da una parte, ed ogni sua “posizione civile” espressa in àmbito sia pubblico sia privato dall’altra. Un ideale che Sergio non aveva timore di portare alle sue estreme conseguenze, teorizzando finanche un vero e proprio diritto all’infelicità, essendo peraltro del tutto consapevole che la difesa ad oltranza – in direzione ostinata e contraria – di queste sue convinzioni l’avrebbe fatalmente gravato del fardello d’una solitudine, al tempo stesso, sorda e vile. Impegno, questo, intriso del medesimo pessimismo proprio delle sue poesie: una perdonabile vanità che di lui diceva forse più di quanto non avrebbe voluto e di cui pertanto parlava con pudore.
Un uomo la cui intera vita – vissuta sempre, tenacemente, fuori da ogni coro – ha respinto come ripugnante l’assai pratica (e praticata) contrapposizione fra vizi privati e pubbliche virtù. Il che, come direbbe Lui, «non è poco».
I pochi che davvero lo conoscevano più da vicino sanno bene di cosa vado scrivendo e non mancheranno di ricordarlo affettuosamente anche per queste sue (tante, ma oneste) spigolosità. Quanto al mio trentennale rapporto con Sergio, come suo amico ed allievo, i ricordi ora si accalcano – talora al calor bianco, talaltra pure divertenti e divertiti – commossi e numerosi come le stelle in cielo a San Lorenzo.