Solo il fragore mediatico sull’affaire liste PDL ha potuto mettere in secondo piano la definitiva approvazione in Senato – il 10 marzo 2010 – dell’AS 1996 sul legittimo impedimento. Un testo che consente ai membri del governo di sottrarsi ai giudizi nei quali siano imputati.
Per l’art. 1, commi 1 e 2, costituisce legittimo impedimento a comparire in udienza nei procedimenti penali, ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p., l’esercizio delle attribuzioni previste per il presidente del consiglio e i ministri da leggi e regolamenti, nonché delle attività coessenziali alle funzioni di governo. Per il solo presidente si aggiungono le attività preparatorie e consequenziali. Per il comma 4, la presidenza del consiglio può anche attestare un impedimento continuativo, per una durata massima di sei mesi. E per il comma 6 la disciplina si applica ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della legge.
Viene una domanda. Ma dopo il lodo Alfano e la sentenza n. 262/2009 della Corte costituzionale, non siamo di fronte a un altro caso in cui il ricorso alla legge costituzionale si impone ex se, trattandosi di prerogativa?
In apparenza, la stessa sentenza 262 lo esclude, laddove afferma – in linea con precedenti pronunce – che il legittimo impedimento non dà luogo a prerogativa. Ma il trucco c’è, e si vede. Perché la Corte così conclude partendo dalla premessa che il legittimo impedimento è norma di diritto comune. Una regola egualmente applicabile a tutti coloro che si trovino nella condizione di imputato non può, ovviamente, configurarsi come prerogativa per gli imputati che occasionalmente occupino la carica di ministro o di presidente del consiglio. Ma è davvero questo il caso?
Certamente no. Per la regola generale, l’impedimento deve essere assoluto, ed è rimesso alla conclusiva valutazione del giudice. Per chi ricopre cariche elettive, la Corte costituzionale in sede di conflitto tra poteri ha confermato questo schema di fondo, solo addossando al giudice il particolare onere di farsi carico delle esigenze proprie dell’altro potere, puntualmente bilanciando di volta in volta gli interessi di giustizia e l’interesse del parlamento allo svolgimento senza intralci della propria attività (225/2001, 263/2003).
Nel testo approvato, invece, il richiamo al 420 ter c.p.p. non può nascondere la specialità della disciplina posta in essere. È una autocertificazione governativa dell’impedimento, che può persino prescindere da circostanze puntualmente ostative alla presenza in giudizio. Tanto che l’impedimento può essere attestato come continuativo per alcuni mesi (art. 1, comma 4). E qui che in specie vediamo il “sereno svolgimento delle funzioni” (art. 2, comma 1) come la condizione di spirito soggettiva della persona assai più che non l’efficace espletamento dell’attività di governo. E le attività coessenziali – e per il presidente anche preparatorie e consequenziali – diventano elementi utili a costruire un continuum temporale che nel suo complesso osta alla presenza in giudizio. Quindi, non più singole riunioni, commissioni, consigli dei ministri, preconsigli e così via. Ma un’attività di governo che nell’insieme sottrae i componenti dell’esecutivo agli obblighi che in identica situazione cadono sul comune cittadino. E tutto questo sfugge alla valutazione del giudice, che “a richiesta di parte” rinvia ad altra udienza (art. 1, comma 3). Si badi: non “può rinviare”, ma “rinvia”. Il governo, alla fine, è giudice di se stesso, e fa prevalere nel bilanciamento l’interesse dell’esecutivo sugli interessi di giustizia.
Questo non è diritto comune. È diritto speciale e derogatorio. In tal modo il legittimo impedimento diviene inevitabilmente prerogativa, in quanto si applica ai titolari di cariche di governo un regime diverso rispetto a quello vigente per il comune cittadino. Un regime assolutamente derogatorio, tanto da incidere sull’equilibrio tra i poteri e sulla posizione della magistratura come ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Tanto da chiamare in causa, come per i lodi Schifani e Alfano, la stessa parità dei cittadini di fronte alla giurisdizione. È forse pari chi è assoggettato alla potestà punitiva dello Stato e chi si sottrae ad essa, paradossalmente al fine di un “sereno svolgimento” di funzioni pubbliche? Del resto, lo stesso testo approvato si autodefinisce come transitorio, in vista di una legge costituzionale volta a ridisciplinare le prerogative (art. 2). Ma quel che sarà domani prerogativa come può non esserlo oggi?
Ancora una volta, è anzitutto sulla giustizia che il centrodestra piccona i pilastri della architettura costituzionale. Nelle ultime ore, il ministro Alfano invia ispettori presso una procura per un’indagine che potrebbe toccare titolari di cariche di governo, e attacca il CSM definendone incostituzionale l’iniziativa. Non è forse il sussulto di un potere intollerante, che vorrebbe tornare alla giustizia di un re legibus solutus, in dispregio dei valori della Costituzione repubblicana?
Lo stesso dispregio vediamo nel legittimo impedimento. Con la forza dei numeri, chi governa definisce e impone regole a proprio beneficio. Una giustizia del sovrano, per il sovrano. Ma è grave e manifesta l’incostituzionalità, insanabile lo strappo nel tessuto dell’eguaglianza e degli interessi di giustizia. Perché alla fine di questo si tratta. Non più un legittimo impedimento, ma un impedimento illegittimo alla domanda di una giustizia efficiente e davvero eguale per tutti.