La cosiddetta legge Severino (d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235) sarebbe incostituzionale e la Giunta per le elezioni del Senato dovrebbe sospendere la decisione sulla decadenza da parlamentare di Silvio Berlusconi per far pronunciare la Corte costituzionale. Questa la proposta del Pdl, sostenuta anche da alcuni giuristi. È una tesi fondata? Vediamo nel merito gli argomenti prospettati a sostegno.
Le ragioni di incostituzionalità sarebbero essenzialmente tre. In primo luogo, si sostiene la violazione dell’articolo 65 della Costituzione che prevede sia la legge a stabilire le cause di ineleggibilità e incompatibilità dei parlamentari. In secondo luogo, si denuncia il non rispetto dell’articolo 66 che riserva alla Camera il giudizio sulle cause sopraggiunte. Infine, si afferma la violazione dell’articolo 25 (e della normativa CEDU) che vieta la retroattività delle “pene”.
Nel primo caso si sostiene che la “incandibabilità” (che è stato introdotta per le Regioni e gli enti locali sin dalla legge n. 16 del 1992) non sarebbe riconducibile alle cause di “ineleggibilità”, le uniche per le quali la costituzione (all’articolo 65) ammette per il Parlamento una limitazione del diritto di elettorato passivo. Peccato però che la Corte costituzionale ha, in più occasioni, già affermato che l’istituto della “incandibabilità” va considerata una causa particolare di ineleggibilità (vedi in tal senso le sentenze 407 del 1992, 141 del 1996 e 132 del 2001). Dunque, l’organo al quale ci si vuole rivolgere per risolvere la questione proposta s’è già pronunciato. Perché mai l’incandidabilità, se riferita ai parlamentari, dovrebbe d’improvviso mutare di natura? Solo per rendere non applicabile l’articolo 65?
Ma v’è di più. In questa prospettiva non si considera che il fondamento costituzionale della legge Severino non è solo l’articolo 65, ma è anche una legge che dà attuazione all’articolo 48, quarto comma, che stabilisce limitazioni al diritto di voto (e dunque, secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale, anche di elettorato passivo); all’articolo 51, primo comma, che rinvia alla legge ordinaria la definizione dei requisiti per poter accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza; all’articolo 68, secondo comma, che esclude la necessità di un’autorizzazione della Camera di appartenenza per dare esecuzione ad una sentenza irrevocabile di condanna.
Più delicato il discorso sulla presunta violazione dell’articolo 66. La legge Severino è esplicita sul punto, ed espressamente assegna alla Camera di appartenenza il giudizio sulle cause di incandidabilità “sopraggiunte” proprio “ai sensi dell’art. 66 della Costituzione”. Perché dunque ci si lamenta? Qui il dibattito politico in corso ha confuso un poco le acque. Almeno dal punto di vista del diritto costituzionale dovrebbe essere chiaro che non esiste un obbligo giuridico nel dichiarare la decadenza del parlamentare. Il Parlamento non è dunque chiamato a un “atto dovuto” che finirebbe per vanificare la garanzia di autotutela contenuta in Costituzione. Che l’ultima parola spetti alla Camera è indubbio, tant’è che siamo in attesa delle decisioni della Giunta e poi dell’Aula. La vera questione è però un’altra. In quali casi il Senato potrebbe decidere di non far decadere Silvio Berlusconi?
Nel rispetto dell’autonomia degli organi costituzionali e della divisione dei poteri in una sola ipotesi: qualora si convenisse che la decisione della Cassazione sia stata un fatto eversivo, non si sia mantenuta entro la propria sfera di competenza, abbia attentato alla libertà politica del parlamentare. Il Parlamento non può, infatti, discutere nel merito la decisione dei magistrati, non può valutare la correttezza o meno della decisone (la divisione dei poteri lo impedisce), può solo salvaguardare la propria autonomia e quella dei suoi membri ove ritenesse siano state lese. Potrebbe solo far propria la tesi sostenuta dai falchi del Pdl, ammettere che siamo nelle mani di giudici eversori, salvare Berlusconi e apprestare misure idonee a ripristinare la democrazia proditoriamente violata. È questa la posta in gioco. Andando, se possibile, oltre la propaganda politica, penso che nessuna forza politica responsabile in Italia possa immaginare uno scenario di questo tipo. Il Presidente Napolitano ha chiaramente sostenuto la tesi opposta: è necessario anzitutto che tutte le parti in causa – il Pdl e Silvio Berlusconi in primo luogo – riconoscano la legittimità dei comportamenti e rispettino le decisioni dei giudici. Non vedo come le altre forze – il Pd anzitutto – possano immaginare di discostarsi e cedere alle ubbie dei più estremisti. È questo che rende la decisione sulla decadenza di Berlusconi una strada parlamentare obbligata, almeno dal punto di vista politico-costituzionale.
Sulla diversa questione della presunta irretroattività della legge Severino ci sarebbe molto da dire. Qui, in sintesi, può ricordarsi l’essenziale. Si tratta in questo caso di accertare se l’incandidabilità e la conseguente decadenza da parlamentare rappresenti o meno una norma penale, poiché solo per queste la costituzione impone il divieto di retroattività. È vero che oggi sono più sfumati rispetto al passato i confini tra sanzioni penali e amministrative o, più in generale, leggi civili. E a leggere la giurisprudenza nazionale e, soprattutto, quella della Corte di Strasburgo, non appare più sufficiente richiamarsi ad un criterio formale per delimitare il campo della norma ritenuta propriamente “penale”. Ciò non toglie però che nel nostro caso l’interpretazione sul “tipo” di norma e sulla retroattività è già stata chiaramente formulata dai giudici e non si vede per quale ragione ci si dovrebbe ora discostare dai precedenti. Il Consiglio di Stato nel febbraio di quest’anno (sez. V, n. 695 del 2013) si è espresso sul punto ritenendo applicabile la norma dell’incandidabilità anche con riferimento ai reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge Severino. La Corte costituzionale, in tempi non sospetti, ha esplicitamente escluso possa configurarsi l’incandidabilità come una sanzione penale, ma essa determina il venir meno di un “requisito soggettivo” per l’accesso alle cariche elettive (sent. 132 del 2001).
Rimane da dire della richiesta di far sollevare la questione di costituzionalità dalla Giunta per le elezioni del Senato, nonostante la legge che regola i giudizi della Corte costituzionale (l. n. 87 del 1953) sembra escluderlo, riservando tale possibilità solo al “giudice nel corso di un giudizio” . Una richiesta assai innovativa che si fonda – dal punto di vista del diritto costituzionale – su due argomenti. La prima è l’affermazione – condivisa dalla Corte costituzionale (sent. 259 del 2009) – della “natura giurisdizionale” del controllo compiuto dalla Giunta in sede di giudizio sui titoli di ammissione (e dunque sulla causa di sopraggiunta decadenza). La seconda sulle aperture della Consulta che in alcuni definiti casi ha riconosciuto un’attività di carattere oggettivamente giurisdizionale a soggetti non facenti parte integrante dell’ordine della magistratura (dalla commissione disciplinare del CSM ai Collegi arbitrali). Il punto decisivo appare però il seguente: anche ammessa la “natura giurisdizionale” dall’attività della Giunta, il requisito necessario in base al quale la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale appena richiamata s’è potuta fondare è l’accertamento della terzietà e imparzialità dell’organo che esprime il giudizio. Ora chi può pensare che il giudizio espresso da un organo politico (la Giunta per le elezioni) possa rappresentarsi come terzo e imparziale? Non vi è nessuna demonizzazione della politica in questa osservazione, ma anzi un porre la questione nel suo giusto rilievo: la decisone sulla decadenza è demandata alle Camere proprio per salvaguardare l’autonomia politica dell’organo della rappresentanza popolare. Nel controllo operato dalla Giunta, la politicità non è separabile dal giudizio. In fondo basta guardare al dibattito in corso: tutto ruota attorno alla questione propriamente politica della possibilità che il leader carismatico del centrodestra sia impedito nella propria “agibilità politica”.
V’è infine un ultimo, ma decisivo, ostacolo alla proponibilità della questione di legittimità costituzionale da parte della Giunta. È giurisprudenza costituzionale costante (tra le tante decisioni in tal senso le sentenze 40 del 1963 e 226 del 1976) che per poter rivolgersi alla Corte costituzionale è necessario che all’organo spetti effettivamente decidere nel giudizio in corso. Così, ad esempio, non il pubblico ministero, che non ha poteri decisori “ultimativi”, bensì il giudice. Ora si dà il caso che la Giunta non deciderà alcunché, avendo solo un potere di proposta per l’Assemblea che si dovrà pronunciare in via definitiva solo in un secondo momento, in base all’esito del lavoro istruttori compiuto dalla Giunta. Dunque, a tutto concedere, dovrebbe essere l’Aula l’organo competente a sollevare la questione di fronte alla Consulta. Ma chi può credere che il Senato in quanto tale (l’Assemblea lo rappresenta nella sua integrità) possa essere considerato un giudice imparziale e terzo?