La Corte ha emesso in merito un’ordinanza di restituzione degli atti al giudice per ius superveniens (introduzione della nuova fattispecie criminosa di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato»)”.
Di seguito l’ordinanza.
ORDINANZA N. 277
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
– Francesco AMIRANTE Presidente
– Ugo DE SIERVO Giudice
– Paolo MADDALENA ”
– Alfio FINOCCHIARO ”
– Alfonso QUARANTA ”
– Franco GALLO ”
– Luigi MAZZELLA ”
– Gaetano SILVESTRI ”
– Sabino CASSESE ”
– Maria Rita SAULLE ”
– Giuseppe TESAURO ”
– Paolo Maria NAPOLITANO ”
– Giuseppe FRIGO ”
– Alessandro CRISCUOLO ”
– Paolo GROSSI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), promossi con ordinanze del Tribunale di Ferrara del 15 luglio 2008, del Tribunale di Latina del 1° luglio 2008 e del Tribunale di Livorno del 9 luglio 2008, rispettivamente iscritte ai nn. 308, 324 e 411 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42, 44 e 53, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 luglio 2009 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.
Ritenuto che il Tribunale di Ferrara in composizione monocratica, con ordinanza del 15 luglio 2008 (r.o. n. 308 del 2008), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma e 27, primo e terzo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica);
che il rimettente procede, con rito direttissimo, nei confronti di un cittadino straniero imputato del reato di illecita detenzione di stupefacenti, previsto dal comma 1-bis dell’art. 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza);
che detta imputazione comprende la circostanza aggravante «dello status di soggetto illegalmente presente nello Stato», contestata in applicazione della norma oggetto di censura;
che, secondo il giudice a quo, la nuova previsione circostanziale, in ragione della sua ampiezza («se il fatto è commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale»), comprende qualunque violazione delle disposizioni che regolano l’ingresso e la permanenza dello straniero nel territorio dello Stato;
che, nel caso di specie, la circostanza sarebbe stata contestata con fondamento, posto che l’imputato, non munito di permesso di soggiorno, avrebbe ammesso la propria condizione di «clandestino», privo di documenti;
che, a parere del rimettente, la previsione aggravante sarebbe fondata esclusivamente sullo status del reo, ispirandosi ai canoni propri del «diritto penale d’autore», tanto che non verrebbe richiesta, per la sua applicazione, alcuna verifica di connessione tra la condizione soggettiva dell’interessato e la condotta penalmente sanzionata;
che il corrispondente aumento di pena non dipenderebbe, in particolare, dalla maggiore gravità del reato o dalla più spiccata pericolosità dell’autore, cioè dai fattori che giustificano altre circostanze inerenti ad una condizione personale del colpevole, come la recidiva o la latitanza;
che la previsione censurata, secondo il Tribunale, non si fonda neppure sul peculiare disvalore connesso allo sfruttamento d’una condizione soggettiva che faciliti la realizzazione dell’illecito, come avviene per ulteriori circostanze aggravanti (è citato ad esempio il disposto del numero 9 dello stesso art. 61 cod. pen., che concerne i pubblici funzionari od i ministri di culto, quando il reato sia da loro commesso con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alle rispettive qualità);
che la norma censurata violerebbe dunque, ed anzitutto, il principio del «fatto materiale» colpevole quale presupposto necessario della responsabilità penale, desumibile dal secondo comma dell’art. 25 e dal primo comma dell’art. 27 Cost.;
che sussisterebbe inoltre una violazione dell’art. 3 Cost., nel duplice senso del difforme trattamento sanzionatorio introdotto per condotte materiali tra loro identiche, e dell’ingiustificata parificazione, sul piano della pena, tra la posizione del delinquente primario (quale può essere lo straniero che abbia solo violato le disposizioni amministrative sul soggiorno) e quella del criminale recidivo o latitante;
che la fattispecie censurata sarebbe illegittima anche in forza della sua intrinseca irragionevolezza, posto che, secondo il giudice a quo, la condizione dello straniero «irregolare» non può essere associata, in quanto tale, ad alcuna presunzione di pericolosità (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 2007);
che non sussisterebbe, in particolare, alcuna relazione logica tra (in)osservanza delle norme in materia di immigrazione ed accresciuta probabilità di violazioni della legge penale, a maggior ragione considerando che la legge non distingue tra le varie possibili situazioni di «illegalità» del soggiorno e non assegna rilievo ad un «giustificato motivo» della violazione, che invece può scriminare comportamenti di rilevanza criminosa diretta (come il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 – Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero);
che la giurisprudenza costituzionale – osserva il rimettente – riconosce come la discrezionalità del legislatore nella determinazione del trattamento sanzionatorio incontri un limite nel canone generale della ragionevolezza, di talché potrebbero essere assoggettate al controllo di legittimità, ed essere eventualmente dichiarate illegittime, norme che risultassero manifestamente irrazionali;
che, da ultimo, il giudice a quo prospetta un contrasto tra la nuova previsione aggravante e l’art. 27, terzo comma, Cost., posto che solo una sanzione proporzionata al fatto potrebbe assolvere ad una funzione rieducativa, e che invece, nella specie, la maggiorazione della pena si fonda su una circostanza non concernente il fatto, ma la sola condizione di soggiornante «illegale» del reo;
che il Tribunale di Latina in composizione monocratica, con ordinanza del 1° luglio 2008 (r.o. n. 324 del 2008), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma e 27, primo e terzo comma, Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge n. 92 del 2008;
che il rimettente deve procedere con rito abbreviato nei confronti di tre stranieri nati in Paesi non comunitari, imputati del delitto di violazione di domicilio (art. 614, primo e quarto comma, cod. pen.), con l’aggravante prevista dalla norma censurata;
che lo stesso rimettente osserva come ricorrano, nel caso di specie, i presupposti per l’applicazione della circostanza, posto che tutti gli interessati sono privi di un titolo idoneo a legittimare il loro soggiorno nel territorio nazionale, e che uno tra essi risulta già raggiunto da un provvedimento di espulsione;
che la rilevanza della questione non potrebbe essere negata in base all’eventualità che l’aumento di pena resti escluso in esito al giudizio di comparazione con circostanze di segno opposto, dato che, comunque, la ricorrenza della fattispecie varrebbe a determinare un concorso eterogeneo tra circostanze ed a condizionare l’effetto di eventuali attenuanti;
che, secondo il Tribunale, la «qualità personale» del reo sulla quale è fondata la previsione aggravante non sarebbe in alcun modo collegata al fatto illecito ed alla sua gravità, anche considerando i profili soggettivi del reato;
che, infatti, la circostanza non potrebbe essere comparata ad altre fattispecie le quali, pur incentrate su una qualifica personale dell’agente, sanzionano l’abuso di un ruolo socialmente rilevante, che facilita la commissione del fatto ed esprime una concreta relazione tra la condizione soggettiva del reo e la gravità dell’illecito (sono citate, a titolo di esempio, le ipotesi di cui ai numeri 9 ed 11 dell’art. 61 cod. pen.);
che la fattispecie censurata, ad avviso del giudice a quo, non potrebbe essere comparata neanche alla recidiva, che pure non risponde ad una logica di necessaria e concreta relazione con la tipologia del reato contestato, poiché detta circostanza si fonda sulla responsabilità per un precedente illecito penale e dunque può esprimere una pericolosità qualificata, la quale per altro, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, dovrebbe essere verificata dal giudice per ciascun caso concreto (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 192 del 2007);
che invece la fattispecie in esame – fondata sulla violazione di precetti amministrativi e dunque non ragionevolmente comparabile alla consumazione di un reato – dovrebbe essere applicata prescindendo da ogni correlazione tra lo status dell’agente e la condotta criminale che gli viene ascritta, e senza neppure che l’infrazione di carattere amministrativo sia stata accertata in modo definitivo, come invece è richiesto per la recidiva;
che l’assenza di un pregresso accertamento dell’illecito ridonda, nella prospettazione del rimettente, sul grado della «resistenza» opposta dal reo ai precetti dell’ordinamento, e dunque sul piano della pericolosità, di talché l’aggravante de qua non sarebbe assimilabile a quella cosiddetta della latitanza (art. 61, numero 6, e art. 576, primo comma, numero 3, cod. pen.) e neppure alle fattispecie che presuppongono l’accertata pertinenza a pericolose organizzazioni criminali o l’intervenuta applicazione di misure di prevenzione (sono citati l’art. 576, primo comma, numero 4, l’art. 628, terzo comma, numero 3, l’art. 629, secondo comma, cod. pen., nonché l’art. 7 della legge 31 maggio 1965, n. 575, recante «Disposizioni contro la mafia»);
che il Tribunale prosegue osservando come alcune violazioni della disciplina concernente l’immigrazione siano penalmente sanzionate per se stesse (è citato l’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998), e come l’applicazione della norma censurata, in casi del genere, comporti una duplicazione irrazionale del trattamento punitivo, a titolo di sanzione per il reato specifico e di aggravamento della pena per l’ulteriore illecito commesso dallo straniero;
che in definitiva – a parere del rimettente – la fattispecie censurata entrerebbe a pieno titolo in quel quadro di «squilibri, sproporzioni e disarmonie» già posto in evidenza dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 22 del 2007, dando luogo ad un contrasto coi principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalità, come desumibili dall’art. 3 Cost.;
che la previsione del numero 11-bis dell’art. 61 cod. pen. contrasterebbe con il principio di ragionevolezza, secondo il giudice a quo, anche nella prospettiva dell’art. 13 Cost., ove il diritto inviolabile della persona alla propria libertà riguarda senza distinzione i cittadini e gli stranieri (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 62 del 1994);
che, in particolare, le privazioni della libertà personale potrebbero legittimamente fondarsi solo su presunzioni di pericolosità ancorate ad elementi realmente sintomatici, e tale certamente non sarebbe la condizione di soggiorno irregolare dello straniero, come la Corte costituzionale avrebbe già riconosciuto a proposito dell’espulsione quale misura di sicurezza (è richiamata la sentenza n. 58 del 1995);
che il rilievo della funzione di governo dei flussi migratori non giustifica, a parere del Tribunale, una compressione del bene concorrente della libertà personale, quando la stessa sia fondata su presunzioni arbitrarie, poiché la discrezionalità legislativa nella regolazione della materia trova un limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte operate (è citata, tra le altre, la sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 2008);
che la norma censurata, secondo il rimettente, contrasta anche con il principio di offensività, implicando un aumento di pena che prescinde dall’effettiva incidenza della condizione dello straniero sulla gravità del reato, ed esprime la logica del «diritto penale d’autore», rifiutata dal sistema costituzionale nella prospettiva combinata dell’offensività (art. 25, secondo comma, Cost.) e della pari dignità tra tutti gli uomini;
che il giudice a quo prospetta, infine, una violazione dell’art. 27 Cost., «sotto il profilo della personalità della responsabilità penale, del principio di proporzionalità della pena, del principio rieducativo della pena»;
che, per quanto attiene al primo comma dell’art. 27 Cost., la norma censurata non esprimerebbe un rimprovero connesso ad una qualificata attitudine delinquenziale, prescindendo dal «grado di partecipazione psichica» dell’interessato rispetto alla propria condizione di «illegalità» nel soggiorno, così da determinare una sproporzione della pena rispetto alle sue «personali» responsabilità;
che la violazione del principio di colpevolezza sarebbe confermata dall’omessa previsione della clausola concernente il «giustificato motivo», che invece può escludere la rilevanza penale di alcuni comportamenti contrari alle regole in materia di soggiorno ed espulsione;
che il difetto di proporzionalità della pena inflitta, almeno nel rapporto tra l’aumento dovuto all’applicazione della norma censurata e la sostanziale identità del fatto nei suoi profili offensivi, comporterebbe anche, a parere del rimettente, la violazione del terzo comma dell’art. 27 Cost., poiché la funzionalità rieducativa della sanzione è condizionata, appunto, dalla sua proporzionalità (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 72 del 1980 e n. 103 del 1982);
che il difetto di capacità rieducativa della pena sarebbe aggravato dalle discriminazioni che la norma censurata introduce (con violazione concomitante dell’art. 3 Cost.) tra gli stessi stranieri illegalmente presenti nel territorio nazionale, assimilando persone semplicemente prive del titolo di soggiorno (come due degli imputati nel procedimento a quo) a soggetti già colpiti da un provvedimento di espulsione e non ottemperanti all’ordine di lasciare il territorio dello Stato (come un altro degli imputati nel giudizio principale), e delineando un automatismo che la stessa Corte costituzionale avrebbe giudicato intollerabile trattando della recidiva (è richiamata ancora la sentenza n. 192 del 2007);
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito nel giudizio con atto depositato l’11 novembre 2008, chiedendo «che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile ed infondata»;
che il Tribunale di Livorno in composizione monocratica, con ordinanza del 9 luglio 2008 (r.o. n. 411 del 2008), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge n. 92 del 2008;
che nel giudizio a quo si procede, nei confronti di un cittadino straniero, per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, con l’aggravante dell’aver commesso il fatto «trovandosi illegalmente sul territorio nazionale»;
che secondo il rimettente la previsione censurata si fonda su una ratio – la maggior pericolosità implicata dalla situazione di «clandestinità» del reo – che non ricorre in tutti i casi ad essa riconducibili, dato che la norma si riferisce ad ogni situazione di presenza irregolare (ad esempio quella dello straniero munito di permesso di soggiorno scaduto), e dunque prescinde dall’effettiva «clandestinità» dell’interessato e dalla stessa illegalità delle circostanze culminate con il suo ingresso nel territorio nazionale;
che proprio la parificazione indiscriminata tra le situazioni descritte, a parere del Tribunale, comporta una prima violazione dell’art. 3 Cost.;
che la norma censurata, d’altra parte, non sarebbe assimilabile alle previsioni di cui ai numeri 9 e 11 dell’art. 61 cod. pen. (ove troverebbe sanzione l’abuso della posizione di comando, di protezione o di rapporto fiduciario), od alle fattispecie fondate sulla condizione di latitanza e di recidiva del reo (ove l’aggravamento della pena riguarda soggetti dei quali è già stata accertata una responsabilità penale, o che sono stati raggiunti da un provvedimento giudiziale che ne presuppone la pericolosità);
che non potrebbe essere attribuita una particolare determinazione nella devianza criminale a persone le quali si trovano, a volte per il solo effetto di circostanze contingenti o di difficoltà burocratiche, a violare una prescrizione di carattere amministrativo;
che la norma censurata contrasterebbe, secondo il giudice a quo, anche con il principio di personalità della responsabilità penale, dato che connette un aumento di pena al «tipo d’autore», e non già alla pericolosità concretamente manifestata dal soggetto;
che il difetto di proporzione nel trattamento punitivo, d’altra parte, priverebbe la pena della sua funzione rieducativa, non potendo l’interessato percepirla come strumento per un suo reinserimento nel tessuto sociale, ma solo ed appunto come una punizione eccedente la sua responsabilità;
che infine, in punto di rilevanza, il rimettente osserva come non rilevi l’astratta possibilità di neutralizzare gli effetti della circostanza attraverso il giudizio di comparazione regolato dall’art. 69 cod. pen., perché proprio la ricorrenza dell’aggravante impone il bilanciamento con eventuali attenuanti, ed influisce dunque sul procedimento di computo della sanzione, indipendentemente dall’esito del procedimento stesso;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito nel giudizio con atto depositato il 13 gennaio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, in quanto il rimettente non deve fare applicazione della norma censurata;
che infatti, nel giudizio a quo, si procede per un reato che «punisce direttamente l’illegale presenza o permanenza nel territorio nazionale da parte del reo», e d’altronde la «nuova» aggravante è stata inserita tra le circostanze comuni, previste dall’art. 61 cod. pen., il cui primo comma stabilisce che dette circostanze aggravano il reato «quando non ne sono elementi costitutivi»;
che la situazione considerata nel comma 11-bis dell’art. 61 cod. pen., a parere dell’Avvocatura generale, costituisce certamente «elemento costitutivo» del reato ascritto all’imputato nel procedimento principale, la cui condotta tipica consiste nell’inottemperanza all’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato in esito ad un provvedimento di espulsione;
che nella specie si darebbe quindi luogo – dovendosi evitare un bis in idem sostanziale nella determinazione del trattamento punitivo – ad un fenomeno di «assorbimento» (è richiamato l’art. 15 cod. pen.), con la necessaria esclusione dell’aggravante contestata, e con la conseguente irrilevanza della questione sollevata.
Considerato che vengono sollevate da vari rimettenti questioni di legittimità costituzionale riguardanti – senza alcuna eccezione – l’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), di talché risulta opportuna la riunione dei relativi giudizi;
che la previsione di una circostanza aggravante comune, da applicarsi a qualunque reato «quando il fatto è commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale», è stata censurata anzitutto per l’asserita violazione dell’art. 3 della Costituzione;
che il primo dei rimettenti ravvisa una violazione del principio di uguaglianza nel fatto che reati di identica natura siano puniti in misura differente a seconda che il reo si trovi regolarmente o non nel territorio dello Stato (r.o. n. 308 del 2008);
che tutti i giudici a quibus, sul presupposto che la previsione censurata si riferisce ad un comportamento antecedente al reato che non integra (necessariamente) un illecito penale, giudicano indebita l’analogia di trattamento istituita tra lo straniero in condizione di soggiorno irregolare ed il recidivo od il latitante;
che sarebbe ingiustificata, inoltre, la parificazione del trattamento riservato allo straniero a quello previsto per soggetti che abbiano abusato della propria funzione o qualità personale (art. 61, numeri 9 e 11, cod. pen.), o siano già stati individuati come persone pericolose mediante un provvedimento giudiziale (art. 61, numero 6, art. 576, primo comma, numeri 3 e 4, art. 628, terzo comma, numero 3, art. 629, secondo comma, cod. pen.; art. 7 legge 31 maggio 1965, n. 575, recante «Disposizioni contro la mafia») (r.o. n. 324 e n. 411 del 2008);
che sarebbe affetta da intrinseca irragionevolezza una presunzione di maggior pericolosità collegata alla mera assenza di un titolo di legittimo soggiorno nel territorio dello Stato, senza alcuna distinzione tra le varie possibili violazioni della legge sull’immigrazione e senza alcun rilievo per l’eventuale ricorrenza di un «giustificato motivo» (r.o. n. 308 e n. 324 del 2008; r.o. n. 411 del 2008, limitatamente all’analogia di trattamento istituita tra le possibili infrazioni in materia di immigrazione);
che, inoltre, parte dei rimettenti considera violato l’art. 3 Cost. anche in ragione dell’intrinseca irragionevolezza di una presunzione di maggior pericolosità collegata alla mera mancanza di un titolo di legittimo soggiorno nel territorio dello Stato, senza alcuna necessaria correlazione tra la condizione del reo e la gravità del reato (r.o. n. 308 e n. 324 del 2008);
che un ulteriore profilo di intrinseca irragionevolezza è ravvisato nel fatto che la previsione censurata, ove l’aggravamento di pena riscontri un comportamento munito di autonoma rilevanza penale, determinerebbe una indebita duplicazione della risposta sanzionatoria per il medesimo fatto, a titolo di sanzione diretta e di incremento della pena per il diverso reato commesso dallo straniero in posizione «irregolare» (r.o. n. 324 del 2008);
che il solo Tribunale di Latina prospetta una violazione concorrente dell’art. 13 Cost., poiché il diritto alla libertà personale, inviolabile e come tale riferibile in pari misura al cittadino ed allo straniero, sarebbe sacrificato senza alcun ragionevole bilanciamento con la tutela di beni di analogo rango costituzionale;
che, secondo il Tribunale di Ferrara, la disposizione censurata violerebbe anche gli artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma, Cost., per il difetto di pertinenza al fatto di reato del maggior trattamento punitivo, e per l’esclusiva inerenza di quest’ultimo ad uno «status personale del reo»;
che il Tribunale di Latina prospetta, ancora, una carenza di relazione tra l’aumento di pena ed un effettivo incremento di gravità del reato, così che la norma censurata esprimerebbe un «diritto penale d’autore» e contrasterebbe con l’art. 25, secondo comma, Cost., per la ritenuta violazione del principio di offensività, oltre che dei principi di necessità e sussidiarietà del diritto penale;
che anche il Tribunale di Livorno ravvisa, nella specie, un trasferimento della logica punitiva dalla colpevolezza al «tipo d’autore», con conseguente violazione dell’art. 27, primo comma, Cost.;
che analoga violazione è prospettata dal Tribunale di Latina, in rapporto all’asserito difetto di proporzione tra la pena ed il grado della responsabilità personalmente riferibile al reo;
che due dei rimettenti, infine, ritengono la previsione censurata incompatibile col precetto fissato nel terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto l’eccedenza della sanzione rispetto al fatto escluderebbe la finalizzazione rieducativa della pena (r.o. n. 324 del 2008), anche per la percezione del condannato in merito ad una sproporzione per eccesso tra la sua colpa e la conseguente punizione (r.o. n. 411 del 2008);
che le questioni sollevate dal Tribunale di Livorno devono ritenersi manifestamente inammissibili, per l’assoluta carenza di motivazione in ordine ad una condizione essenziale di rilevanza delle questioni medesime;
che l’ordinanza di rimessione non illustra, infatti, la ragione per la quale una circostanza aggravante fondata sulla «illegalità» del soggiorno dovrebbe applicarsi anche per reati che consistono, come quello contestato nel giudizio principale, proprio in violazioni della disciplina della immigrazione, posto che, secondo quanto stabilito nella prima parte dell’art. 61 cod. pen., le circostanze comuni aggravano il reato solo «quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali»;
che invece, in riferimento alle ulteriori questioni sollevate, gli atti devono essere restituiti ai rimettenti perché possano procedere ad una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni medesime;
che deve rilevarsi, a tale proposito, come siano intervenute, in epoca successiva alle ordinanze di rimessione, modifiche normative tali da incidere, in via diretta o mediata, sulla disciplina introdotta dalla disposizione censurata;
che la norma è stata infatti modificata, in primo luogo, dalla legge di conversione del provvedimento d’urgenza che l’ha introdotta (art. 1 della legge 24 luglio 2008, n. 125 – Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), così che attualmente aggrava il reato «l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale»;
che in epoca ancora successiva – con il comma 1 dell’art. 1 della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) – è stato stabilito che «la disposizione di cui all’art. 61, numero 11-bis), del codice penale si intende riferita ai cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea e agli apolidi»;
che inoltre – in un quadro segnato da molteplici disposizioni concernenti la disciplina, penale ed extrapenale, del fenomeno dell’immigrazione – il legislatore ha introdotto nell’ordinamento la nuova fattispecie criminosa di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» (art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», introdotto dall’art. 1, comma 16, della citata legge n. 94 del 2009);
che la nuova disposizione incriminatrice sanziona, con la pena dell’ammenda, lo straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni contenute nello stesso d.lgs. n. 286 del 1998 o nell’art. 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68 (Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio);
che la normativa sopravvenuta attiene ad un profilo centrale dei percorsi argomentativi seguiti dai giudici a quibus nel motivare la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, posto che le condotte riconducibili alla previsione censurata costituiscono ormai l’oggetto di un’autonoma incriminazione, e non la mera espressione di un illecito amministrativo;
che spetta ai rimettenti la valutazione del rilievo che possono assumere le descritte variazioni del quadro normativo di riferimento, sia in relazione alla disciplina codicistica della successione nel tempo di leggi penali, sia, e comunque, in rapporto al mutato equilibrio tra i fattori che questa Corte è chiamata a prendere in considerazione ai fini della propria decisione (ordinanza n. 398 del 2005);
che in particolare è compito dei rimettenti, nel valutare la legittimità della previsione quale circostanza aggravante comune di ogni pregressa violazione delle norme in materia di immigrazione, procedere ad una nuova ponderazione del ruolo che, in tale prospettiva, deve assegnarsi al carattere amministrativo, o penalmente illecito, della violazione medesima.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), sollevate, con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di Livorno, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Ferrara ed al Tribunale di Latina.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2009.