Da trenta anni gli stati hanno abdicato a favore del mercato il loro potere in economia e sulle relative pertinenze. Ne è derivata la depauperazione della politica, con la sottrazione dell’afflusso di personale di alto livello nei ceti dirigenti degli stati, con le conseguenze che l’Occidente sta pagando per l’incapacità di governare il capitalismo finanziario e i disastri delle sue ricadute. Ma la pessima gestione politica della crisi scoppiata in tutto il Nord dell’Africa e nel medio Oriente islamico sta dimostrando l’inadeguatezza complessiva della destra, al governo nella maggior parte dei Paesi occidentali, a governare il mondo senza distruzioni e senza massacri. Dall’abdicazione della politica è scaturita anche la depressione dell’antagonismo delle classi subalterne. Le ha frammentate, ne ha mistificato i bisogni, ne ha sfumato gli ideali, ne ha delegittimato la cultura, infondendole quella, più o meno imbellettata, dell’avversario di sempre. Ne ha così sterilizzato la capacità di produzione e di elaborazione del potenziale critico adeguato alle sfide attuali della mondializzazione, abbandonandole poi alla manipolazione dei capipopolo.
Fallisce la destra ed impressiona la incapacità della sinistra, tutta intera, di ritrovare una strategia politica di respiro mondiale. Una strategia che sarebbe ed è, invece, indispensabile come prospettiva, condizione, visione, fondamento per ciascuna sinistra in ciascuna parte di ciascun continente. L’internazionalismo si è atrofizzato. La ”seconda potenza mondiale”, internazionalista e pacifista, che all’inizio del 2000 si affacciò sul mondo mobilitando milioni e milioni di esseri umani contro ogni guerra, si è dissolta. C’è da domandarsi seriamente il perché. Non è da escludere, credo, che la scomparsa di tale “potenza” sia derivata dalla sua incapacità di esercitare il potere che aveva acquisito. Perché esercitarlo significava trattare. Sì, trattare con gli stati. Con ciascuno degli stati di riferimento da parte di ciascuna articolazione nazionale del pacifismo internazionale. Per ottenere quanto più semplice ed ovvio si possa e si debba chiedere. Rendere credibili le promesse, gli impegni, le norme dello Statuto delle Nazioni Unite. Pretendere cioè che l’ONU diventasse fedele a se stessa, al suo compito, alla sua ragion d’essere, quella di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”. Nulla di più rispondente alla cultura dell’ordine può esserci al mondo, nulla di più legale può concepirsi che la pretesa della legalità. Certo, una legalità diversa, opposta a quella che aveva dominato il mondo e ancora lo domina. Esattamente quella che avrebbe dovuto inventare e realizzare l’ONU, per eseguire il mandato conferitole dai popoli vittoriosi nella guerra rivoluzionaria antifascista.
La pace, per non restare inutilmente confinata nell’azzurro dei cieli, ha bisogno di forza, di quella adeguata a reprimere, in ogni pluralità di donne e di uomini, la violenza dei singoli, solitari o aggregati che siano, in bande, in mafie, o anche in partiti ed anche negli e per gli stati. Ha bisogno di forza regolata ed istituzionalizzata, perché non è altrimenti credibile, e, se non è credibile, non è. Non lo è e non lo sarà mai pienamente una delibera del Consiglio di sicurezza. Non soltanto perché composto anche dai membri provvisti del potere di veto che possono usare ed usano anche per sottrarsi al diritto che dettano. Non lo sarà soprattutto perché l’esecuzione di tali delibere è affidata agli “stati volenterosi”, fatalmente sospetti di inquinare con i loro interessi il se e i modi di esecuzione delle delibere. Infatti, quante di quelle relative ai diritti dei palestinesi non sono state eseguite? Nello Statuto dell’ONU questa forza organizzata era stata prevista, al Capo VII. Se ne rinviò sine die l’attuazione a causa della guerra fredda che è finita però da venti anni. Sarebbe tempo quindi di riprendere la questione dell’attuazione di quella istituzione essenziale allora, essenziale ora.
Essenziale per noi. Il “ripudio della guerra” sancito dalla nostra Costituzione, stante l’univoco suo significato letterale e stante lo spirito che lo impose, dovrebbe impedirci di fare i “volenterosi” se e quando l’esecuzione delle delibere del Consiglio di sicurezza, per i contenuti o anche per i modi di realizzazione, configuri dubbi, anche solo dubbi, di coerenza con gli obbiettivi “della pace e della giustizia” tra le Nazioni. So bene che questa interpretazione della norma costituzionale non è accolta. So bene che si preferisce una interpretazione che privilegia la subordinazione pura e semplice alle decisioni del Consiglio di Sicurezza. Ma conciliare quest’obbligo con la rigorosa applicazione di una norma costituzionale che segna l’alta civiltà giuridica raggiunta dalla lotta per il diritto con la nostra Costituzione dovrebbe essere un dovere per tutti noi. Per ricollegarci ad un stagione alta della storia del mondo e rilanciare dall’Italia una proposta credibile per la pace.