Costituzionalismo e democrazia nell’alterazione degli equilibri.

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Sommario : 1.- Novità e ritorni nel nostro segmento di storia . 2.- I programmi degli anni ottanta 3 .- Un’incerta nozione di ‘presidenzialismo’ 4.- Dalla forma di governo alla forma di stato. 5- La riforma elettorale e la riduzione della ‘domanda’ : un nuovo modello di società 6.- I precedenti: lo Stato autoritario e il ‘buon senso’ istituzionale che lo ha preparato. 7.- Il costituzionalismo potrebbe salvare la democrazia?


1.- Novità e ‘ritorni’ nel nostro segmento di storia.

Il discorso su costituzionalismo e democrazia in questa fase di trasformazioni profonde traversa necessariamente diverse tematiche , dalle forme di governo alla partecipazione politica , per tentare la comprensione della storia –o meglio del segmento di storia – che stiamo vivendo. Storia non ‘nuova’, anche se le forme esteriori, le parole, i soggetti e gli strumenti talora appaiono diversi rispetto al passato o ad altri ‘luoghi’.
Il tema dei rapporti fra organi politici s’intreccia peraltro a quello dei sistemi elettorali, sicuramente non dissociabile; e, insieme, al dibattito sulla rappresentanza politica, la sua funzione, la sua natura – oggi, come in tutti i momenti di crisi, di nuovo ‘diversamente’ interpretata (1) -, il consenso e i modi della sua formazione.
E’ un percorso a prima vista poco lineare, che traversa luoghi diversi, tutti però rilevanti ai fini dell’obiettivo che pare oggi fondamentale: indagare le sorti della democrazia. Non penso a un futuro lontano, ma all’immediato, alle forme che la democrazia verrà assumendo in conseguenza di fattori di vario genere che già premono, alle limitazioni che potrà ancora subire.
Raggiungeranno, queste ultime, livelli tanto elevati da consentirne unicamente la sopravvivenza come puro ‘nome’? Potrà, la nostra, continuare a definirsi una “democrazia pluralista”(2) o assumerà decisamente la natura di una “democrazia maggioritaria”? E soprattutto – questa è la questione che più mi preme – la democrazia si accompagnerà ancora ai principi del costituzionalismo che impongono la limitazione del potere?
Questi ed altri interrogativi potrebbero riassumersi in uno solo , se lo Stato democratico di diritto sia destinato a continuare. Il ‘futuro’ prossimo può incidere su entrambe le qualificazioni dello Stato . Dallo Stato democratico , ad esempio, si potrebbe tornare a qualcosa di simile allo Stato ‘rappresentativo’, com’era la monarchia uscita dallo Statuto albertino(3); oppure lo Stato italiano, restando in qualche modo una democrazia (trasformata magari in democrazia maggioritaria), potrebbe uscire dalla forma dello Stato di diritto.
Le forme di governo e le trasformazioni che subiscono in questa prospettiva interessano assai, non solo per chiarire dove sia collocato il potere di decisione politica in ciascuna di esse – e rispondere così anche alla domanda circa il grado di partecipazione e di influenza del ‘popolo’ sulle decisioni che interessano la collettività -, ma per verificare fino a che punto tendenze recenti alla costruzione di ‘ibridi’ (attraverso manipolazioni più o meno vistose) finiscano per incidere sulla stessa forma di Stato.
Questo è in definitiva un punto d’arrivo del percorso: ribadire l’influenza delle mutazioni della forma di governo sulla forma di Stato e accertare come, attraverso alterazioni degli elementi tipici dei suoi modelli, spostando i delicati equilibri su cui si fonda, si arrivi ad incidere su di essa(4). Ad esempio, intendendo la ‘democrazia maggioritaria’ come orientata a che “l’indirizzo premiato dal voto popolare non trovi ostacoli istituzionali alla sua più completa attuazione“(5), si torna in definitiva all’idea dell’unicità e concentrazione del potere, in aperto contrasto con i principi dello stato di diritto. Si tende infatti a realizzare proprio ciò che per convinzione condivisa è “importante” evitare: che il sistema sia “utilizzabile, con esclusività, e quindi in via assoluta, da una forza sola o da un complesso organizzato di forze”(6).
Per valutare il nostro segmento di storia, è necessario andare indietro nel tempo: di poco più d’un ventennio dapprima, di oltre un ottantennio poi. Un doppio percorso a ritroso, dunque: allo scopo di risalire al punto d’origine di soluzioni, tendenze, realtà del momento attuale, l’uno; per misurarne appieno i rischi, l’altro.

2.- I programmi degli anni ottanta.
Rivedere il punto iniziale del percorso tortuoso che ha condotto l’ordinamento costituzionale italiano alla incerta situazione attuale – incerta, intendo, negli esiti – guardare a come e perché un certo processo si è messo in moto, può servire a comprendere meglio la realtà che viviamo, e ad illuminarci in qualche modo sulle direzioni del suo movimento.
Per gli eventi meno lontani è da guardare ai primi anni ottanta: il dibattito sul Presidente della Repubblica, in particolare sulla sua elezione, riprende quota. Non che fosse un discorso nuovo: il mutamento del ruolo dell’organo a capo dello Stato – e dunque il mutamento della forma di governo- era stato costantemente invocato dalla destra in varie forme e modi; la novità di quel momento è costituita dal fatto che sia stato ripreso vigorosamente da sinistra, e precisamente dai socialisti.
Per quale ragione? Con quali intenti?
La domanda è più interessante considerando che la presidenza della Repubblica, di per sé , non era oggetto di discussione che, anzi (fino allora almeno) poteva dirsi sicuramente l’istituzione meno soggetta a critiche.
La risposta è resa complessa dalla presenza di obiettivi diversi: alcuni apparenti ma fortemente propagandati; altri effettivi ma non (o non interamente) dichiarati. Saranno proprio questi ultimi a segnare profondamente il nostro presente.
La proposta ricorrente era l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica che, si diceva, non solo avrebbe così acquistato un’autorevolezza maggiore, ma sarebbe divenuto maggiormente indipendente dai partiti (7). Fra gli obiettivi apparenti questo era il più sottolineato, benché falso e smentito dalla storia nella stessa Francia che aveva visto subito sconfitta l’illusione di De Gaulle di poter essere il “Presidente di tutti “, il Presidente dei francesi al di là dei partiti ; e dovette presto accorgersi, invece, che per essere eletto doveva appoggiarsi alla forza di un partito(8). Del resto la politicizzazione della figura presidenziale è l’effetto inevitabile dell’elezione; le candidature contrapposte sostenute da schieramenti in lotta per la vittoria gettano necessariamente i candidati nell’arena politica.
Uno degli obiettivi reali di queste proposte è evidente(9): tentare, attraverso l’aggancio all’elezione del Presidente della Repubblica, di semplificare il sistema politico. Dalla necessità per i diversi partiti di aggregarsi in due raggruppamenti ai fini dell’elezione presidenziale avrebbero potuto prender vita due formazioni contrapposte: e, dunque , il bipolarismo e l’alternanza.
Questo risultato sperato ma eventuale, ne avrebbe comportato dunque un altro che era invece sicuro e temibile: la trasformazione del Capo dello Stato in un leader politico contro gli schemi del sistema parlamentare, la fine del suo ruolo neutrale e l’eliminazione della presidenza come istituzione di garanzia (10). Al di là dell’alterazione della forma di governo e delle relazioni fra gli organi costituzionali, l’elezione diretta induce inoltre una trasformazione sostanzialmente più grave: caricando il vincitore di una nuova forza, anche suggestiva, alimenta il mito del “Capo” e personalizza il potere.
Ho preso le mosse dagli anni ottanta perché quelle idee nel tempo hanno prodotto frutti come ora ben si vede. Lì stanno le radici di un discorso che in verità non si è mai interrotto, materializzandosi nelle diverse “bicamerali”, e continua tuttora con la martellante insistenza sulle riforme. Si può facilmente constatare come oggi, nonostante l’apparente fallimento di ogni tentativo esplicito e formale di riforma, gli intenti cui sin dall’inizio quei tentativi si ispiravano siano divenuti realtà, sia pure in forme diverse, non tutte previste e volute. Ma i movimenti impressi a un sistema delicato e complesso sfuggono facilmente al controllo: alterazioni anche lievi degli equilibri politici e costituzionali possono condurre ad esiti assai difformi dagli intenti; troppe sono le variabili che vi concorrono.
Quali effetti si sono prodotti fin qui? La presidenza della Repubblica è uscita indenne da quei tentativi di riforma, e del resto, come ho subito detto, il vero obiettivo non era il suo mutamento, quanto piuttosto i risultati che ne potevano derivare. E alcuni di quei risultati, invero, si sono egualmente prodotti; benché la posizione del Capo dello Stato sia rimasta formalmente invariata, si è diffusa e consolidata la ‘personalizzazione’ del potere versandosi su altre istituzioni monocratiche; e si è pure realizzata (mediante la riforma delle leggi elettorali) la ‘semplificazione‘ artificiosa del sistema politico, o meglio, la sua artificiosa bipolarità . Con le conseguenze che si sapevano, e da molti si volevano, che già incidono sul livello di democraticità del sistema: alcuni interessi sono rimasti senza voce, altri, pure significativamente rappresentati, senza più forza contrattuale. Gli interessi forti, viceversa, sono divenuti invincibili. Da democrazia a plutocrazia ,come qualcuno ha detto?

3.- Un’incerta nozione di ‘presidenzialismo’.
Quanto alla forma di governo è interessante il tipo di soluzioni cui alla fine si pensava di giungere che, muovendo da un’ incerta nozione di presidenzialismo – espressiva dell’intento generico di rafforzare un organo monocratico di vertice – oscillavano tra cancellierato elezione diretta del Capo dello Stato o del Premier ; e, ancora, fra governo presidenziale e semipresidenziale mettendo disinvoltamente insieme come equivalenti due forme di governo ispirate a concezioni nettamente diverse: espressione,la prima, del costituzionalismo liberale e dunque fondata sul principio della separazione dei poteri (checks and balancies) del tutto estraneo,invece, al semipresidenzialismo orientato piuttosto al rafforzamento dell’esecutivo e poco attento a limitarlo.
All’inizio, da parte almeno dei riformatori più animosi e meno preparati, veniva proposto un presidenzialismo immaginario, assai difforme dal modello concreto: s’ignoravano i limiti pesanti all’azione del Presidente e della sua amministrazione. Poi com’è noto la Bicamerale alla fine concluse per una forma ambigua di semi-presidenzialismo: l’unico davvero scartato , quando se ne conobbe meglio l’essenza, fu il governo presidenziale. Il gioco di freni e contrappesi essenza del sistema nord americano, la forza del Congresso, il potere dei giudici (11) fecero comprendere quanto il Presidente negli Stati Uniti in realtà possa essere limitato; e che, comunque, il potere di decisione non sta interamente (e sempre) nelle sue mani.
L’esperienza di Clinton ha mostrato bene l’impotenza presidenziale di fronte all’opposizione delle Assemblee : per chiarirsi le idee basterebbe ricordare la questione della riforma sanitaria con le vicende che l’accompagnarono, e, ancor più, l’abbandono di quello stesso progetto nella campagna per la rielezione(12). Egualmente significativo ed illuminante è il consenso ricevuto dalla politica di riarmo del presidente Bush, tutta giocata sul consenso aggregato in modo pieno dopo gli eventi dell’11 settembre. Il Congresso – che aveva negato a Clinton i fondi per la sanità – li concede a piene mani per il riarmo ad un Presidente discusso e di scarso prestigio che, senza quei tragici fatti e senza quella spinta emotiva, sarebbe rimasto traballante e contestato (anche per le peculiarità della sua elezione). In quel consenso , e nei discorsi che hanno accompagnato le guerre – l’Afganistan e l’Irak – riappare la tendenza del potere a imporsi e ad aggregare consensi scatenando la paura, unendo tutti contro un percolo comune e contro un ‘nemico’ la cui costruzione è essenziale quanto la costruzione della figura del Capo. Nell’identificazione “cesaristica” le masse da un lato sperano di liberarsi dalle loro difficoltà grazie ad una singola persona, dall’altro fanno risalire quelle difficoltà ad alcuni, precisamente individuati: in tal modo il processo storico viene personificato(13). Il che dimostra come i rischi conseguenti all’enfatizzazione del ‘Capo’ siano sempre presenti, persino in un sistema fortemente bilanciato.
Ma nell’ordinamento degli Stati Uniti esistono dei contrappesi non solo formali. Il potere di decisione non sta soltanto nella Casa Bianca; l’orientamento dei membri del Congresso è altrettanto decisivo e, dunque, quello dei loro elettori (cui essi sono certamente sensibili) e di un’opinione pubblica non completamente manipolata. In tempi più o meno lunghi in quel sistema la lucidità e la critica finiscono per ritornare. Già ora si vedono i segni del dissenso; la posizione di Bush non è più così sicura dopo alcune constatazioni e rivelazioni(14), e la campagna elettorale gli vede contrapposto un candidato che fin dall’inizio fa della guerra in Irak il principale argomento di attacco.
Abbandonato subito il presidenzialismo, dalla Commissione bicamerale esce dunque la proposta di un governo semi-presedenziale “temperato” – viene precisato – ripetendo che il semi-presidenzialismo è formula aperta, in grado di assumere configurazioni diversificate non necessariamente coincidenti col sistema della V Repubblica con esiti comunque lontani da quello maggiormente temuto: l’autoritarismo(15).
Resterebbe da vedere se, ed in quale misura, il diverso atteggiarsi dei sistemi pur nell’uniformità della formula sia dovuto alla diversità dei poteri attribuiti all’organo eletto -quindi a specificità di ordine normativo- o sia piuttosto il portato di altri elementi, connessi alla tradizione, alla storia ,alla configurazione del sistema politico,ossia a specificità di ordine fattuale. Se così fosse, sarebbe il caso di riflettere attentamente sulle nostre, tanto più che il sistema politico resta sempre determinante: per il semi-presidenzialismo basta pensare alla diversa situazione di un Presidente come Giscard, esponente di un gruppo minoritario della maggioranza, rispetto a quella di Presidenti appartenenti al partito maggiore dell’alleanza di governo(16). Mentre per il presidenzialismo non va dimenticato che il più significativo limite al potere del Capo dell’esecutivo americano (oltre che dalle norme) deriva dal comportamento degli elettori che può portare alla dissociazione delle maggioranze con un risultato del tutto in linea col principio della separazione dei “poteri” che acquista maggiore sostanza ogniqualvolta ad una presidenza repubblicano si contrappone un Congresso a dominanza democratica o viceversa. Dissociazione non casuale, ma voluta dagli elettori i quali, talora nello stesso giorno, votano in modo differenziato per l’una e l’altra istituzione al fine preciso di limitare e frenare il Presidente e la sua amministrazione (ancora una volta le due presidenze Clinton risultano particolarmente illuminanti).
In Italia un simile pensiero spaventa e lo si rifiuta.

4.- Dalla forma di governo alla forma di stato.

Scartato il modello presidenziale, l’intento di rafforzare comunque l’esecutivo personalizzandolo e liberandolo da ogni impaccio, orientò verso forme in cui il sistema di limiti fosse più incerto e sfumato. In tali confuse aspirazioni sta il germe dell’ibrida forma che oggi si propone: poiché nessuno dei modelli esistenti assicurava la ‘libertà’ auspicata(17), si mise mano ad una costruzione nuova, meglio adatta allo scopo.
L’obiettivo è governare senza i limiti e freni del costituzionalismo ,ossia fuori dalla forma dello stato di diritto. E’ il pensiero della maggioranza di oggi , ma anche di ieri o di una sua parte: basta pensare al modello di governo regionale disegnato dalla riforma del titolo V della Costituzione che consente a un unico organo – il Presidente della Regione – di tacitare non solo la minoranza, ma l’intero Consiglio regionale.
Avevo già espresso forti dubbi sulla compatibilità della forma di governo disegnata dalla legge costituzionale n.1/1999 con la nostra forma di stato; di fronte al Progetto governativo ora in discussione i dubbi aumentano. L’esigenza che sta alla base dello Stato di diritto – porre limiti al potere ed evitarne la concentrazione – è qui negata in radice; negata è l’essenza stessa del ‘costituzionalismo’ che esige di sottoporre il potere a regole ad evitarne l’esercizio arbitrario. Al di là delle diverse applicazioni che il principio liberale della separazione dei poteri ha ricevuto nei diversi luoghi e nelle diverse fasi storiche, il significato essenziale ed attuale, come sottolinea Vezio Crisafulli, è sintetizzabile nell’esigenza che chi fa le norme sia diverso da chi le applica. Nemmeno questo rimane. Nella soluzione ora prefigurata chi è al vertice del governo (regionale e statale) è in grado di determinare – o, addirittura, di imporre – i contenuti stessi della legislazione (18).
Già la l. cost. n.1/1999 prevede per gli statuti regionali un ‘tipo’ di rapporto fra gli organi politici che, assumendo frammenti dai diversi modelli, mette insieme il massimo di potere non limitato e interamente giocato sull’autorità di una persona in cui tutto si concentra, secondo un modello che, fra l’altro, non ha precedenti nelle esperienze del regionalismo (o federalismo) europeo(19). Ma ancor più grave è il Progetto governativo di riforma costituzionale ora all’esame del Parlamento.
La maggior gravità della revisione costituzionale progettata non deriva soltanto dalla diversità del livello regionale rispetto al livello statale sotto il profilo politico, ma soprattutto dalle ulteriori ‘novità’, sicuramente peggiorative, che lo caratterizzano, rendendo più evidenti i rischi per il ‘costituzionalismo’ e la democrazia(20).
Affinché i limiti funzionino e siano efficaci è indispensabile che le istituzioni di vertice siano realmente indipendenti: l’indipendenza è una condizione prima, senza la quale ogni soluzione normativa è vana. Se un organo è posto in grado di prevalere sugli altri in modo assoluto(21), se alla fine è in grado di disporre della sorte degli altri, si può parlare di un potere concentrato nelle sue mani. Lo Stato di diritto non è solo un nome: se ne vengono alterati gli essenziali elementi è necessario introdurne altri che riconfigurino l’assetto dei poteri ricostituendo l’equilibrio.
Ho già sottolineato in varie sedi che le forme di governo normalmente considerate dagli studiosi anche a fini di comparazione – parlamentare, presidenziale, direttoriale, assembleare – sono le forme di governo compatibili con la nostra forma di Stato e rientrano tutti nel quadro dello Stato democratico di diritto; i modelli conosciuti sono studiati in modo, appunto, da porre limiti al potere. Rispetto alle tipizzazioni astratte le forme di governo dello Stato di diritto in alcuni tratti possono sicuramente variare ma non fino al punto da risultare alterate negli elementi di equilibrio essenziali a mantenerne i valori.
Viceversa, già nella forma disegnata come modello per gli statuti, troviamo, come dicevo, singoli istituti presi dall’una e dall’altra forma – presidenziale e parlamentare – in modo da neutralizzarli nella loro forza limitante: è prevista l’elezione popolare del Presidente ma non il sistema di freni e contrappesi che caratterizza il modello statunitense; il Consiglio regionale è del tutto privo dei poteri (e del preso politico) del Congresso americano.
Della forma di governo parlamentare è mantenuto il tratto maggiormente caratteristico, la possibilità di sfiduciare il Governo. Ma un’aggiunta, la conseguenza dell’automatico scioglimento dell’Assemblea, ne travolge il normale significato. Se per sostituire l’esecutivo l’Assemblea è costretta a mettere in gioco sé stessa, lo strumento di cui essa dispone per attivare la responsabilità politica del governo è reso praticamente inoperante. Non vedo alcuna analogia (se non puramente apparente) con la forma di governo parlamentare. Appare subito la subordinazione, per non dire la mortificazione dell’Assemblea; un evidente squilibrio che dev’essere necessariamente corretto. La stessa maggioranza rischia di avere un ruolo marginale, per non parlare della minoranza contro il principio base del sistema: giova ancora ripetere che la democrazia della Costituzione del 1948 non è una democrazia maggioritaria, ma una democrazia pluralista(22).
Repubblica democratica è una formula che impone la valutazione della rappresentanza prima ancora dei meccanismi diretti a rendere blindato l’esecutivo, meccanismi di rafforzamento ammissibili solo se e fino a che non si scontrino col principio democratico, cardine del sistema; e sicuramente l’elezione popolare non basta a fare di un organo monocratico un ‘rappresentante’(23). Democrazia e rappresentanza, insieme al rispetto delle regole dello Stato di diritto, costituiscono limiti insuperabili.
A livello regionale il Presidente è tutelato fortemente nel suo mandato; se vuole, può costruire la sua Giunta con qualunque maggioranza, può cambiare gli assessori, può appoggiarsi a formazioni diverse formando coalizioni che gli elettori non avevano immaginato. Più che un meccanismo anti-ribaltone(24)è un meccanismo pensato al solo scopo di tenere in piedi il Presidente, nel segno della personalizzazione della politica, della personalizzazione del potere: tendiamo di nuovo a riprodurre la situazione del Capo(25). Il modello proposto dalla legge costituzionale n.1/99 è tutto strutturata sulla personalizzazione del potere e su un potere ‘irresponsabile’, perché, in definitiva, il Presidente della Regione non risponde a nessuno(26).
Allo stesso modo non risponde a nessuno il Primo ministro nel Progetto di riforma costituzionale. Trasposto a livello statale e peggiorato, l’ibrido modello muove da una non dissimile ispirazione, dovendo naturalmente assumere una configurazione diversa per il dualismo di organi di vertice, assente viceversa in Regione. La presenza del Capo dello Stato, distinto dal Capo dell’esecutivo articola diversamente i rapporti fra gli organi senza alterarne la sostanza. La concentrazione del potere è, qui, nel Primo ministro che non trova contrappesi di alcun genere in grado di limitarlo: non nel Parlamento praticamente tacitato, non nel Presidente della Repubblica cui viene tolto espressamente ogni potere di partecipazione non puramente formale ad atti di decisiva importanza come lo scioglimento anticipato, lasciato ormai nell’esclusivo dominio del Primo Ministro(27). Data la progettata riconfigurazione della Corte costituzionale, prevedibilmente verrà ad attenuarsi persino il rigore del suo alto controllo. Di freni e contrappesi non si vede neppure l’ombra: se si aggiunge la progettata riforma del potere giudiziario, ben si comprende che il cerchio veramente si chiude. Per non parlare del “quarto potere”: l’informazione, la libera stampa, il pluralismo radiotelevisivo non sono di certo assicurati!(28). E non è questo un discorso da poco dato il legame strettissimo, sempre sottolineato, fra libertà di manifestazione del pensiero e democrazia(29).

5.- La riforma elettorale e la ‘riduzione’ della domanda: un nuovo modello di società.
I discorsi sulle riforme, in nome della semplificazione dei processi decisionali, della ‘governabilità’ di craxiana memoria, riguardavano essenzialmente la parte organizzativa della Costituzione: forma di governo, in particolare ruolo ed elezione del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio. Vari segnali lasciavano però intendere che in realtà da alcuni si mirasse ad altro, o, quanto meno, anche ad altro: ad uscire addirittura da questa Costituzione e dai suoi valori(30). Ben lo dimostra il richiamo ad un “nuovo patto nazionale” – da sostituire a quello nato dalla Resistenza – contenuto nel messaggio inviato alle Camere il 26 giugno ’91 dall’allora Presidente Cossiga (che della Costituzione doveva essere il ‘garante’). Quelle intuizioni trovano ora quotidiana conferma.
In realtà un nuovo modello di società si propone, con due obiettivi intrecciati: realizzare una forte concentrazione del potere privilegiando il momento della decisione su quello della rappresentanza; ottenere una drastica riduzione delle domande sociali. Dal momento che i bisogni che reclamano soddisfazione sono troppi in rapporto alle risorse, per non toccare interessi consolidati (o in via di consolidarsi) non resta che eliminarne alcuni in radice, impedendo loro addirittura di emergere, di essere rappresentati ed espressi: la semplificazione delle domande attraverso la riduzione dei canali di accesso alle sedi della decisione è in definitiva la vera sotterranea proposta(31).
Il mutamento del sistema elettorale, frutto della martellante campagna di propaganda a favore della cosiddetta “democrazia immediata”, ha portato inevitabilmente a quella riduzione della domanda che da tempo si auspicava. Il sistema intero si è ri-orientato verso posizioni decisamente moderate.
L’effetto, ben noto, è efficacemente descritto da illustri autori del passato(32): affinché si realizzi effettivamente l’alternanza, la distanza fra i due poli deve necessariamente ridursi, per consentire all’elettorato – o perlomeno alla sua fascia mediana – di spostarsi dall’uno all’altro in successive elezioni. Le posizioni, dunque, sono costrette ad avvicinarsi, a sfumare la contrapposizione al fine di catturare l’elettorato avversario; quanto più gli schieramenti si estremizzano, tanto più risulteranno perdenti. Perciò sono costretti a smorzare i toni (del contenuto politico, intendo, non quelli dello scontro verbale), ad adattare i programmi agli orientamenti del folto gruppo degli elettori incerti che rendono quell’alternanza possibile.
Le posizioni estreme, orientate chiaramente in un senso o nell’altro, non sono premiate ma anzi penalizzate: gli elettori ‘mobili’ non riescono in tal modo ad essere conquistabili. Non a caso è sparito il MSI; non a caso è sparito il PCI: l’effetto era previsto e inevitabile.
E’ una corsa verso il centro come ben dimostrano (da noi) gli atteggiamenti dei partiti che all’interno dei due contrapposti poli ambiscono a definirsi “il centro del centro”.
L’elezione maggioritaria ha sempre effetti centripeti sia sul sistema politico intero sia sui singoli schieramenti, all’interno dei quali vengono sacrificate le componenti estreme: già di per sè la scelta maggioritaria conduce a soluzioni moderate .
Le domande più chiare e politicamente caratterizzate sono così espunte dall’area della rappresentanza. Un primo risultato sicuro è dunque l’arretramento rispetto a posizioni politiche più avanzate, un generale effetto ‘moderato’ che pervade tutto il sistema e tende a differenziare sempre meno i due gruppi che si contendono il potere.
La riforma elettorale in senso maggioritario, pur rispondendo anche ad esigenze reali e condivise, si colloca in questo quadro. La semplificazione della scena politica rafforza il momento dell’autorità e riduce l’area della rappresentanza, concentra il potere di decisione. La gestione delle risorse – una volta neutralizzate le minoranze – sarà così interamente nelle mani di chi tale potere detiene. Esigenze nuove verranno soffocate sul nascere, domande sociali gravi e pressanti potranno essere ignorate e bisogni primari rimanere insoddisfatti.
E’ dunque un quadro complesso, con un percorso che passa essenzialmente – anche se non esclusivamente – per due operazioni in grado di mutare la natura del sistema: legislazione elettorale e forma di governo. Alla riduzione della domanda attraverso la concentrazione della rappresentanza che riduce le voci nelle sedi decisionali, corrisponde la riduzione delle sedi decisionali stesse attraverso la concentrazione del relativo potere.
Con le riforme già introdotte e da introdurre si va dunque ben oltre la modifica della forma di governo: anche se si parla sempre della seconda parte della Costituzione in gioco è la forma di Stato.
E’ vero che i ‘modelli’ di organizzazione dello Stato apparato funzionano in modo diverso, e dunque con diversi esiti, in relazione ad una molteplicità di fattori, dal sistema politico alla solidità delle tradizioni democratiche(33); la storia di ciascun Paese non è di certo un elemento trascurabile. Non è inutile, pertanto, guardare alla nostra (34).

6.- I precedenti : lo Stato autoritario e il ’ buon senso’ istituzionale che lo ha preparato.
Veniamo ora al ritorno indietro che, con un salto più lungo, ci conduce abbastanza lontano e precisamente agli anni venti del secolo scorso facendoci ricordare che l’unico modello nuovo ed originale elaborato in Italia nel Novecento (e poi esportato altrove) è lo Stato autoritario. A questo, in qualche modo, si tende costantemente a ritornare.
Diffido delle formule tanto spesso usate – democrazia immediata e simili – perché, in forma certamente attenuata, mi ricordano qualcosa: il non breve periodo del fascismo
Lì il ripudio della sovranità popolare era dichiarato: la partecipazione dei cittadini veniva sostituita dalla ‘mobilitazione’ delle masse‚ l’elezione ridotta a semplice espressione di consenso nei confronti di un sistema di Governo.
Democrazia plebiscitaria forse? Nemmeno questo, la democrazia era del tutto fuori questione: “La formula di apparenza plebiscitaria non deve trarre, tuttavia, in inganno sul reale carattere dell’istituzione” – precisa subito Alfredo Rocco – “non è in omaggio ad una supposta sovranità dell’elettore che si chiede il suo consenso…, ma per saggiare il suo stato d’animo, per mantenere cioè sempre meglio il contatto fra lo Stato e le masse”(35). Si tratta insomma di una forma di sondaggio .
Resta da chiedersi come si sia arrivati a quell’esito. Essenziale fu la prima riforma elettorale, la legge Acerbo, senza la quale il cammino del regime sarebbe stato assai meno agevole(36) , riforma le cui radici – non va dimenticato – sono però più lontane.
E’ interessante richiamarle anche perché alcuni discorsi di allora, benché ispirati ad intenti sicuramente disomogenei rispetto agli esiti finali cui condussero più tardi le leggi elettorali del fascismo, riecheggiano ragionamenti di oggi che a prima vista possono apparire non del tutto destituiti di fondamento. Anzi, in qualche modo convincenti.
In quel buon senso istituzionale, in quel diffuso consenso verso soluzioni favorevoli al rafforzamento del potere (senza preoccuparsi dei ‘costi’) può trovare almeno parziale risposta uno degli interrogativi che inquietano chi riflette oggi sull’affermarsi del fascismo.
Risalendo indietro, l’esautoramento sostanziale del Parlamento dovuto inizialmente alla guerra aveva posto come obiettivo a Giolitti l’uscita dalla legislazione di emergenza e il rafforzamento del ruolo e della centralità dell’organo. Ma la frammentazione delle forze politiche rendeva assai difficile predisporre una maggioranza di governo, sicché , appena introdotta la proporzionale, subito dopo le elezioni del 1919 ci si chiedeva come aggirarla “senza venir meno alla forma della norma scritta”(37) . Da un lato si tentò di rinsaldare la rappresentanza liberale alla Camera attraverso la definizione dei confini dei collegi, dall’altro Giolitti stesso pensò all’idea dei blocchi nazionali per contrapporsi ai partiti di massa, il che portò ad una apertura a destra dei liberali nei cui ‘blocchi’ furono inclusi i fascisti che nelle elezioni del 1921 ottennero così una trentina di deputati. Non è irrilevante sottolineare che neppure un mese dopo il governo Giolitti cadde.
Le proposte di modifica del sistema elettorale erano esplicite e condivise da esponenti di gruppi diversi alla ricerca della ‘governabilità’ attraverso la forzatura dei sistemi elettorali. Non può dunque stupire che il fascismo, arrivato al governo, proponesse subito la riforma della legge elettorale che già in precedenza era stata sostanzialmente auspicata(38).
Una prima spiegazione del consenso alla riforma elettorale è dunque l’intento comune alle forze tradizionali ed al fascismo: il rafforzamento dell’esecutivo, contro la frammentazione parlamentare. Nel presentare alla Camera il progetto di riforma elettorale Mussolini dice: “Tra le molte concezioni della rappresentanza…una cosa sola va rigidamente affermata: che la massa dei cittadini…intende che l’Assemblea eletta sia la più capace a costituire un Governo: un Governo nella sua più alta ma anche più concreta significazione di Istituto atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le molteplici questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di tendenze e di indirizzi”. L’elezione, dunque, viene da lui intesa “più come atto di selezione del Ministero che come definizione della rappresentanza,il cui ruolo è destinato a diventare del tutto secondario” (39).
Non servono le gravi parole di Amendola(40), né il richiamo di Turati ai principi cardine della vita civile: riconoscere alle maggioranze effettive e non artificiose il diritto a prevalere nello Stato rispettando il diritto delle minoranze a diventare maggioranza “con le armi della persuasione e della civiltà”. Il solo Sturzo aderisce all’iniziativa di Turati, riconoscendo in questa battaglia “la trincea definitiva”. Turati precisa già allora che quell’evento, la legge elettorale , non prepara la riforma costituzionale, ma è la riforma. Nella Commissione dei diciotto, egli presenta pertanto un ordine del giorno di rigetto del progetto di legge che “sopprimerebbe la conquista irrevocabile del suffragio universale; e condurrebbe – oltre che alla legalizzazione del colpo di Stato – a istituire sotto le parvenze legali, il colpo di Stato in permanenza”. Piena è la consapevolezza del potere che, approvando quella legge , si affidava al fascismo, divenuto da quel momento padrone della Costituzione della quale, in sostanza, poteva disporre. Ed anzi – anche questo va sottolineato – il fascismo in quelle condizioni avrebbe potuto disporre della Costituzione anche se, come ora, fosse stata rigida: la maggioranza che la legge Acerbo assicurava – due terzi dei seggi – era in grado di rimuovere ogni limite, intralcio o barriera.
Appena il progetto, con l’avallo della maggioranza della Commissione, arrivò in Aula, giunse la notizia dello dimissioni (forzate) di Sturzo dalla segreteria del partito popolare. A nulla valse il tentativo di Gronchi di riportare la discussione sulla modifica del progetto in due punti essenziali: il quorum che fa scattare il premio di maggioranza e l’entità del premio; né altre voci contrarie – in particolare quelle di Labriola e di Amendola – valsero ad evitare il passaggio della legge.
Un interesse particolare presentano, oggi, gli argomenti di allora, che sempre ritornano: un popolare, Meda, si espresse a favore della legge elettorale, considerata la “situazione nazionale e la conseguente opportunità di non contrastare il governo nell’opera di revisione degli istituti politici”; e se alcuni membri di quel partito, tra i quali lo stesso De Gasperi, dissentono, altri plaudono: i popolari erano davvero divisi e divisi rimasero nella votazione. Ad essi si rivolse Turati: “Voi continuate a baloccarvi, signori del Governo, in quella quadratura del circolo che è l’abbinamento del consenso e della forza. Or questo è l’assurdo degli assurdi. O la forza o il consenso, il consenso non ha bisogno della forza, a vicenda le due cose si escludono”(41).
Ancor più interessano alcuni argomenti addotti in Senato da persone di grande studio ed intelletto favorevoli alla legge. L’opposizione, in Senato, naturalmente fu scarsa; gli interventi furono spesso favorevoli considerando la legge necessaria al funzionamento del sistema rappresentativo. Vale la pena ricordare le parole di Gaetano Mosca, che impressionano per il loro riecheggiare nel tempo attuale: la proporzionale “impedisce che si formi quella maggioranza forte ed omogenea che è necessaria affinché il sistema rappresentativo proceda normalmente e rinforza inutilmente le minoranze, l’ufficio delle quali consiste nel controllare l’opera del Governo e non già nel parteciparvi“. Pertanto “il merito principale di questa legge consiste nell’avere essa adottato un meccanismo che dà un grosso premio a quella parte politica che nelle elezioni ha raccolto la maggioranza relativa dei voti, poiché solo in questa maniera il sistema rappresentativo potrà rettamente funzionare e di ciò saranno lieti coloro che propugnano la sua durata”(42).
La realtà s’incaricò di smentire tali ottimistiche previsioni: anziché la “durata” del sistema rappresentativo (che s’intendeva rafforzare) ne giunse ben presto la fine.

7.- Il ‘costituzionalismo’ potrebbe salvare la ‘democrazia’?
Limitando la considerazione alle vicende del nostro Paese, dove il disprezzo delle regole e dei limiti dello Stato di diritto è di giorno in giorno più grave e frequente, democrazia e costituzionalismo appaiono parimenti a rischio. La limitazione del potere (ossia il senso profondo dello Stato di diritto) è già fortemente incrinata. L’equilibrio complessivo , basato sul pluralismo politico e quindi su un sistema di differenziazione assai articolato e complesso di garanzie pensate in rapporto ad un pluralismo interno alle stesse istituzioni, oggi è venuto meno(43).
Una situazione siffatta vanifica nella sostanza gli obiettivi del costituzionalismo, riproducendo la concentrazione di potere che esso voleva distruggere: concentrazione di potere politico, economico, e se non si pongono regole adeguate, del potere d’informazione oggi determinante(44). A prescindere infatti da altre considerazioni, nella società delle comunicazioni di massa e delle più elevate tecnologie a disposizione del potere politico, l’esito totalitario viene comunque considerato (Fisichella) uno dei rischi “immanenti allo sviluppo della società contemporanea”.
Si entra così inevitabilmente in una prospettiva più ampia, che coinvolge considerazioni generali sulle quali volutamente non mi sono soffermata per limitarmi alle vicende del nostro ordinamento. In tale prospettiva globale la preoccupazione si aggrava.
A livello planetario situazioni complesse, ben note e indagate, aprono interrogativi inquietanti che riguardano in primo luogo la democrazia, il cui diffondersi a parole ha corrisposto al suo terribile arretramento; da varie parti e per diverse ragioni se ne mettono da tempo in luce i rischi(45).
Gli anticorpi?
Già Franz Neumann li indicava nella cultura, nella diffusione del pensiero critico a difesa delle opinioni minoritarie e diverse, nell’impegno contro il conformismo di massa(46) anche da parte della scienza. Un’opinione pubblica attenta ed avvertita è il primo rimedio. Infatti, ricorda Mario Cattaneo riprendendo Karl Jasper (47), il totalitarismo assume sempre nuove sembianze, “fa il contrario di quello che dice, apre bocca non per fornire informazioni, ma al solo scopo di ipnotizzare, sa sviare l’attenzione, insinuare, intimidire, ingannare”. L’antidoto più forte è la capacità di giudizio, la diffusione degli strumenti di conoscenza dei fatti: la parola risorge come strumento essenziale di comunicazione, d’incontro, di stimolo a riflettere criticamente, a valutare in modo cosciente e autonomo. Ciò anche perché si attenui il carattere acritico, conformista e disgregato che i sociologi attribuiscono alla società di massa.
Forse un antidoto sta già nell’emergere di un nuovo soggetto collettivo, di un movimento che traversa gli Stati e stabilisce legami tra esseri umani al di là delle frontiere, usando proprio i nuovi mezzi di comunicazione che possono, dunque, costituire non solo un pericolo, ma anche un elemento positivo di opposizione.
Ogni voce può pesare, se si unisce alle altre. Nel costituzionalismo, infatti, sta forse la più forte speranza di evitare che l’elezione maggioritaria comporti una confisca totale del potere, in nome di un falso concetto di ‘democrazia’ oggi sempre più diffuso.
se si elegge chi non crede nella democrazia? si chiede Ralf Dahrendorf, trovando, appunto, nello Stato di diritto l’unica possibile risposta. Infatti “è assai più difficile usare lo stato di diritto per abbattere la legalità che servirsi del voto popolare contro la democrazia”(48).

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