L’aspetto più grave dei tre vizi della legge elettorale in discussione, tutti già presenti nel vecchio porcellum e severamente censurati dalla sentenza della Corte costituzionale – l’enorme premio di maggioranza, le altissime soglie di sbarramento e le liste bloccate – è la loro azione congiunta, che moltiplica gli effetti distorsivi della rappresentanza politica e dell’uguaglianza del voto prodotti da ciascuno di essi. Questi effetti sono stati ridotti in misura pressoché impercettibile dai ritocchi portati ieri alla proposta originaria. Le soglie di sbarramento, in particolare, restano più che raddoppiate rispetto al vecchio porcellum: il 4,5 (e non più il 5) e l’8% a seconda che le liste siano coalizzate o meno, anziché le soglie attuali del 2 e del 4%, oltre al 12% per le coalizioni. Privando della rappresentanza una parte rilevante dell’elettorato, un tale sbarramento produrrà l’effetto di un aumento ancor più rabbioso delle astensioni, di una riduzione del pluralismo e di un’ulteriore crescita della distanza tra ceto politico e società. A sua volta il premio di maggioranza, che secondo il nuovo testo è il 52% dei seggi alla lista che raggiunga il 37% dei votanti (e non più il 53% assegnato al 35%), conferisce ancora al voto di costoro un peso equivalente al doppio di quello dei restanti 63%. E le liste bloccate renderanno anche il nuovo Parlamento un Parlamento di nominati.
C’erano ovviamente molti altri sistemi, tra i quali gli altri due proposti dallo stesso Renzi, in grado di evitare questa assurda riedizione del porcellum. Ma a questo punto, il sistema oggi in discussione, se non vuole esporsi al rischio di una nuova, clamorosa bocciatura da parte della Corte costituzionale, andrebbe rettificato con una riduzione dei suoi vizi ben maggiore della lieve modifica progettata ieri. In primo luogo il premio di maggioranza: affinché il sistema sia rappresentativo, ben più alta del 37% dei votanti dovrebbe essere, per l’assegnazione del premio, la soglia al di sotto della quale è previsto il ballottaggio. Una cosa, infatti, è il premio conferito con il doppio turno, come in Francia, dal voto di tutti gli elettori, altra cosa è il premio assegnato al primo turno, secondo il modello Acerbo o Calderoli, alla maggiore minoranza. In entrambi i casi, se è questo che si vuole, dalle elezioni esce una maggioranza assoluta di governo. Ma nel secondo caso si produce l’“alterazione profonda”, censurata dalla sentenza, “della composizione della rappresentanza democratica sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”.
In secondo luogo gli sbarramenti: perché mai non conservare quelli del 2 e del 4% previsti dal Porcellum e tuttora in vigore? Ma l’aspetto più assurdo del meccanismo, stranamente trascurato dal dibattito di questi giorni, è l’incentivo a coalizioni forzose tramite la previsione di due soglie diverse per i partiti che si coalizzano e per quelli che non si coalizzano. Nel caso delle prossime elezioni, per esempio, il loro effetto, grazie anche all’eccezione in favore della Lega, sarà il ricompattamento della destra e la sua possibile vittoria: mentre infatti con un unico sbarramento – quello del 4,5%, secondo l’accordo di ieri – il Nuovo Centro Destra avrebbe potuto presentarsi da solo, con la soglia dell’8% prevista per chi non si coalizza non dovrà neppure giustificare il ritorno all’ovile, potendo presentare la sua scelta come obbligata. Ebbene, una tale assurdità compromette non solo la rappresentatività e l’uguaglianza del voto, ma anche l’agognata governabilità. Lo spiega chiaramente la sentenza della Corte: il maggior premio a chi si coalizza, essa dice, è “manifestamente irragionevole” perché “in contrasto con l’esigenza di assicurare la governabilità”, dato che vale a “incentivare il raggiungimento di accordi tra liste al solo fine di accedere al premio, senza scongiurare il rischio che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiaria del premio possa sciogliersi, o uno o più partiti che ne facevano parte escano dalla stessa”: cosa, come è noto, puntualmente avvenuta.
Infine le preferenze, rifiutate dalla destra ma richieste, dicono i sondaggi, dalla maggioranza degli elettori. Matteo Renzi ha proposto più volte l’introduzione delle primarie per la scelta dei candidati: che sarebbe anch’esso un modo per restituire all’elettore, come richiede la sentenza della Corte, “la facoltà di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti”. Secondo la sua proposta, tuttavia, la legge dovrebbe prevederle come “facoltative”. Ma questo è un contro-senso. Forse che, in assenza della legge, le primarie, che il Pd organizza da anni, sarebbero vietate? Perché non si ha il coraggio di proporle come obbligatorie e disciplinate dalla legge, e di aprire un confronto di fondo in Parlamento onde far emergere, ove la proposta non fosse accolta, il carattere padronale delle forze avversarie? È chiaro che il partito-azienda di Berlusconi e il partito-marchio di Grillo sono contrari. Hanno bisogno di deputati fedeli al capo, quali suoi fiduciari e rappresentanti, e non come rappresentanti degli elettori. Ma è proprio questo il buco nero nel quale rischia di affondare la nostra democrazia. Perché mai il Pd non coglie l’occasione per conferire alla discussione sulla proposta delle primarie obbligatorie il respiro di una grande battaglia di democrazia, dopo il buio ventennio dell’afasia della politica sul crollo verticale della rappresentanza? Perché la proposta dell’obbligo delle primarie non viene avanzata come il banco di prova del carattere democratico di tutte le forze in campo, mettendo il dito sulla piaga del carattere autocratico e proprietario dei partiti che le rifiutano? Insomma, il segretario del Pd ha di fronte a sé un’alternativa: se vorrà essere ricordato per aver contribuito, proprio con la sua riforma rettificata, a un primo passo in direzione della democratizzazione dell’intero sistema politico, oppure, al contrario, per aver fatto accettare a Berlusconi quella che questi stesso ha chiamato “la mia riforma” e così facilitargli una possibile vittoria nelle prossime elezioni.