SENTENZA DELLA CORTE (seduta plenaria)
9 dicembre 2003
«Inadempimento di uno Stato – Interpretazione in contrasto con il diritto comunitario di una legge nazionale da parte della giurisprudenza e della prassi amministrativa – Presupposti per la ripetizione dell’indebito»
Nella causa C-129/00,
Commissione delle Comunità europee, rappresentata dal sig. E. Traversa, in qualità di agente, assistito dall’avv. P. Biavati, con domicilio eletto in Lussemburgo,
ricorrente,
contro
Repubblica italiana, rappresentata dal sig. I. M. Braguglia, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo,
convenuta,
avente ad oggetto un ricorso diretto a far dichiarare che, mantenendo in vigore l’art. 29, secondo comma, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, intitolata «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1990)» (GURI n. 10 del 12 gennaio 1991, Supplemento ordinario, pag. 5), così come interpretato e applicato in sede amministrativa e giudiziaria, che giustificherebbe un regime probatorio della traslazione su terzi dell’importo di tributi percepiti in violazione di norme comunitarie che renderebbe l’esercizio del diritto al rimborso di tali tributi praticamente impossibile o, comunque, eccessivamente difficile per il contribuente, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato CE,
LA CORTE (seduta plenaria),
composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. P. Jann, C.W.A. Timmermans, C. Gulmann, J.N. Cunha Rodrigues e A. Rosas, presidenti di sezione, dai sigg. D.A.O. Edward, A. La Pergola, J.-P. Puissochet (relatore) e R. Schintgen, dalle sig.re F. Macken e N. Colneric, e dal sig. S. von Bahr, giudici,
avvocato generale: sig. L. A. Geelhoed
cancelliere: sig.ra L. Hewlett, amministratore principale
vista la relazione d’udienza,
sentite le difese orali svolte dalle parti all’udienza del 2 aprile 2003,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 3 giugno 2003,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1.
Con atto introduttivo depositato presso la cancelleria della Corte il 4 aprile 2000, la Commissione delle Comunità europee ha proposto, ai sensi dell’art. 226 CE, un ricorso diretto a far dichiarare che la Repubblica italiana, mantenendo in vigore l’art. 29, secondo comma, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, intitolata «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1990)» (GURI n. 10 del 12 gennaio 1991, Supplemento ordinario, pag. 5; in prosieguo: la «legge n. 428/1990»), così come interpretato e applicato in sede amministrativa e giudiziaria, che giustificherebbe un regime probatorio della traslazione su terzi dell’importo di tributi percepiti in violazione di norme comunitarie che renderebbe l’esercizio del diritto al rimborso di tali tributi praticamente impossibile o, comunque, eccessivamente difficile per il contribuente, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato CE.
Diritto nazionale
2.
La legge n. 428/1990 ha introdotto nella normativa fiscale talune norme speciali in materia di «rimborso dei tributi riconosciuti incompatibili con norme comunitarie». A tale riguardo, l’art. 29, secondo comma, della detta legge così recita:
«I diritti doganali all’importazione, le imposte di fabbricazione, le imposte di consumo, il sovrapprezzo dello zucchero e i diritti erariali riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie sono rimborsati a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti».
3.
In precedenza, tale materia era disciplinata dall’art. 19, primo comma, del decreto legge 30 settembre 1982, n. 688 (GURI n. 270 del 30 settembre 1982, pag. 7072), convertito in legge con legge 27 novembre 1982, n. 873 (GURI n. 328 del 29 novembre 1982, pag. 8599; in prosieguo: il «decreto legge n. 688/1982»). Esso disponeva che:
«Chi ha indebitamente corrisposto diritti doganali all’importazione, imposte di fabbricazione, imposte di consumo o diritti erariali (…) ha diritto al rimborso delle somme pagate quando prova documentalmente che l’onere relativo non è stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti, salvo il caso di errore materiale».
Antecedenti
4.
L’art. 19 del decreto legge n. 688/1982 ha dato luogo a due sentenze della Corte. La prima (sentenza 9 novembre 1983, causa 199/82, San Giorgio, Racc. pag. 3595), in seguito a rinvio pregiudiziale, e la seconda (sentenza 24 marzo 1988, causa 104/86, Commissione/Italia, Racc. pag. 1799), nell’ambito di un ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione contro la Repubblica italiana.
5.
In quest’ultima sentenza, la Corte ha dichiarato quanto segue:
«6 (…) In mancanza di una normativa comunitaria in materia di restituzione dei tributi nazionali riscossi in contrasto col diritto comunitario, spetta agli Stati membri garantire il rimborso di detti tributi, conformemente al loro diritto nazionale. Peraltro, il diritto comunitario non esige che si conceda la restituzione di tributi indebitamente riscossi a condizioni tali da causare un arricchimento senza giusta causa degli aventi diritto; pertanto esso non esclude che si tenga conto del fatto che l’onere di detti tributi ha potuto essere ripercosso su altri operatori economici o sui consumatori.
7 Si deve poi ricordare che, come la Corte ha considerato nella sentenza [San Giorgio], che riguarda per l’appunto l’art. 19 del decreto legge di cui trattasi, sono incompatibili col diritto comunitario tutte le modalità di prova che abbiano l’effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il rimborso dei tributi riscossi in contrasto col diritto comunitario. Ciò vale in particolare per le presunzioni o per i criteri di prova che tendono a far gravare sul contribuente l’onere di provare che i tributi indebitamente versati non sono stati trasferiti su altri soggetti, o per particolari limitazioni in merito alla forma della prova da fornire, come l’esclusione di qualsiasi prova non documentale.
(…)
11 (…) La controversa disposizione della normativa italiana impone agli operatori l’onere di provare un fatto negativo, in quanto essi debbono dimostrare, contro le mere asserzioni dell’amministrazione, che il tributo indebitamente pagato non è stato traslato su altri soggetti, e debbono farlo mediante prove esclusivamente documentali. Una disposizione del genere è in contrasto con le norme del diritto comunitario come interpretate dalla Corte».
6.
In seguito, l’art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990 ha dato a sua volta origine a talune questioni pregiudiziali, risolte dalla Corte con la sentenza 9 febbraio 1999, causa C-343/96, Dilexport (Racc. pag. I-579). Il giudice nazionale sosteneva che tale disposizione veniva applicata dai giudici italiani nel senso che l’amministrazione, per opporsi al rimborso di diritti doganali o di imposte indebitamente versati, poteva invocare la presunzione secondo la quale gli stessi diritti ed imposte sono normalmente traslati sui terzi.
7.
La Corte ha stabilito quanto segue:
«52 Se, come ritiene il giudice nazionale, esiste una presunzione di ripercussione su altri soggetti dei diritti e dei tributi illegittimamente pretesi o indebitamente riscossi e se è a carico del ricorrente la prova contraria di tale presunzione per ottenere il rimborso del tributo, si dovrà considerare che le disposizioni di cui si tratta sono contrarie al diritto comunitario.
53 Se, per contro, come sostiene il governo italiano, spetta all’amministrazione dimostrare, mediante tutti i mezzi di prova generalmente ammessi dal diritto nazionale, che il tributo è stato trasferito su altri soggetti, si dovrà invece considerare che le disposizioni di cui si tratta non sono contrarie al diritto comunitario.
54 [Si deve quindi dichiarare] che il diritto comunitario osta a che uno Stato membro assoggetti il rimborso di diritti doganali e di imposte incompatibili con il diritto comunitario a una condizione, quale l’assenza di ripercussione di tali diritti e imposte su altri soggetti, relativamente al ricorrere della quale l’onere della prova incomberebbe al ricorrente».
Procedimento precontenzioso
8.
In sostanza la Commissione, come il giudice del rinvio nella causa che ha dato origine alla citata sentenza Dilexport, sostiene che, così come interpretate e applicate in sede amministrativa e giudiziaria, le disposizioni dell’art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990 conducono allo stesso risultato di quelle del vecchio art. 19 del decreto legge n. 688/1982.
9.
Dopo aver posto la Repubblica italiana in condizione di presentare le sue osservazioni, il 17 settembre 1997 la Commissione ha emesso un parere motivato invitando tale Stato membro a conformarsi agli obblighi ad esso derivanti dal Trattato entro il termine di due mesi. Non essendo rimasta soddisfatta della risposta fornita dalle autorità italiane con lettera 25 novembre 1997, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso.
Argomenti delle parti
10.
La Commissione sostiene che nella sentenza 14 gennaio 1997, cause riunite da C-192/95 a C-218/95, Comateb e a. (Racc. pag. I-165, punto 25), la Corte ha ricordato che, in materia di imposte indirette, non è ammissibile la presunzione che il contribuente abbia trasferito il tributo a valle della catena delle vendite, presunzione che impone al contribuente di fornire la prova negativa del contrario, qualora voglia ottenere il rimborso di un tributo di siffatta natura.
11.
Orbene, la Commissione fa presente che la giurisprudenza della Corte suprema di cassazione istituisce una tale presunzione a danno del contribuente che chiede il rimborso di tributi incompatibili con il diritto comunitario, contemplati dall’art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990. Le motivazioni delle decisioni adottate da tale giudice in questa materia sarebbero varie, ma riposerebbero, in sostanza, sull’argomentazione che, salvo circostanze eccezionali, le società commerciali trasferiscono le imposte indirette sulla loro clientela. Il ragionamento più complesso che la Corte suprema di cassazione avrebbe seguito per giungere a tale soluzione, in particolare nella sentenza 28 marzo 1996, n. 2844, si fonderebbe sulle seguenti considerazioni:
– l’importatore non era un privato, bensì una società commerciale o industriale;
– l’impresa evidenziava una gestione normale e non versava in condizioni deficitarie o di insolvenza, che avrebbero potuto far presumere che vendesse sottocosto;
– l’indebita imposizione era stata effettuata da tutte le dogane italiane, per cui non poteva non essersi creato un clima di affidamento sulla sua legittimità;
– l’indebita imposizione era stata applicata per un lungo periodo e senza dar luogo a contestazioni.
12.
Secondo la Commissione, la Corte suprema di cassazione si fonda anche sulla supposizione che le imprese commerciali trasferiscano di norma le imposte indirette su terzi per ritenere che le domande giudiziali formulate dall’amministrazione per far esibire i documenti contabili delle imprese interessate o per ottenere l’ispezione di queste ultime non abbiano carattere meramente esplorativo, il che le renderebbe illegittime, ma costituiscano un valido strumento per consentirle di fornire la prova che siffatta traslazione ha avuto luogo.
13.
Inoltre, la Corte suprema di cassazione statuirebbe, sulla base dell’art. 116 del codice di procedura civile italiano, che la mancata presentazione di documenti contabili a seguito di una tale istanza, unitamente alla presunzione secondo la quale i tributi vengono di norma trasferiti, costituisce la prova che tale trasferimento è effettivamente avvenuto. La Commissione fa presente che un’identica soluzione viene applicata anche quando l’impresa, non presentando tali documenti, adduce che questi non sono stati conservati perché è scaduto il termine di conservazione obbligatoria di dieci anni previsto dal codice civile italiano. Orbene, dato che tra una domanda giudiziale di produzione di documenti contabili e la decisione del giudice al riguardo possono trascorrere parecchi anni, un obbligo di conservazione di tali documenti oltre il termine legale di conservazione sarebbe eccessivo per le imprese, in particolare a causa dei costi elevati e dei problemi di archiviazione che tale obbligo comporterebbe. Esso costituirebbe pertanto un ulteriore ostacolo all’effettivo rimborso di tributi in contrasto con il diritto comunitario.
14.
La Commissione osserva che numerosi giudici di merito seguono tali principi, così come taluni periti designati nell’ambito di procedimenti giudiziari con il compito di esaminare i documenti contabili dei soggetti passivi e di decidere se questi ultimi abbiano o meno trasferito i tributi in questione. Al riguardo essa fornisce alcuni esempi.
15.
Orbene, tale orientamento – in violazione di quanto dichiarato dalla Corte al punto 52 della citata sentenza Dilexport – istituirebbe de facto una presunzione di traslazione su terzi, da parte dei soggetti passivi, dei tributi incompatibili con il diritto comunitario di cui tali soggetti chiedono il rimborso, presunzione che spetterebbe a questi ultimi confutare fornendo la prova contraria.
16.
La Commissione aggiunge che il ragionamento di cui trattasi è illogico, poiché partirebbe dall’assunto secondo cui le imprese trasferiscono di norma le imposte indirette per giungere a stabilire una presunzione avente esattamente lo stesso contenuto di tale assunto. Gli elementi talvolta utilizzati in tale ragionamento, relativi alla qualità di impresa e all’assenza di insolvibilità in capo al richiedente, nonché all’applicazione generalizzata e costante dei tributi contestati, sarebbero del tutto inconferenti. Infatti, un imprenditore che non trasferisca tributi su terzi potrebbe semplicemente realizzare un utile inferiore, ma non sarebbe necessariamente in fallimento. Dedurre dalla mancanza di insolvenza la presenza di una traslazione dei tributi sarebbe arbitrario.
17.
La Commissione rileva che neppure l’amministrazione italiana rispetta i principi applicabili al rimborso di tributi in contrasto con il diritto comunitario. Le circolari del Ministro delle Finanze 11 marzo 1994, n. 21/2/VII, e 12 aprile 1995, n. 480/VIII, indicherebbero in sostanza che la traslazione dei tributi su terzi è dimostrata qualora tali tributi non siano stati contabilizzati, a partire dall’anno del loro versamento, a titolo di anticipazioni all’erario per tributi non dovuti, come crediti all’attivo nel bilancio dell’impresa che ne chiede il rimborso. La mancanza di una siffatta contabilizzazione dimostrerebbe che l’impresa ha considerato i tributi in questione come costi normali e li ha necessariamente trasferiti. La Commissione è dell’avviso che tale metodo porti ad imporre un obbligo eccessivo alle imprese, soprattutto per quanto riguarda gli anni precedenti alla constatazione del contrasto dei tributi con il diritto comunitario.
18.
La Commissione afferma che, anche se alcuni contribuenti vedono accolta la loro domanda giudiziale dinanzi al giudice di merito – a prezzo, a suo avviso, di procedimenti lunghi e costosi -, tale circostanza non consente di concludere che sia stato rispettato il principio di effettività, in base al quale le modalità procedurali nazionali, applicate alle domande fondate sui diritti spettanti ai soggetti in forza delle norme di diritto comunitario, non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di tali diritti. Del resto, i ricorsi accolti di alcuni contribuenti, che, secondo il governo italiano, hanno consentito loro di ottenere, tra il 1992 e il 2000, il rimborso di 120 miliardi di lire italiane (ITL) al netto degli interessi e delle spese, sarebbero insignificanti rispetto alle somme oggetto del contendere in tale materia. La Commissione sostiene che il principio di effettività sarebbe rispettato solo se i casi di rigetto delle domande di rimborso fossero eccezionali e sostiene che l’esercizio dei diritti derivanti dal Trattato non può essere ostacolato da misure generali motivate da una presunzione di abuso di diritto.
19.
Il governo italiano accusa la Commissione di perdersi in speculazioni e di trascurare i dati reali. Solo l’effettivo accertamento che i contribuenti che hanno versato tributi in contrasto con il diritto comunitario non ottengono il rimborso, o lo ottengono molto difficilmente, potrebbe contraddistinguere la violazione del principio di effettività. A tale riguardo, oltre all’importo delle somme rimborsate in conto capitale, menzionato al punto precedente, il governo italiano si avvale di 17 sentenze di diversi giudici di merito che avrebbero accolto la domanda dei contribuenti e sarebbero passate in giudicato.
20.
Quanto all’eventualità di una provvedimento istruttorio da parte della Corte diretto a stabilire la percentuale delle domande di rimborso accolte rispetto all’insieme di quelle presentate, il governo italiano sostiene che l’adozione di un siffatto provvedimento equivarrebbe a far gravare sulla Corte l’onere della prova dell’inadempimento fatto valere dalla Commissione e che quest’ultima dovrebbe essere in grado di dimostrare a conclusione della fase precontenziosa.
21.
In subordine, il governo italiano analizza, a livello di principi, le modalità di esercizio del diritto alla ripetizione dell’indebito censurate dalla Commissione e sottolinea, in primo luogo, che la Commissione riconosce che il testo dell’art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990 è di per sé compatibile con il diritto comunitario. A suo avviso, tale testo impone all’amministrazione, per sottrarsi all’obbligo di rimborsare il tributo, di dimostrare che il contribuente lo ha trasferito su terzi.
22.
In secondo luogo, il governo italiano ricorda che, al punto 25 della citata sentenza Comateb e a., la Corte ha dichiarato che «[l’]effettiva traslazione parziale o totale [di un’imposta indiretta] dipende (…) da vari fattori che costituiscono il contorno di ogni operazione commerciale e che la differenziano da altri casi situati in contesti diversi» e che «[d]i conseguenza, la questione della traslazione o meno, in ogni singolo caso, di un’imposta indiretta costituisce una questione di fatto rientrante nella competenza del giudice nazionale, che potrà formare liberamente il proprio convincimento». Il governo italiano afferma che nelle conclusioni presentate nella citata causa Dilexport l’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer ha aggiunto che il giudice nazionale poteva avvalersi di tutti i mezzi di prova autorizzati dal diritto interno per accertare i fatti. Detto governo fa presente che la Corte suprema di cassazione non è giudice di merito, ma si limita a fissare taluni principi generali di assunzione della prova in funzione di circostanze procedurali che possono variare considerevolmente in ragione di ciascuna controversia. Il giudice di merito potrebbe benissimo avvalersi di meccanismi deduttivi come mezzo di prova. Le pronunce favorevoli ai contribuenti prodotte nella causa in esame proverebbero semplicemente che l’amministrazione non ha dimostrato la traslazione dei tributi.
23.
Quanto all’amministrazione, sulla quale graverebbe l’onere di tale prova, essa potrebbe legittimamente chiedere di visionare i documenti contabili del ricorrente, dato che solo questo provvedimento istruttorio le consentirebbe di fornire tale prova e, di conseguenza, non avrebbe assolutamente carattere esplorativo. Qualora il richiedente non esibisca spontaneamente i propri documenti contabili, sarebbe normale che, quando agisce in giudizio per far valere i propri diritti, l’amministrazione chieda per la medesima via detta esibizione. Tale sarebbe il senso delle due circolari ministeriali citate al punto 17 di questa sentenza e criticate dalla Commissione. Il governo italiano precisa che il giudice considera la mancata esibizione dei documenti contabili come un argomento a favore dell’amministrazione solo se l’istanza di esibizione di tali documenti viene depositata prima de lla scadenza del termine legale di conservazione. In tale caso, anche se il giudice si pronuncia sulla detta domanda solo successivamente a tale scadenza, il dovere di lealtà nel corso del giudizio imporrebbe al contribuente di conservare i propri documenti contabili e di esibirli a seguito della decisione giudiziaria di accoglimento di una tale istanza (sentenza della Corte suprema di cassazione 18 novembre 1994, n. 9797).
24.
Il governo italiano aggiunge che, anche se talvolta si rendono necessari lunghi procedimenti per ottenere un rimborso, gli inconvenienti legati a tale durata sono compensati dalla concessione di interessi sulle somme dovute.
Giudizio della Corte
25.
Come ricorda una consolidata giurisprudenza, in mancanza di una disciplina comunitaria in materia di ripetizione di imposte nazionali indebitamente riscosse, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai soggetti in forza delle norme di diritto comunitario, purché le dette modalità, da un lato, non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) e, dall’altro, non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe, Racc. pag. 1989, punto 5, e 24 settembre 2002, causa C-255/00, Grundig Italiana, Racc. pag. I-8003, punto 33).
26.
Per quanto riguarda l’art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990, come ricordato al punto 7 di questa sentenza e tenuto conto delle differenti interpretazioni di questa disposizione, la citata sentenza Dilexport, resa nell’ambito di un procedimento pregiudiziale nel quale spettava al giudice nazionale decidere sulla controversia, ha indicato che, se esisteva una presunzione di ripercussione su altri soggetti dei diritti e dei tributi illegittimamente pretesi o indebitamente riscossi e se era a carico del ricorrente la prova contraria di tale presunzione per ottenere il rimborso del tributo, la disposizione in questione doveva considerarsi contraria al diritto comunitario.
27.
Nell’ambito del presente ricorso per inadempimento spetta invece alla Corte decidere, essa stessa, tenuto conto degli elementi dedotti dalla Commissione, se l’applicazione che le autorità italiane hanno fatto dell’art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990 determini effettivamente il sorgere di una siffatta presunzione o renda, in altro modo, praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto al rimborso di tali tributi, nel qual caso occorrerebbe dichiarare l’inadempimento della Repubblica italiana.
28.
Il motivo invocato dalla Commissione a sostegno del suo ricorso presenta tre aspetti. In primo luogo, vari giudici italiani, e in particolare, costantemente, la Corte suprema di cassazione, riterrebbero provata la traslazione dei tributi su terzi per il solo fatto che il ricorrente è un’impresa commerciale, aggiungendovi talvolta la motivazione che l’impresa non è fallita e che il tributo è stato riscosso per anni su tutto il territorio nazionale in assenza di contestazioni. In secondo luogo, l’amministrazione esigerebbe sistematicamente la produzione dei documenti contabili del ricorrente. I giudici aditi in caso di opposizione da parte di quest’ultimo accoglierebbero tale domanda sulla base dello stesso genere di motivazioni suddette e interpreterebbero in modo sfavorevole al ricorrente la mancata produzione dei detti documenti anche quando il termine legale di conservazione di questi ultimi sia scaduto. In terzo luogo, l’amministrazione riterrebbe che la mancata contabilizzazione dell’importo dei tributi in questione, a partire dall’anno del loro versamento, a titolo di anticipazioni all’erario di tributi non dovuti, come crediti all’attivo nel bilancio dell’impresa che ne chiede il rimborso, dimostri che i detti tributi sono stati trasferiti su terzi.
29.
L’inadempimento di uno Stato membro può essere in via di principio dichiarato ai sensi dell’art. 226 CE indipendentemente dall’organo dello Stato la cui azione o inerzia ha dato luogo alla trasgressione, anche se si tratta di un’istituzione costituzionalmente indipendente (sentenza 5 maggio 1970, causa 77/69, Commissione/Belgio, Racc. pag. 237, punto 15).
30.
La portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali si deve valutare tenendo conto dell’interpretazione che ne danno i giudici nazionali (v., in particolare, sentenza 8 giugno 1994, causa C-382/92, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. I-2435, punto 36).
31.
Nel caso di specie è in discussione l’art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990, il quale dispone che i diritti e i tributi riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie siano rimborsati a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti. Una tale disposizione è di per sé neutra, ai fini del diritto comunitario, sia per quanto riguarda l’onere di provare che il tributo è stato trasferito su altri soggetti, sia quanto alle modalità di prova a tal fine ammissibili. La sua portata deve pertanto essere determinata alla luce dell’interpretazione che ne danno i giudici nazionali.
32.
A tale proposito, pronunce giurisdizionali isolate o fortemente minoritarie in un contesto giurisprudenziale caratterizzato da un diverso orientamento, o ancora un’interpretazione smentita dal supremo giudice nazionale, non possono essere prese in considerazione. Lo stesso non si può dire di un’interpretazione giurisprudenziale significativa non smentita dal detto supremo giudice, o addirittura da esso confermata.
33.
Quando una normativa nazionale forma oggetto di divergenti interpretazioni giurisprudenziali che siano plausibili e che conducano, alcune ad un’applicazione della detta normativa compatibile con il diritto comunitario, altre ad un’applicazione incompatibile con esso, occorre dichiarare che, per lo meno, tale normativa non è sufficientemente chiara per garantire un’applicazione compatibile con il diritto comunitario.
34.
Nel caso di specie, il governo italiano non contesta che alcune sentenze della Corte suprema di cassazione pervengano, seguendo un ragionamento deduttivo, alla conclusione che, salvo prova contraria, diverse imprese commerciali che si trovano in condizioni normali trasferiscono a valle della catena delle vendite un tributo indiretto, in particolare se esso viene riscosso su tutto il territorio nazionale per un periodo rilevante e senza contestazioni. Il governo italiano, infatti, si limita ad indicare che numerosi giudici di merito ritengono che tale ragionamento non sia sufficiente per considerare acquisita la prova di un siffatto trasferimento e fornisce solamente esempi di contribuenti che hanno ottenuto il rimborso di tributi in contrasto con il diritto comunitario, poiché in questi casi l’amministrazione non era riuscita a dimostrare al giudice adito che essi avevano trasferito i detti tributi.
35.
Orbene, il ragionamento alla base delle richiamate sentenze della Corte suprema di cassazione si fonda anch’esso su una premessa che altro non è che una presunzione, vale a dire che le imposte indirette siano in via di principio trasferite a valle della catena delle vendite da parte degli operatori economici quando ne hanno la possibilità. Gli altri elementi eventualmente presi in considerazione, cioè il carattere commerciale dell’attività del contribuente ed il fatto che la sua situazione finanziaria non sia deficitaria, nonché la riscossione del tributo in questione su tutto il territorio nazionale per un periodo rilevante e senza contestazioni, consentono, infatti, di concludere che un’impresa che ha esercitato la sua attività in un tale contesto abbia effettivamente trasferito i tributi in questione solo se ci si fonda sulla premessa che ogni operatore economico si comporta in tal modo, salvo nei casi particolari di assenza di uno qualsiasi dei detti elementi. Tuttavia, come la Corte ha già dichiarato (v. sentenze San Giorgio, citata, punti 14 e 15; 25 febbraio 1988, cause riunite 331/85, 376/85 e 378/85, Bianco e Girard, Racc. pag. I-1099, punto 17; Commissione/Italia, citata, punto 7, e Comateb e a., citata, punto 25), e per le ragioni di ordine economico ricordate dall’avvocato generale ai paragrafi 73-80 delle sue conclusioni, una siffatta premessa non si verifica in determinate circostanze e costituisce una semplice presunzione che non può essere ammessa in sede d’esame di domande di rimborso relative a imposte indirette in contrasto con il diritto comunitario.
36.
Per quanto concerne la richiesta di esibizione dei documenti contabili dell’impresa che domanda il rimborso di tributi in contrasto con il diritto comunitario, posta come condizione preliminare a qualsiasi rimborso, occorre tener conto delle seguenti considerazioni.
37.
Tale richiesta, relativa agli anni per i quali viene chiesto il rimborso e formulata nel periodo in cui i documenti contabili in questione devono obbligatoriamente essere conservati, non può essere considerata di per sé alla stregua di un inversione, a scapito dei soggetti passivi, dell’onere della prova relativa alla mancata traslazione del tributo su terzi. Siffatti documenti forniscono infatti dati di fatto neutri, basandosi sui quali l’amministrazione può, in particolare, cercare di dimostrare che i tributi sono stati trasferiti su altri soggetti (v., in tal senso, sentenza 2 ottobre 2003, causa C-147/01, Weber’s Wine World e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 115). Pertanto, salvo circostanze eccezionali di cui potrebbe avvalersi il ricorrente, la mancata produzione dei documenti contabili, quando essi sono stati richiesti dall’amministrazione, può essere considerata da quest’ultima o dal giudice un elemento di cui tener conto nella dimostrazione che i tributi sono stati trasferiti su terzi. Tuttavia tale elemento, da solo, non è sufficiente a far presumere che i detti tributi siano stati trasferiti su terzi, né, a maggior ragione, a far gravare sul ricorrente l’onere di confutare tale presunzione fornendo la prova contraria (v., in questo senso, sentenza Weber’s Wine World e a., citata, punto 116).
38.
In ogni caso, nelle situazioni in cui l’amministrazione chieda la produzione di tali documenti dopo la scadenza del loro termine legale di conservazione e il soggetto passivo non li esibisca, trarne la conclusione che quest’ultimo abbia trasferito i tributi in esame su terzi, o trarne la medesima conclusione salvo prova contraria che spetti al soggetto passivo fornire, equivarrebbe ad istituire una presunzione a carico di quest’ultimo, presunzione che renderebbe eccessivamente difficile l’esercizio del diritto al rimborso di tributi incompatibili con il diritto comunitario.
39.
Per quanto attiene al fatto che l’amministrazione reputa dimostrata la traslazione di un tributo su terzi quando l’importo del tributo in questione non è stato contabilizzato, a partire dall’anno del suo versamento, a titolo di anticipazione all’erario di tributi non dovuti, come credito all’attivo nel bilancio dell’impresa che ne chiede il rimborso, occorre dichiarare quanto segue.
40.
Tale ragionamento porta ad istituire un’ingiustificata presunzione a danno del ricorrente. Tenuto conto delle condizioni alle quali interviene una domanda di rimborso del tributo, infatti, iscrivere l’importo di tale tributo tra le voci attive del bilancio a partire dall’anno del suo versamento presuppone che il soggetto passivo ritenga fin da subito di poter contestare, con buone probabilità di successo, il suo pagamento, mentre, ai sensi dello stesso art. 29, primo comma, della legge n. 428/1990, egli dispone di un termine di diversi anni per proporre tale domanda. Il soggetto passivo, inoltre, anche se contesta il pagamento del tributo, può benissimo ritenere che le sue probabilità di successo non siano tanto certe da fargli assumere il rischio di contabilizzare l’importo corrispondente tra le voci attive del bilancio. A tale riguardo, tenuto conto delle difficoltà nell’ottenere una risposta favorevole ad una domanda di rimborso alle condizioni esposte in questa causa, tale iscrizione potrebbe anche rivelarsi in contrasto con i principi di una contabilità regolare. Per di più, la considerazione che la traslazione del tributo su terzi è dimostrata perché il suo importo non è stato riportato come credito nell’attivo di bilancio si fonda già sulla presunzione che le imposte indirette siano normalmente trasferite a valle della catena delle vendite, presunzione dichiarata in contrasto con il diritto comunitario nell’ambito dell’analisi del primo aspetto criticato dalla Commissione.
41.
Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo modificato l’art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990, che viene interpretato e applicato in sede amministrativa e da una parte significativa degli organi giurisdizionali – compresa la Corte suprema di cassazione – in modo tale da rendere l’esercizio del diritto al rimborso di tributi riscossi in violazione del diritto comunitario eccessivamente difficile per il contribuente, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato CE.
Sulle spese
42.
Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché nella fattispecie la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, va condannata alle spese.
Per questi motivi,
LA CORTE (seduta plenaria)
dichiara e statuisce:
1) Non avendo modificato l’art. 29, secondo comma, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, intitolata «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1990)», che viene interpretato e applicato in sede amministrativa e da una parte significativa degli organi giurisdizionali – compresa la Corte suprema di cassazione – in modo tale da rendere l’esercizio del diritto al rimborso di tributi riscossi in violazione del diritto comunitario eccessivamente difficile per il contribuente, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato CE.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.
Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 9 dicembre 2003.
Il cancelliere R. Grass
Il presidente V. Skouris