Corte di giustizia: il diritto comunitario osta ad una normativa nazionale, che consente la revoca di un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali senza limitazioni, quando la persona interessata abbia la qualità di «lavoratrice gestante» e la decisione di revoca adottata nei suoi confronti sia basata essenzialmente sul suo stato di gravidanza

SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)

11 novembre 2010 (*)

«Politica sociale − Direttiva 92/85/CEE − Misure dirette a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento − Artt. 2, lett. a), e 10 − Nozione di “lavoratrice gestante” − Divieto di licenziamento di una lavoratrice gestante durante il periodo che va dall’inizio della gravidanza fino al termine del congedo di maternità − Direttiva 76/207/CEE − Parità di trattamento fra uomini e donne − Membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali − Normativa nazionale che consente il licenziamento di un tale soggetto senza alcuna limitazione»

Nel procedimento C‑232/09,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dall’Augstākās Tiesas Senāts (Lettonia), con decisione 13 maggio 2009, pervenuta in cancelleria il 25 giugno 2009, nella causa

Dita Danosa

contro

LKB Līzings SIA,

LA CORTE (Seconda Sezione),

composta dal sig. J.N. Cunha Rodrigues, presidente di sezione, dai sigg. A. Arabadjiev, A. Rosas, A. Ó Caoimh (relatore) e dalla sig.ra P. Lindh, giudici,

avvocato generale: sig. Y. Bot

cancelliere: sig.ra C. Strömholm, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 1° luglio 2010,

considerate le osservazioni presentate:

– per la sig.ra Danosa, dagli avv.ti V. Liberte, zvērināta advokāte, e A. Rasa, zvērināta advokāta palīgs,

– per la LKB Līzings SIA, dall’avv. L. Liepa, zvērināts advokāts, nonché dalla sig.ra S. Kravale e dal sig. M. Zalāns,

– per il governo lettone, dalle sig.re K. Drēviņa e Z. Rasnača, in qualità di agenti,

– per il governo ellenico, dal sig. M. Apessos, nonché dalle sig.re S. Trekli e S. Vodina, in qualità di agenti,

– per il governo ungherese, dalla sig.ra R. Somssich, dal sig. M. Fehér e dalla sig.ra K. Szíjjártó, in qualità di agenti,

– per la Commissione europea, dai sigg. A. Sauka e M. van Beek, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 2 settembre 2010,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE) (GU L 348, pag. 1).

2 Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia fra la sig.ra Danosa e la LKB Līzings SIA (in prosieguo: la «LKB») relativamente alla decisione dell’assemblea dei soci di detta società a responsabilità limitata di revocare la sig.ra Danosa dalle funzioni di membro del consiglio di amministrazione di detta società.

Contesto normativo

La normativa dell’Unione

La direttiva 76/207/CEE

3 L’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE (GU L 269, pag. 15; in prosieguo: la «direttiva 76/207»), dispone che «[a]i sensi delle seguenti disposizioni il principio di parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia».

4 L’art. 2, n. 7, della direttiva 76/207 stabilisce che la direttiva in parola «non pregiudica le misure relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità». È inoltre previsto che qualunque trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE costituisce una discriminazione ai sensi della direttiva 76/207.

5 Ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207:

«L’applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne significa che non vi deve essere discriminazione diretta o indiretta in base al sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene:

(…)

c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione (…)».

La direttiva 86/613/CEE

6 L’art. 1 della direttiva del Consiglio 11 dicembre 1986, 86/613/CEE, relativa all’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, ivi comprese le attività nel settore agricolo, e relativa altresì alla tutela della maternità (GU L 359, pag. 56), è così formulato:

«La presente direttiva è intesa ad assicurare, in conformità delle disposizioni che seguono, l’attuazione, negli Stati membri, del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne che svolgono un’attività autonoma o che contribuiscono all’esercizio di un’attività autonoma, per gli aspetti che non sono contemplati dalle direttive 76/207/CEE e 79/7/CEE [del Consiglio 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24)]».

7 L’art. 2, lett. a), della direttiva 86/613 definisce lavoratore autonomo chiunque eserciti, nelle condizioni previste dalla legislazione nazionale, un’attività lucrativa per proprio conto.

8 L’art. 3 di tale direttiva dispone che il principio della parità di trattamento ai sensi della stessa direttiva implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, sia direttamente sia indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o familiare.

9 L’art. 8 della medesima direttiva stabilisce quanto segue:

«Gli Stati membri si impegnano ad esaminare se e a quali condizioni le lavoratrici che svolgono un’attività autonoma e le mogli di lavoratori che svolgono un’attività autonoma, possano, nel corso di interruzioni di attività per gravidanza o per maternità,

– avere accesso a servizi di sostituzione o a servizi sociali esistenti nel loro territorio, o

– ricevere prestazioni in denaro nell’ambito di un regime di previdenza sociale oppure di ogni altro sistema di tutela sociale pubblica».

La direttiva 92/85

10 I ‘considerando’ nono e quindicesimo della direttiva 92/85 sono così formulati:

«considerando che la protezione della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento non deve svantaggiare le donne sul mercato del lavoro e non pregiudica le direttive in materia di uguaglianza di trattamento tra uomini e donne;

(…)

considerando che il rischio di essere licenziate per motivi connessi al loro stato può avere effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento e che conseguentemente conviene prevedere un divieto di licenziamento».

11 L’art. 2, lett. a), della direttiva 92/85 definisce lavoratrice gestante «ogni lavoratrice gestante che informi del suo stato il proprio datore di lavoro, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali».

12 L’art. 10 della medesima direttiva stabilisce che:

«Per garantire alle lavoratrici [gestanti, puerpere o in periodo di allattamento], ai sensi dell’articolo 2 l’esercizio dei diritti di protezione della sicurezza e della salute riconosciuti nel presente articolo, ai sensi dell’art. 2:

1) gli Stati membri adottano le misure necessarie per vietare il licenziamento delle lavoratrici di cui all’articolo 2 nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità di cui all’articolo 8, paragrafo 1, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato ammessi dalle legislazioni e/o prassi nazionali e, se del caso, a condizione che l’autorità competente abbia dato il suo accordo;

2) qualora una lavoratrice ai sensi dell’articolo 2 sia licenziata durante il periodo specificato nel punto 1), il datore di lavoro deve fornire per iscritto giustificati motivi per il licenziamento;

3) gli Stati membri adottano le misure necessarie per proteggere le lavoratrici di cui all’articolo 2 contro le conseguenze di un licenziamento che a norma del punto 1) è illegittimo».

La normativa nazionale

Il codice del lavoro

13 L’art. 3 del codice del lavoro (Darba likums, Latvijas Vēstnesis, 2001, n. 105) definisce il lavoratore come una persona fisica che, sulla base di un contratto di lavoro e in cambio di una retribuzione pattuita, svolge un determinato lavoro sotto la direzione di un datore di lavoro.

14 L’art. 4 del medesimo codice definisce il datore di lavoro come una persona fisica o giuridica, o una società di persone dotata di personalità giuridica, che occupa almeno un lavoratore in base ad un contratto di lavoro.

15 L’art. 44, n. 3, del codice in parola così prevede:

«I membri degli organi direttivi delle società di capitali vengono assunti con contratti di lavoro solo qualora non siano assunti in base ad altri contratti di diritto privato. Se con i membri degli organi direttivi di una società di capitali è stipulato un contratto di lavoro, tale contratto è concluso a tempo determinato».

16 L’art. 109 del codice del lavoro, intitolato «Divieti e limitazioni posti al datore di lavoro in materia di licenziamento», dispone quanto segue:

«1. Il datore di lavoro non può risolvere il contratto di una lavoratrice gestante, né per i dodici mesi successivi al parto né, in caso di allattamento, per l’intera durata di tale periodo, ad eccezione dei casi di cui all’art. 101, n. 1, punti 1, 2, 3, 4, 5 e 10».

Il codice del commercio

17 L’art. 221 del codice del commercio (Komerclikums, Latvijas Vēstnesis, 2000, n. 158/160) è così redatto:

«1. Il consiglio di amministrazione è l’organo esecutivo che dirige e rappresenta la società.

(…)

5. Il consiglio di amministrazione è tenuto a fornire informazioni all’assemblea dei soci in ordine agli atti conclusi fra la società e un socio, un membro del comitato di vigilanza o un membro del consiglio di amministrazione.

6. Il consiglio di amministrazione è tenuto a fornire al comitato di vigilanza, almeno una volta a trimestre, una relazione sull’attività e sulla situazione finanziaria della società e ad informare tempestivamente il comitato di vigilanza in ordine al deterioramento della situazione finanziaria della società o ad altre circostanze rilevanti per l’attività commerciale della società.

(…)

8. I membri del consiglio di amministrazione hanno diritto ad una retribuzione proporzionata alle loro responsabilità e allo stato finanziario della società. L’importo della retribuzione è determinato con decisione del comitato di vigilanza o, qualora esso non sia stato istituito, dall’assemblea dei soci».

18 L’art. 224 del Codice del commercio, intitolato «Nomina e revoca dei membri del consiglio di amministrazione», dispone quanto segue:

«1. I membri del consiglio di amministrazione sono nominati e revocati dall’assemblea dei soci. Quest’ultima comunica all’ufficio del registro delle imprese la revoca del mandato dei membri del consiglio, la modifica dei loro poteri di rappresentanza o la nomina di nuovi membri. A tale comunicazione è allegata copia del verbale dell’assemblea dei soci in cui è stata adottata la decisione di cui trattasi.

(…)

3. I membri del consiglio di amministrazione sono nominati per tre anni, salvo che lo statuto preveda un periodo più breve.

4. I membri del consiglio di amministrazione possono essere revocati con decisione dei soci. Se la società dispone di un comitato di vigilanza, quest’ultimo può sospendere i membri del consiglio di amministrazione dalle loro funzioni fino alla successiva assemblea dei soci, per un periodo non superiore a due mesi.

(…)

6. Lo statuto può prevedere che i membri del consiglio di amministrazione siano revocabili solo per gravi motivi. Per grave motivo si intende fra l’altro la violazione del mandato, il mancato adempimento degli obblighi, l’incapacità di dirigere la società, il compimento di atti contrari agli interessi della società, nonché la perdita della fiducia».

La legge sulle assicurazioni sociali

19 La legge sulle assicurazioni sociali (Likums par valsts sociālo apdrošināšanu, Latvijas Vēstnesis, 1997, n. 274/276), che stabilisce i principi fondamentali in materia di assicurazioni sociali e disciplina le pertinenti strutture finanziarie e organizzative, all’art. 1, lett. c), riconosce quali lavoratori subordinati i membri del consiglio di amministrazione delle società commerciali.

Causa principale e questioni pregiudiziali

20 La Latvijas Krājbanka AS, una società per azioni, con decisione del 21 dicembre 2006, relativa alla costituzione della LKB, nominava la ricorrente nella causa principale membro unico del consiglio di amministrazione («valde») di quest’ultima società.

21 Con una decisione dell’11 gennaio 2007, il comitato di vigilanza («padome») della LKB fissava la retribuzione dei membri del consiglio di amministrazione di detta società, nonché altre condizioni annesse, e incaricava il presidente di concludere gli accordi necessari per garantire l’esecuzione di detta decisione.

22 Secondo la decisione di rinvio, non veniva concluso alcun contratto di diritto privato avente ad oggetto l’esecuzione degli obblighi di membro del consiglio di amministrazione. La LKB contesta tale affermazione e sostiene di avere concluso un contratto di mandato con la sig.ra Danosa. Quest’ultima avrebbe voluto stipulare un contratto di lavoro, ma la LKB avrebbe preferito conferirle l’incarico di membro del consiglio di amministrazione sulla base di un mandato.

23 Il 23 luglio 2007 l’assemblea dei soci («dalībnieku sapulce») della LKB decideva di revocare la sig.ra Danosa dalle funzioni di membro del consiglio di amministrazione. Una copia certificata del verbale dell’assemblea veniva inviata all’interessata il 24 luglio 2007.

24 Ritenendo di essere stata sollevata illegittimamente dal proprio incarico, il 31 agosto 2007 la sig.ra Danosa proponeva un ricorso dinanzi alla Rīgas pilsētas Centra Rajona tiesa (Tribunale del distretto centrale di Riga) contro la LKB.

25 Dinanzi a tale giudice la sig.ra Danosa affermava che, dal momento della sua nomina a tale incarico, aveva adempiuto correttamente i propri obblighi professionali derivanti dallo statuto della società e dal regolamento del consiglio di amministrazione. Essa sosteneva inoltre che, siccome aveva percepito una retribuzione per il lavoro svolto e ottenuto periodi di congedo, si doveva quindi presupporre l’esistenza di un rapporto di lavoro. La sua rimozione dall’incarico sarebbe stata disposta in violazione dell’art. 109 del codice del lavoro, relativo al divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti, in quanto alla data del licenziamento ella era all’undicesima settimana di gravidanza. Secondo la sig.ra Danosa sussisterebbe un conflitto tra l’art. 224, n. 4, del codice del commercio, che consente all’assemblea dei soci di revocare in qualsiasi momento i membri del consiglio di amministrazione, e l’art. 109, n. 1, del codice del lavoro, che stabilisce talune garanzie in materia di previdenza a favore delle lavoratrici gestanti.

26 Poiché la domanda della sig.ra Danosa veniva respinta sia in primo grado che in appello, quest’ultima ha proposto ricorso per cassazione dinanzi al giudice del rinvio.

27 Dinanzi a tale giudice, la sig.ra Danosa ha sostenuto di dover essere considerata una lavoratrice ai sensi del diritto dell’Unione, a prescindere dalla circostanza di essere o meno considerata tale dal diritto lettone. Inoltre, tenuto conto del divieto di licenziamento di cui all’art. 10 della direttiva 92/85 e dell’interesse fondamentale che tale disposizione mira a tutelare, in tutti i rapporti giuridici in cui possano ravvisarsi le caratteristiche di un rapporto di lavoro, lo Stato lettone deve assicurare alle lavoratrici gestanti, con tutti i mezzi di cui dispone, compresi quelli giurisdizionali, le garanzie giuridiche e sociali previste a loro favore.

28 Dal canto suo, la LKB ha invece sostenuto che i membri del consiglio di amministrazione di una società di capitali non forniscono prestazioni sotto la direzione di un’altra persona e che non possono quindi essere considerati lavoratori ai sensi del diritto dell’Unione. Sarebbe pienamente giustificato prevedere gradi di tutela diversi per i lavoratori e i membri del consiglio di amministrazione di una società di capitali, tenuto conto dell’elemento fiduciario che caratterizza lo svolgimento delle funzioni affidate ai membri di tale consiglio. Il diritto dell’Unione avrebbe distinto espressamente tra coloro che svolgono le proprie mansioni sotto la direzione del datore di lavoro e coloro che esercitano tale potere direttivo e, in sostanza, rappresentano il datore di lavoro e non sono lavoratori a lui subordinati.

29 Il giudice del rinvio afferma che dalla giurisprudenza della Corte relativa alla nozione di lavoratore, nonché dall’obiettivo della tutela delle lavoratrici gestanti dal licenziamento cui tende la direttiva 92/85, risulta che quando un membro del consiglio di amministrazione di una società rientra in tale nozione, è applicabile nei suoi confronti l’art. 10 della summenzionata direttiva, sebbene l’art. 224, n. 4, del codice del commercio lettone non preveda alcuna restrizione in materia di revoca dalle funzioni di membro del consiglio di amministrazione, a prescindere dalla circostanza che tale soggetto sia titolare o meno di un contratto di lavoro. Secondo detto giudice, sia la direttiva 76/207 che la direttiva 92/85 vietano l’interruzione del rapporto di lavoro con la lavoratrice gestante.

30 Ritenendo che la controversia di cui è investito richieda l’interpretazione del diritto dell’Unione, l’Augstākās Tiesas Senāts ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se i membri degli organi di gestione delle società di capitali rientrino nella nozione di “lavoratore” ai sensi del diritto comunitario.

2) Se l’art. 224, n. 4, del codice del commercio lettone, che consente di revocare un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali senza alcuna limitazione, in particolare a prescindere dallo stato di gravidanza della persona interessata, sia incompatibile con l’art. 10 della direttiva 92/85 e la giurisprudenza della Corte di giustizia».

Sulle questioni pregiudiziali

Osservazioni preliminari

31 In via preliminare occorre rilevare che, in occasione dell’udienza dinanzi alla Corte, i fatti narrati nella causa principale sono stati oggetto di contestazioni relative, sostanzialmente, ai motivi che hanno indotto la LKB a revocare la sig.ra Danosa dalle sue funzioni di membro del consiglio di amministrazione della società in parola e alla questione di accertare se quest’ultima fosse stata informata dello stato di gravidanza della ricorrente della causa principale e, in tal caso, in quale data ne fosse stata informata.

32 Mentre la LKB ha sostenuto che lo stato di gravidanza della sig.ra Danosa non aveva minimamente inciso sulla decisione di revocare l’interessata e ha fatto valere che quest’ultima non aveva ella stessa asserito che il licenziamento fosse dovuto al suo stato di gravidanza, la ricorrente della causa principale ha, dal canto suo, contestato la versione dei fatti fornita dalla LKB, ha affermato che la sua revoca sarebbe stata indotta dal suo stato di gravidanza e ha cercato di fare luce sulle circostanze relative all’adozione della decisione di revoca in discussione.

33 Spetta al giudice nazionale accertare i fatti che hanno dato origine alla causa e trarne le conseguenze ai fini della sua pronuncia (v., in particolare, sentenze 16 settembre 1999, causa C‑435/97, WWF e a., Racc. pag. I‑5613, punto 32,).

34 Infatti, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra giudici dell’Unione e giudici nazionali spetta, in linea di massima, al giudice nazionale verificare che sussistano, nella causa dinanzi ad esso pendente, le condizioni di fatto tali da comportare l’applicazione di una norma dell’Unione, potendo la Corte, allorché si pronuncia su un rinvio pregiudiziale, ove necessario, fornire precisazioni tese a guidare il giudice nazionale nella sua interpretazione (v., in tal senso, sentenza 4 luglio 2000, causa C‑424/97, Haim, Racc. pag. I‑5123, punto 58, nonché 4 giugno 2009, cause riunite C‑22/08 e C‑23/08, Vatsouras e Koupatantze, Racc. pag. I‑4585, punto 23).

35 Nella fattispecie in esame, come risulta dalla decisione di rinvio, le questioni poste si basano sul presupposto che la revoca della sig.ra Danosa dalle funzioni di membro del consiglio di amministrazione della LKB abbia avuto o possa aver avuto luogo essenzialmente a causa dello stato di gravidanza dell’interessata. Detto giudice s’interroga sulla compatibilità con il diritto dell’Unione di una disciplina nazionale che, sebbene da un lato vieti il licenziamento per motivi collegati alla gravidanza, non prevede però nessuna restrizione nell’ambito della revoca di un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali.

36 In siffatte circostanze alla Corte spetta risolvere le questioni pregiudiziali relative all’interpretazione del diritto dell’Unione poste dal giudice del rinvio, lasciando a quest’ultimo il compito di verificare gli elementi concreti della controversia dinanzi ad esso pendente, e segnatamente di dirimere la questione se la decisione di revoca contestata fosse motivata essenzialmente dallo stato di gravidanza della ricorrente nella causa principale.

37 Nonostante la posizione adottata dal governo lettone e dalla Commissione europea riguardo ai fatti del caso oggetto della causa principale metta in discussione la rilevanza delle questioni pregiudiziali per la soluzione della controversia di cui è investito il giudice nazionale, basti constatare che nulla nella decisione di rinvio consente di affermare che dette questioni, sull’utilità delle quali il giudice a quo si è peraltro espresso, siano manifestamente ipotetiche o senza alcuna relazione con l’effettività e con l’oggetto della controversia principale.

Sulla prima questione

38 Con la prima questione il giudice del rinvio chiede, sostanzialmente, se un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali che fornisce prestazioni a quest’ultima debba essere considerato un lavoratore ai sensi della direttiva 92/85.

39 In forza di una giurisprudenza costante, la nozione di lavoratore ai sensi della direttiva in parola non può essere interpretata in vario modo, con riferimento agli ordinamenti nazionali, e dev’essere definita in base a criteri obiettivi che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate. Orbene, la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali percepisca una retribuzione (v., per analogia, nel contesto della libera circolazione dei lavoratori e del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, sentenze 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie-Blum, Racc. pag. 2121, punti 16 e 17 e 13 gennaio 2004, causa C‑256/01, Allonby, Racc. pag. I‑873, punto 67, nonché, nel contesto della direttiva 92/85, sentenza 20 settembre 2007, causa C‑116/06, Kiiski, Racc. pag. I‑7643, punto 25).

40 La natura giuridica sui generis del rapporto di lavoro riguardo al diritto nazionale non può avere alcuna conseguenza sulla qualità di lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione (v. sentenza Kiiski, cit., punto 26 e giurisprudenza ivi citata). Nel momento in cui una persona soddisfa i requisiti di cui al punto 39 della presente sentenza, la natura del nesso giuridico che la lega all’altra parte del rapporto di lavoro è irrilevante ai fini dell’applicazione della direttiva 92/85 (v., per analogia, nel contesto della libera circolazione dei lavoratori, sentenze 31 maggio 1989, causa C‑344/87, Bettray, Racc. pag. 1621, punto 16, e 26 febbraio 1992, causa C‑357/89, Raulin, Racc. pag. I‑1027, punto 10).

41 Analogamente, la qualificazione formale di lavoratore autonomo ai sensi del diritto nazionale non esclude che una persona debba essere qualificata come lavoratore ai sensi della direttiva 92/85 se la sua indipendenza è solamente fittizia e nasconde in tal modo un rapporto di lavoro ai sensi di tale direttiva (v., per analogia, sentenza Allonby, cit., punto 71).

42 Ne discende che la qualificazione, nel diritto lettone, del rapporto fra una società di capitali e i membri del consiglio di amministrazione della stessa o la circostanza che siffatta società e i membri del menzionato consiglio non abbiano concluso un contratto di lavoro non possono determinare, contrariamente a quanto fatto valere dalla LKB, la qualificazione di tale rapporto ai fini dell’applicazione della direttiva 92/85.

43 Come risulta dalle osservazioni presentate alla Corte, non è in discussione, nella fattispecie, che la sig.ra Danosa, in modo regolare e percependo in contropartita una retribuzione, abbia fornito prestazioni alla LKB svolgendo le funzioni di membro unico del consiglio di amministrazione ad ella assegnate dallo statuto di detta società e dal regolamento interno del consiglio in questione. Contrariamente a quanto fatto valere dalla menzionata società, è irrilevante al riguardo che la ricorrente della causa principale sia stata ella stessa incaricata di redigere tale regolamento.

44 Per contro, le summenzionate osservazioni divergono relativamente alla questione se fra la sig.ra Danosa e la LKB sussistesse il vincolo di subordinazione, o anche il grado di subordinazione, richiesto dalla giurisprudenza della Corte relativamente alla nozione di lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione in generale e della direttiva 92/85 in particolare.

45 La LKB e i governi lettone e greco sostengono che, relativamente ai membri del consiglio di amministrazione di una società di capitali, il vincolo di subordinazione richiesto dalla giurisprudenza della Corte, nel caso di tali membri, non sussiste. La LKB e il governo lettone fanno valere che un membro di un consiglio di amministrazione, quale la ricorrente della causa principale, adempie ai suoi obblighi, di norma, sulla base di un contratto di mandato, in modo autonomo e senza ricevere istruzioni. Essi sottolineano che il rapporto fra, da un lato, i soci di una società di capitali e/o, eventualmente, il comitato di vigilanza e, dall’altro, i membri del consiglio di amministrazione deve basarsi sulla fiducia, cosicché il rapporto di lavoro fra le parti deve poter essere sciolto quando tale fiducia sia venuta a mancare.

46 La soluzione al problema di stabilire se vi sia un simile vincolo di subordinazione ai sensi della summenzionata definizione della nozione di lavoratore deve essere fornita in ciascun caso particolare in funzione di tutti gli elementi e di tutte le circostanze che caratterizzano i rapporti tra le parti.

47 La qualità di membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali non può, di per sé, escludere che la ricorrente della causa principale si sia trovata in un rapporto di subordinazione rispetto alla società in parola. Occorre difatti esaminare le condizioni alle quali il membro del consiglio è stato incaricato, la natura delle funzioni assegnategli, il contesto in cui queste ultime sono svolte, la portata dei poteri dell’interessato e il controllo cui è soggetto all’interno della società, così come le circostanze in cui può essere revocato.

48 Innanzitutto, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 77‑84 delle sue conclusioni, un esame di detti elementi nella fattispecie della causa principale rivela in primo luogo che la sig.ra Danosa è stata nominata membro unico del consiglio di amministrazione della LKB per un periodo determinato di tre anni, che è stata incaricata di amministrare i beni di detta società, di dirigere la società stessa e di rappresentarla e che ella era parte integrante della società medesima. In sede di risposta ad un quesito posto dalla Corte in udienza, non è stato possibile stabilire da chi o da quale organo la ricorrente della causa principale fosse stata nominata.

49 Inoltre, benché la sig.ra Danosa disponesse di un margine di valutazione discrezionale nell’esercizio delle sue funzioni, ella doveva nondimeno rendere conto della sua gestione al comitato di vigilanza e collaborare con quest’ultimo.

50 Infine, dal fascicolo sottoposto alla Corte risulta che, in base al diritto lettone, un membro di un consiglio di amministrazione può essere sollevato dalle sue funzioni con una decisione dei soci, eventualmente dopo essere stato sospeso dalle stesse dal comitato di vigilanza. La decisione di revoca adottata nei confronti della sig.ra Danosa è quindi stata presa da un organo che, in teoria, ella non controllava e che in qualsiasi momento poteva adottare provvedimenti contro la volontà dell’interessata.

51 Sebbene non possa escludersi che i membri di un organo dirigente di una società, come un consiglio di amministrazione, non siano ricompresi nella nozione di lavoratore quale definita al punto 39 della presente sentenza – considerate le funzioni specifiche loro affidate nonché il contesto in cui dette funzioni sono svolte e le modalità di svolgimento – ciò nondimeno resta il fatto che un membro di un consiglio del genere, il quale fornisce, in contropartita di una retribuzione, prestazioni alla società che l’ha nominato e di cui è parte integrante, che esercita la propria attività sotto la direzione di o il controllo di un altro organo di tale società e che, in qualsiasi momento, può essere revocato dalle sue funzioni senza limitazioni, soddisfa, a prima vista, le condizioni per essere qualificato lavoratore ai sensi della citata giurisprudenza della Corte.

52 Quanto alla nozione di «lavoratrice gestante», va ricordato che è definita all’art. 2, lett. a), della direttiva 92/85, come «ogni lavoratrice gestante che informi del suo stato il proprio datore di lavoro, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali».

53 Ai fini dell’applicazione della menzionata direttiva, il legislatore dell’Unione ha inteso fornire una portata autonoma propria al diritto dell’Unione della nozione di «lavoratrice gestante», anche se, per uno degli aspetti di tale definizione − quello relativo alle modalità secondo cui la lavoratrice informa del suo stato il proprio datore di lavoro − ha rinviato alle legislazioni e/o prassi nazionali (sentenza Kiiski, cit., punto 24).

54 Quanto alla questione se, nella causa principale, la LKB fosse stata informata dello stato di gravidanza della sig.ra Danosa, occorre, da un lato, rammentare che, come risulta dal punto 33 del presente sentenza, spetta al giudice del rinvio e non alla Corte valutare i fatti rilevanti della fattispecie.

55 D’altro lato, anche se l’art. 2, lett. a), della direttiva 92/85 rinvia alle legislazioni e/o prassi nazionali per quanto concerne le modalità con cui la lavoratrice informa il datore di lavoro del proprio stato, ciò nondimeno tali modalità non possono privare di sostanza la protezione peculiare della donna sancita all’art. 10 della direttiva medesima, che vieta il licenziamento delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, tranne in casi eccezionali non connessi al loro stato. Qualora, senza essere formalmente informato della gravidanza della lavoratrice da parte dell’interessata stessa, il datore di lavoro sia venuto a conoscenza dello stato di gravidanza di quest’ultima, sarebbe contrario allo scopo e allo spirito della direttiva 92/85 interpretare restrittivamente i termini dell’art. 2, lett. a), di tale direttiva e negare alla lavoratrice interessata la tutela contro il licenziamento di cui all’art. 10.

56 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la prima questione dichiarando che un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali, che fornisca prestazioni a quest’ultima e ne faccia parte integrante, deve essere considerato come dotato della qualità di lavoratore ai fini della direttiva 92/85 se svolge la sua attività, per un certo periodo di tempo, sotto la direzione o il controllo di un altro organo di detta società e se, come contropartita per detta attività, riceve una retribuzione. Spetta al giudice del rinvio procedere a verificare gli elementi di fatto necessari per poter valutare se tali circostanze ricorrano nella controversia di cui è investito.

Sulla seconda questione

57 Con la seconda questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 10 della direttiva 92/85 debba essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella in discussione nella causa principale, la quale consente la revoca di un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali senza limitazioni, segnatamente senza che sia tenuto conto dello stato di gravidanza della persona interessata.

58 Relativamente alla portata del divieto di licenziamento ex art. 10 della direttiva 92/85, in via preliminare occorre ricordare che lo scopo della direttiva 92/85 è di promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.

59 Già prima dell’entrata in vigore della direttiva 92/85 la Corte ha stabilito che, in forza del principio di non discriminazione e, in particolare, delle previsioni della direttiva 76/207, una tutela contro il licenziamento dev’essere riconosciuta alla donna non solo durante il congedo di maternità, ma anche durante l’intero periodo della gravidanza. Secondo la Corte, un licenziamento durante tali periodi può riguardare solo le donne e costituisce quindi una discriminazione diretta basata sul sesso (v., in tal senso, sentenze 8 novembre 1990, causa C‑179/88, Handels‑ og Kontorfunktionærernes Forbund, Racc. pag. I‑3979, punto 13; 30 giugno 1998, causa C‑394/96, Brown, Racc. pag. I‑4185, punti 24‑27 e 11 ottobre 2007, causa C‑460/06, Paquay, Racc. pag. I‑8511, punto 29).

60 Proprio in considerazione dei rischi che un eventuale licenziamento fa gravare sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, ivi compreso il rischio particolarmente grave di spingere la lavoratrice gestante ad interrompere volontariamente la gravidanza, il legislatore comunitario ha previsto, ai sensi dell’art. 10 della direttiva 92/85, una protezione specifica per la donna sancendo il divieto di licenziamento nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità (v. sentenza Paquay, cit., punto 30 e giurisprudenza ivi citata).

61 Nel corso di detto periodo, l’art. 10 della direttiva 92/85 non ha previsto alcuna eccezione o deroga al divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato e a condizione che il datore di lavoro fornisca per iscritto giustificati motivi per tale licenziamento (sentenze 14 luglio 1994, causa C‑32/93, Webb, Racc. pag. I‑3567, punto 22; Brown, cit., punto 18; 4 ottobre 2001, causa C‑109/00, Tele Danmark, Racc. pag. I‑6993, punto 27, e Paquay, cit., punto 31).

62 Qualora il giudice del rinvio decidesse che, nella fattispecie, la sig.ra Danosa rientra nell’ambito della nozione di «lavoratrice gestante» ai sensi della direttiva 92/85, e che la decisione di revoca in discussione nella causa principale è stata presa per motivi essenzialmente legati allo stato di gravidanza dell’interessata, si dovrebbe rilevare che una decisione del genere, sebbene adottata in forza di disposizioni del diritto nazionale, le quali consentono la revoca di un membro di un consiglio di amministrazione senza limitazioni, è incompatibile con il divieto di licenziamento ex art. 10 della menzionata direttiva.

63 Per contro, una decisione di revoca presa durante il periodo che va dall’inizio della gravidanza fino al termine del congedo di maternità per motivi non connessi allo stato di gravidanza della ricorrente della causa principale non sarebbe contraria a detto art. 10, a condizione, tuttavia, che il datore di lavoro fornisca per iscritto giustificati motivi di licenziamento e che il licenziamento dell’interessata sia consentito dalle legislazioni e/o prassi nazionali di cui si tratti, conformemente alle disposizioni dell’art. 10, punti 1 e 2, di tale direttiva.

64 Qualora il giudice del rinvio decidesse che, nella fattispecie, considerati la natura dell’attività svolta dalla sig.ra Danosa e il contesto in cui detta attività è esercitata, una tutela contro il licenziamento di un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali non può essere dedotta dalla direttiva 92/85, siccome l’interessata non ha la qualità di «lavoratrice gestante» ai sensi di tale direttiva, occorrerebbe esaminare se la ricorrente della causa principale possa eventualmente avvalersi della tutela contro la discriminazione basata sul sesso concessa dalla direttiva 76/207, norma a cui il giudice del rinvio non ha fatto riferimento nel testo delle sue questioni ma alla quale detto giudice e alcuni interessati che hanno presentato osservazioni alla Corte hanno fatto allusione.

65 A tale proposito va ricordato che, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207, «[l]’applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne significa che non vi deve essere discriminazione diretta o indiretta in base al sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene (…) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento».

66 Come risulta dal punto 59 della presente sentenza, in base al principio di non discriminazione, e in particolare alle disposizioni della direttiva 76/207, una tutela contro il licenziamento deve essere riconosciuta alla donna non solo durante il congedo di maternità, ma anche durante l’intero periodo della gravidanza. Secondo la Corte, il licenziamento di una lavoratrice a causa della gravidanza o per una causa basata essenzialmente sullo stato di gravidanza può riguardare unicamente le donne e, pertanto, costituisce una discriminazione diretta basata sul sesso (v. sentenza Paquay, cit., punto 29 e giurisprudenza ivi citata).

67 Occorre quindi constatare che la revoca unilaterale di un mandato, da parte del mandante, prima della scadenza inizialmente prevista, a causa dello stato di gravidanza del mandatario o per una causa basata essenzialmente sullo stato di gravidanza può riguardare unicamente le donne. Anche volendo supporre che la sig.ra Danosa non sia dotata della qualità di «lavoratrice gestante» nel senso lato auspicato dalla direttiva 92/85, ammettere che una società possa revocare dalle sue funzioni i membri del consiglio di amministrazione che svolgono funzioni come quelle descritte nella controversia principale sarebbe contrario alla finalità di tutela perseguita dall’art. 2, n. 7, della direttiva 76/207, nella misura in cui la revoca sia basata essenzialmente sullo stato di gravidanza dell’interessata.

68 Come la Corte ha già rilevato, lo scopo perseguito dalle norme del diritto dell’Unione sul principio di parità tra i sessi nel settore dei diritti delle donne gestanti o puerpere è quello di tutelare le lavoratrici prima e dopo il parto (v. sentenza 8 settembre 2005, causa C‑191/03, McKenna, Racc. pag. I‑7631, punto 42).

69 Tale obiettivo, che ha ispirato sia la direttiva 92/85 che la direttiva 76/207, non potrebbe essere raggiunto qualora la tutela contro il licenziamento concessa dal diritto dell’Unione alle donne gestanti dipendesse dalla qualificazione formale del loro rapporto di lavoro nel diritto nazionale o dalla scelta operata all’atto della loro assunzione fra l’uno o l’altro tipo di contratto.

70 Come emerge dal punto 33 della presente sentenza, spetta al giudice del rinvio stabilire le circostanze pertinenti della controversia di cui è investito e verificare se, come presupposto dalle questioni pregiudiziali presentate, la decisione di revoca fosse basate essenzialmente sullo stato di gravidanza della ricorrente nella causa principale. In caso di soluzione affermativa, poco importa accertare se detta ricorrente rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 92/85, di quello della direttiva 76/207, o, qualora il giudice del rinvio la qualificasse come «lavoratore autonomo», di quello della direttiva 86/613, che si applica ai lavoratori autonomi e che, come risulta dal suo art. 1, completa la direttiva 76/207 per quanto concerne l’applicazione del principio di parità di trattamento a tali lavoratori, vietando, analogamente a quest’ultima direttiva, qualsiasi discriminazione basata, sia direttamente che indirettamente, sul sesso. A prescindere da quale sia la direttiva applicabile, è importante garantire all’interessata la tutela concessa dal diritto dell’Unione alle donne gestanti nel caso in cui il rapporto giuridico che la lega ad un altro soggetto sia stato risolto a causa della sua gravidanza.

71 Tale conclusione è d’altro canto suffragata dal principio di parità tra uomini e donne sancito all’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce che detta parità deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione.

72 Infine, occorre rammentare, per quanto concerne l’onere della prova in circostanze come quelle della causa principale, che incombe al giudice nazionale dare applicazione alle pertinenti disposizioni della direttiva del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/80/CE, riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso (GU 1998, L 14, pag. 6), che, in forza del suo art. 3, n. 1, lett. a), si applica alle situazioni contemplate dalla direttiva 76/207 e dalla direttiva 92/85 in caso di discriminazione basata sul sesso.

73 A riguardo, dall’art. 4, n. 1, della direttiva 97/80 risulta che spetta alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta.

74 Alla luce delle suesposte considerazioni si deve risolvere la seconda questione dichiarando che l’art. 10 della direttiva 92/85 deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella in discussione nella causa principale, che consente la revoca di un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali senza limitazioni, quando la persona interessata abbia la qualità di «lavoratrice gestante» ai sensi della direttiva in parola e la decisione di revoca adottata nei suoi confronti sia basata essenzialmente sul suo stato di gravidanza. Anche volendo supporre che il membro di cui trattasi di un consiglio di amministrazione non abbia detta qualità, ciò nondimeno la revoca di un membro di un consiglio di amministrazione, che svolge funzioni come quelle descritte nella controversia principale a causa dello stato di gravidanza o per una causa basata essenzialmente su tale stato può riguardare unicamente le donne, e, pertanto, costituisce, una discriminazione diretta basata sul sesso, contraria agli artt. 2, nn. 1 e 7, e 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207.

Sulle spese

75 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:

1) Un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali, che fornisca prestazioni a quest’ultima e ne faccia parte integrante, deve essere considerato come dotato della qualità di lavoratore ai fini della direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE), se svolge la sua attività, per un certo periodo di tempo, sotto la direzione o il controllo di un altro organo di detta società e se, come contropartita per detta attività, riceve una retribuzione. Spetta al giudice del rinvio procedere a verificare gli elementi di fatto necessari per poter valutare se tali circostanze ricorrano nella controversia di cui è investito.

2) L’art. 10 della direttiva 92/85 deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella in discussione nella causa principale, che consente la revoca di un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali senza limitazioni, quando la persona interessata abbia la qualità di «lavoratrice gestante» ai sensi della direttiva in parola e la decisione di revoca adottata nei suoi confronti sia basata essenzialmente sul suo stato di gravidanza. Anche volendo supporre che il membro di cui trattasi di un consiglio di amministrazione non abbia detta qualità, ciò nondimeno la revoca di un membro di un consiglio di amministrazione, che svolge funzioni come quelle descritte nella controversia principale, a causa dello stato di gravidanza o per una causa basata essenzialmente su tale stato può riguardare unicamente le donne, e, pertanto, costituisce una discriminazione diretta basata sul sesso, contraria agli artt. 2, nn. 1 e 7, e 3, n. 1, lett. c), della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE.

Firme

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* Lingua processuale: il lettone.