1. L’anno 2005 si chiude con due pronunce della Corte costituzionale aventi ad oggetto profili fondamentali quanto all’attuazione dell’art.123 Cost. in materia di procedimento di formazione degli statuti regionali (v. la sentenza n. 469/05 e l’ordinanza n. 479/05).
Identico l’oggetto, ma diverso il tipo di giudizio del giudice costituzionale.
Dette pronunce prendono le mosse da vicende parallele, legate all’ intricata approvazione di due fra i primi statuti varati dopo la riforma costituzionale del 1999: lo statuto della regione Umbria e quello dell’ Emilia Romagna.
Come è noto, questi atti sono stati impugnati dal Governo dopo la loro definitiva approvazione da parte dei rispettivi consigli regionali e hanno, quindi, costituito oggetto di altrettante sentenze della Corte. La quale, pur dichiarando la parziale incostituzionalità di alcune delle norme sottoposte al suo esame, non ha operato interventi tali da inficiare in modo sostanziale i contenuti statutari.
Le norme non passate al vaglio del giudice costituzionale erano, infatti, due analoghe disposizioni le quali, nel disciplinare l’organizzazione della Giunta avevano puntualmente previsto (e, nel caso dell’Umbria, regolato nel dettaglio) un’incompatibilità tra la carica di consigliere e quella di assessore regionale; in violazione – come la Corte rilevò in quelle sentenze – dell’art.122.1 Cost., che riserva la materia alla legge regionale “nei limiti dei principi fondamentali stabili con legge della Repubblica” (v. sentenza n.378 e n.379 del 2004).
Da qui la declaratoria di incostituzionalità delle due norme la cui caducazione, tuttavia, proprio in quanto riguardava profili che esulavano dalla competenza statutaria, risultava sostanzialmente ininfluente quanto ai rimanenti contenuti degli statuti medesimi, che apparivano mantenere intatta la loro unitarietà concettuale.
Tali sentenze hanno così aperto una serie di questioni relative al “seguito” che si sarebbe dovuto dare alle medesime. E cioè se esse, proprio in quanto non in grado di inficiare la rimanente delibera statutaria, non dovessero alterare il normale svolgimento del restante iter procedurale; ovvero se le stesse pronunce non dovessero essere considerate in modo diverso da una qualsiasi altra sentenza di incostituzionalità. Con la conseguenza, questa volta, di rendere necessaria una riattivazione dell’iter di approvazione e, con esso, delle competenze (del Consiglio, in primo luogo, ma anche del Governo) e delle operazioni (quali la ripresa del procedimento referendario una volta venute meno le attività già svolte, ex art. 3.4 legge dell’Umbria n.16/04 ed ex art.11.3 l. 29/00 dell’Emilia Romagna) che tale riattivazione avrebbe comportato.
Non poteva, quindi, non destare interesse la decisione presa da ambedue le regioni le quali, constatata la non necessità di operare ulteriori interventi sullo statuto, facevano in toto salve le precedenti deliberazioni e provvedevano, secondo il normale iter previsto ex art.123 Cost., alla sua promulgazione, una volta esauriti i termini per l’esercizio dell’iniziativa referendaria (v. la risoluzione approvata dal Consiglio regionale dell’Umbria nella seduta del 10.12.04 e la presa d’atto della sentenza della Corte assunta dal Consiglio dell’Emilia Romagna nella seduta del 18.1.05).
Una decisione, questa, che, sia pure suggerita da motivi (sicuramente validi) di economia procedimentale, legati all’ imminente chiusura dei lavori consiliari per fine legislatura, tralasciava evidentemente di considerare, con la dovuta attenzione, profili di sicuro rilievo quanto alle regolari modalità di approvazione degli atti in esame.
La questione riguardava, in primo luogo, la valida manifestazione della volontà del Consiglio, il quale, in ambedue i casi, aveva adottato tali deliberazioni, non solo derogando all’iter previsto dall’art.123 Cost., ma altresì con una maggioranza – la maggioranza semplice – diversa da quella richiesta per l’approvazione dello statuto. Essa, investiva, inoltre il corretto svolgimento di un eventuale referendum confermativo, il cui quesito non sarebbe stato più rispondente, sia nella forma che nella sostanza, al testo così come definito prima dell’intervento della Corte.
Una decisione, dunque, tutt’altro che univoca e scontata: tant’è che le due regioni avevano sentito la necessità di acquisire il parere del Consiglio di Stato, il quale si era espresso in senso decisamente contrario (v. Consiglio di Stato, sez. I, parere 12 gennaio 2005 n. 12036/04 e n.12054/04 ).
A fronte di tale promulgazione, dunque, il Governo provvedeva ad impugnare, entro i sessanta giorni dalla pubblicazione sul Bollettino Ufficiale, la “legge regionale” 31 marzo 2005 n.13 (Statuto della regione Emilia Romagna)” la “legge regionale” 16 aprile 2005 n. 21 (Nuovo statuto della regione Umbria), utilizzando, in via sussidiaria, il meccanismo di controllo previsto per le normali leggi ordinarie (v., rispettivamente, le delibere del Consiglio dei ministri 13 e 20 maggio 2005). Nei rispettivi ricorsi, esso denunciava l’illegittimità delle leggi statutarie regionali, le quali erano state varate in violazione sia delle regole del procedimento previste ex art.123 Cost. sia in violazione del diritto di richiedere il referendum popolare, previsto nella medesima disposizione.
Allo stesso modo, a fronte di detta promulgazione, alcuni cittadini, nel frattempo attivatisi quali promotori del referendum confermativo dello statuto umbro, sollevavano conflitto di attribuzione di fronte alla Corte. Essi lamentavano, da parte loro, l’illegittimità della procedura seguita dalla regione la quale, in violazione delle prerogative ad essi stessi riconosciute, non aveva provveduto ad una nuova approvazione e pubblicazione dell’atto statutario. Sempre a difesa delle loro ragioni, i medesimi proponevano, poi, intervento, sia come singoli sia come rappresentati del comitato promotore, nel giudizio principale promosso dal Governo.
Da qui le pronunce in esame, con le quali la Corte, nel respingere, perchè inammissibili, i ricorsi sopra richiamati, ha affrontato, in entrambi i casi, interessanti questioni quanto alle problematiche, sia di carattere procedurale che sostanziale, legate alla loro promozione.
2. Non è naturalmente possibile dare conto di tutte le questioni esaminate. Quello che, invece, vorremmo, qui sottolineare sono i profili strettamente legati all’impugnativa del Governo che, della prima pronuncia, costituiscono l’oggetto principale e che, così come risolti dal giudice costituzionale, vengono a completare il percorso interpretativo iniziato dalla Corte con l’ormai lontana sentenza n. 304/02. Ci riferiamo, cioè, ai profili legati all’ammissibilità di interventi, quale quello in esame, che, nella logica del controllo preventivo messa a punto dal giudice costituzionale, risultino necessari al fine di verificare l’esistenza di vizi determinatisi dopo la pronuncia della Corte.
All’indomani dei ricorsi presentati dall’Esecutivo, molti, infatti, gli interrogativi da questi suscitati. Appariva, in vero, di tutta evidenza, come essi, pur indotti – nella prospettiva del Governo – dalla necessità di eliminare vizi che così profondamente venivano ad incidere sull’ordinaria procedura di approvazione degli statuti, non solo sovvertivano il sistema dei controlli previsti in Costituzione, ma si ponevano in palese contraddizione proprio con quanto sancito dallo stesso organo costituzionale nella sentenza sopra richiamata. Questo, infatti, nell’interpretare l’art.123 Cost., aveva ben messo in evidenza la necessaria differenzazione dei regimi riservati alle due fonti (quella ordinaria e quella statutaria), dal momento che – aveva tenuto a sottolineare la Corte – “pieno riconoscimento di autonomia statutaria e controllo preventivo di legittimità costituzionale (rappresentano) nel sistema della legge costituzionale n.1 del 1999, un binomio inscindibile”, che attribuisce a tale controllo, proprio in considerazione della particolare collocazione dello statuto nel sistema delle fonti, una valenza che nulla può avere in comune con il controllo esercitato sulle restanti leggi regionali (v. punto 1 del considerato in diritto, sentenza n. 304/02).
Alla luce di questa giurisprudenza, si era così subito criticata l’iniziativa del Governo, opponendo ad essa soluzioni che apparivano più conformi alla logica istituzionale prospettata dalla Corte in quella sentenza.
La prima soluzione era quella indicata da chi sottolineava come l’Esecutivo ben avrebbe potuto riattivare il meccanismo previsto ex art.123 Cost., assumendo, questa volta, quale pubblicazione notiziale, gli avvisi, apparsi nei rispettivi bollettini ufficiali dell’Umbria e dell’Emilia Romagna, della sentenza di incostituzionalità delle norma statutaria e della delibera del Consiglio regionale con la quale esso aveva “preso atto” della pronuncia della Corte (C. Padula, Problema dell’annullamento parziale dello statuto: conseguenze sul procedimento statutario, in www. Forumcostituzionale.it, 2005).
La seconda era quella di chi , come la sottoscritta (M. C. Grisolia, Gli statuti regionali dalla teoria alla prassi, di prossima pubblicazione in Le fonti del diritto oggi. Giornate di studio in onore di A. Pizzorusso, ed. Plus, Pisa, 2006), abbandonando la strada del controllo preventivo di legittimità, sottolineava come il Governo avrebbe, piuttosto, dovuto ricorrere allo strumento del conflitto di attribuzione. Conflitto che questo avrebbe potuto sollevare o contro gli atti consiliari o contro la stessa promulgazione dello statuto da parte del Presidente della Giunta. E ciò – si faceva notare – se solo si fosse voluto condividere la tesi di chi, nonostante le molte differenze esistenti tra quest’ultimo organo e il Capo dello Stato, aveva in passato prospettato la possibilità che, almeno nei casi di più grave irregolarità formale, si potesse riconosce anche ad esso un potere di rinvio simile a quello di cui dispone il Presidente della Repubblica all’atto della promulgazione della legge statale (L. Paladin, Diritto regionale, Cedam, Padova, 2000; Spagna Musso, Corso di diritto regionale, Cedam, Padova, 1987).
La terza, infine, era la soluzione indicata da chi affidava ogni giudizio circa la legittimità dello statuto a future impugnative, promosse in via incidentale. Un’ipotesi, questa, cha appariva tutt’altro che di difficile applicazione. E ciò in considerazione del fatto che i vizi in questione – in grado di per sé di determinare l’inesistenza o la nullità dell’atto statutario – ben avrebbero potuto inficiare qualsiasi legge che fosse ad esso conseguente, una volta promosso il giudizio della sua legittimità di fronte alla Corte. (A. Ferrara, I nuovi statuti delle regioni ad autonomia ordinaria. Il procedimento di formazione e revisione, in www.issirfa.cnr.it., 2005).
La sentenza di inammissibilità appena pronunciata era, quindi, più che attesa. E, tuttavia, nonostante la prevedibilità della decisione del giudice costituzionale, non pochi gli elementi di novità che arricchiscono questa pronuncia. Essa, infatti, confermando in gran parte le ipotesi disorganicamente espresse dalla dottrina, le ha ridotte a sistema, contribuendo, come già all’inizio sottolineato, a fare definitiva chiarezza sulla ambigua e per molti versi lacunosa disposizione costituzionale.
A tal fine, la Corte, ribadita la sostanziale differenza fra i meccanismi, rispettivamente, previsti ex art.123 ed ex art.127 della Costituzione (il primo, a carattere preventivo, in “ragione dei rilevanti contenuti statutari e della posizione della fonte statutaria rispetto all’ordinamento della regione”; il secondo, a carattere successivo, riservato alle “ordinarie leggi regionali”), si sofferma con minuta attenzione sui caratteri del primo, completando il sistema a fronte di tutti quei vizi che, come nei casi di specie, fossero sopraggiunti dopo la prima impugnazione. E ciò senza contraddire, come invece aveva ritenuto di poter fare il Governo, quella logica di netta separazione tra i due tipi di controllo che il giudice costituzionale aveva, a suo tempo, affermato nella sentenza n. 304/02 e che aveva appena ribadito in questa pronuncia.
Come la Corte ha subito sottolineato, infatti, deve ritenersi assolutamente preclusa qualsivoglia forma di contaminazione fra i due sistemi, sia pure essa limitata ad una funzione meramente sussidiaria. E ciò – come ha ancora rilevato il giudice costituzionale – non solo per la logica esclusione nei confronti del regime “meno favorevole” (perché preventivo) di ulteriori forme di gravame, ma anche in necessaria coerenza (potremmo dire “armonia”) con il generale disegno costituzionale. Disegno, che, nel regolare le forme dell’autonomia delle regioni non consente – come ha infine concluso la Corte – “nel silenzio delle disposizioni costituzionali”, l’estensione “di forme di controllo tipiche di una fonte legislativa ad un’altra”.
3. Quali, dunque, i rimedi indicati dal giudice costituzionale a completamento del sistema.
Nella “logica separatistica” prescelta, esso non poteva che ricavarli dai principi già espressi nella sua giurisprudenza, vigente il vecchio testo dell’art.127 Cost., riproponendoli per l’analogo controllo oggi previsto nei confronti degli statuti regionali.
In analogia con quanto affermato in quella giurisprudenza, la Corte ha così, in primo luogo, ammesso la possibilità di eventuali reiterazioni del meccanismo di controllo previsto ex art.123 Cost. al fine di ripromuovere, sia pure a “certe condizioni”, la questione di legittimità dell’atto statutario. E ciò in riferimento a quei vizi – come appunto affermato in quella giurisprudenza – che si riferiscano a parti o procedure che non abbiano costituito oggetto del primo giudizio.
“Non può escludersi, infatti – ha precisato il giudice costituzionale – che il testo della delibera statutaria, già sottoposto ad un primo scrutinio di questa Corte, venga successivamente modificato ad opera del Consiglio regionale e che questo nuovo testo susciti dubbi di legittimità costituzionale sul piano sostanziale in relazione alle nuove disposizioni, con la conseguente possibilità per il Governo di promuovere una nuova impugnazione limitatamente alle norme che non avrebbero potuto formare oggetto del precedente ricorso ; analogamente – ha concluso la Corte – non può escludersi per il Governo la possibilità di presentare un nuovo ricorso facendo valere eventuali vizi formali relativi al procedimento di adozione dello statuto e successivi al primo giudizio di questa Corte”.
Né il giudice costituzionale ha voluto trascurare la possibilità di fornire, a riguardo, ulteriori indicazioni; quasi a “monito” di Governo e regioni quanto al futuro esercizio delle rispettive competenze.
A tal fine la Corte si sofferma opportunamente su quello che, nella sua ricostruzione, poteva risultare un elemento non risolto.
Ci riferiamo, naturalmente, alla pubblicazione notiziale. prevista ex art.123 Cost. per far valere il primo ricorso del Governo e ora di nuovo in rilievo, una volta ammessa la nuova impugnativa. E ciò per l’evidente necessità, in difetto di qualsivoglia disposizione normativa, di definire con una qualche certezza il dies a quo, cui ricondurre i termini per il nuovo intervento del Governo.
In tale prospettiva, il giudice costituzionale, ribadita la diversità di significato che il termine “pubblicazione” assume ex art. 123 ed ex art.127 della Costituzione (la “pubblicazione” notiziale della delibera statutaria non ancora promulgata, da un lato, e la “pubblicazione” della legge previamente promulgata, dall’altro), ricava implicitamente da tale diversità anche gli elementi atti a risolvere la delicata questione. Così, messa al bando qualsivoglia “tipicità”, difficilmente applicabile a meccanismi volti alla verifica di atti non definitivi ma ancora in via di formazione, si è piuttosto fatto riferimento alla pubblicazione notiziale di qualsivoglia “atto” – sia pure esso non formale – da cui possa comunque risultare “ il testo statutario che la regione intenda deliberato come definitivo”. Vuoi che esso sia –come nel caso dell’Umbria – la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della prima sentenza della Corte, unitamente all’avviso dell’avvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma impugnata; vuoi – sempre nel caso dell’Umbria – che esso sia la risoluzione del Consiglio regionale con la quale si invitava il Presidente della Giunta a promulgare; vuoi, infine, che esso sia – nel caso, questa volta, dell’Emilia Romagna – la delibera consigliare di “presa d’atto” della pronuncia della Corte.
Sono questi, a prima esemplificazione, gli “atti” dalla cui data di pubblicazione ricondurre il dies a quo per la seconda impugnazione. Atti che, proprio in quanto privi di una qualche omogeneità, ampliano, piuttosto che restringere, le possibilità di impugnazione delle delibere statutarie, rendendo, se del caso, assai più penetrante e capillare il meccanismo di controllo previsto ex art. 123 Cost.
Il giudice costituzionale poteva anche fermarsi qui; esaurite, ormai, le questioni legate alla ricostruzione del sistema. Esso, invece, è voluto andare oltre, non rinunciando a fornire ulteriori elementi a sua definitiva chiusura.
Giunta ormai al termine della pronuncia, la Corte non ha così voluto perdere l’occasione per completare il già nutrito “armamentario” messo a disposizione dell’Esecutivo, prospettando ad esso anche la possibilità di utilizzare lo strumento del conflitto di attribuzione, quale ulteriore rimedio all’illegittimo esercizio della potestà statutaria
. Essa, rinviando di nuovo alla giurisprudenza espressa nel vigore del previgente art.127 Cost., ha così indicato al Governo il suo eventuale impiego, quale meccanismo, sia pur esso residuale, utilizzabile contro l’atto di promulgazione dello statuto “in ipotesi incostituzionale per vizi non rilevabili tramite il procedimento di cui all’art.123, secondo comma, Cost.”, così come appena ricostruito dalla Corte medesima.
Vero è che, proprio per il rilievo dell’affermazione appena fatta, ben avrebbe potuto il giudice costituzionale fornire maggiori argomenti a riguardo, spendendo qualche parola in più.intorno ad un istituto, come quello dei conflitti, di cui sono note le difficoltà di utilizzazione e che, nonostante la dichiarata residualità, potrebbe anche risultare di tutt’altro che infrequente applicazione.
Nonostante ciò, tuttavia, immodificato resta il rilievo e l’importanza di questa pronuncia, che, malgrado la declaratoria di inammissibilità, fornisce al Governo sì numerose indicazioni da risarcirlo in toto del netto rifiuto..
. Quello che alla fine emerge è un meccanismo di controllo che, a dispetto della nuova autonomia riconosciuta agli statuti regionali, finisce per sottoporre i medesimi ad un regime che, per assurdo, risulta essere quasi più gravoso del regime riservato ad una qualsiasi altra legge regionale.
Certo non si può dire che le regioni non se lo siano in qualche modo meritato. A tacere d’altro, le vicende oggetto della pronuncia in esame, ne sono già una significativa riprova. E, però, nonostante le carenze e le irregolarità che hanno in non pochi casi accompagnato l’approvazione dei primi statuti, non si può non guardare, con una certa preoccupazione, ai possibili sviluppi di questa sentenza. Non vi è dubbio, infatti, che i principi espressi dalla Corte, se male interpretati, potrebbero aumentare la già considerevole conflittualità che ha fino ad oggi caratterizzato la stagione statutaria apertasi con l’ormai lontana riforma del 1999 e ancora lontana dall’essere definitivamente conclusa.