Riorganizzare il lavoro nella Comunità europea: meno diritti più produttività

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1. Per tutelare i lavoratori occorre spogliarli dei loro diritti. Sembra essere questa la linea-guida dell’azione degli organi di governo comunitari nella predisposizione degli strumenti normativi finalizzati a disciplinare un diritto del lavoro “dinamico” e “innovativo” all’interno dell’ordinamento europeo. Non si tratta di un paradosso giuridico, ma di una nuova idea di società che l’Unione europea coltiva da tempo (in modo sistematico – su questi temi – dalla Strategia di Lisbona), nello sforzo di allinearsi a modelli di organizzazione sociale, da un lato, sempre più sbilanciati, nelle loro proiezioni istituzionali, verso le esigenze di un capitale globale e locale, finanziario e produttivo, che nei documenti ufficiali dell’UE assume le rassicuranti (e postmoderne) fattezze della “rete” di piccole e medie imprese, e, dall’altro lato, sempre meno inclini a riconoscere il fondamento democratico del consenso necessario ad esercitare il potere. Tali modelli, purificati delle loro contraddizioni, vengono idealmente costruiti con i materiali messi a disposizione dal mito sempreverde del capitalismo meritocratico (dell’eccellenza, come oggi si usa dire) angloamericano, dai nuovi miti produttivistici di India e Cina e, in alcuni momenti, da un passato, neanche tanto lontano, della stessa Europa, quando quest’ultima decide di ripescare, riverniciandole con un linguaggio mutuato dal marketing aziendalistico, esperienze di organizzazione politica, economica e sociale forgiate dalla sua anima più nera.

2. La proposta di modifica della direttiva 2003/88/CE, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro è soltanto la punta dell’iceberg di una vera e propria rivoluzione culturale in atto. Il primo ‘considerando’ che l’introduce è estremamente significativo per comprendere l’orizzonte di senso giuridico-costituzionale entro cui si muovono le istituzioni comunitarie: «l’articolo 137 del trattato prevede che la Comunità sostenga e completi l’azione degli Stati membri al fine di migliorare l’ambiente di lavoro per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori. Le direttive adottate sulla base di tale articolo devono evitare di imporre vincoli amministrativi finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese». Sorvoliamo – ma non dimentichiamola ai fini di un’interpretazione sistematica del dettato dei Trattati – sulla circostanza che l’art. 137 del TCE rappresenta la specifica modalità di attuazione degli obiettivi tracciati nel precedente art. 136, ove la tutela dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori dipende, in linea generale, dal «funzionamento del mercato comune» e dal «ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative» (par. 3). Concentriamoci sul testo del ‘considerando’ sopra riportato. Se vi inseriamo i connettori logici che mancano potremmo così parafrasarlo: poiché l’art. 137 del trattato prevede una tutela generalizzata dei diritti dei lavoratori, ne consegue che nessun vincolo giuridico, finanziario e amministrativo potrà essere imposto alla normativa che si occupa della creazione e dello sviluppo delle imprese. C’è, qui, un salto logico difficilmente colmabile, se non con la cattiva retorica che lo sostiene. È perfino imbarazzante, infatti, far notare come sia quantomeno dubbia (se non in un’ottica di revanche neocorporativistica) la possibilità che la tutela dei lavoratori possa derivare da una legislazione tesa a non porre alcun tipo di vincolo all’azione strategica delle imprese. Non solo. Appartiene poi alla ‘cattiva coscienza’ del legislatore comunitario far derivare da una disposizione del Trattato come l’art. 137, formalmente indirizzata a tutelare le pretese dei lavoratori, l’obbligo deontologico («devono») delle direttive in materia di perseguire il fine primario del profitto imprenditoriale. In realtà, la norma occulta che conferisce validità alla legislazione comunitaria derivata in materia di organizzazione dell’orario di lavoro non è l’art. 137 (qualora lo si volesse candidamente leggere ‘staccato’ dal precedente art. 136), bensì la Grundnorm del “mercato unico” attorno alla quale si è finora costruito l’assetto istituzionale europeo. Soltanto così acquista senso logico – prima ancora che giuridico – il Sollen (apparentemente invertito sul piano delle fonti) di «direttive» che «devono evitare di imporre vincoli» di ogni natura alle imprese, sulla base di una norma di grado superiore (l’art. 137 del Trattato) il cui fine primario dovrebbe fungere da limite proprio all’interesse illimitato e contrario dei datori di lavoro.
Il legislatore comunitario è ben consapevole del fatto che gli interessi dei lavoratori e quelli delle imprese non convergono. È ben consapevole che il diritto al lavoro, con tutti i diritti sociali ad esso connessi, trova un forte radicamento nelle costituzioni più avanzate degli Stati membri che contano. E, per ovviare a ciò, si muove in una duplice direzione. Da una parte, si affretta a precisare, nel considerando 14 della proposta di modifica della direttiva 2003/88/CE, che: «la presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi specificamente riconosciuti, in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Essa mira in particolare ad assicurare il pieno rispetto del diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque di cui all’articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e in particolare al paragrafo 2 di detto articolo il quale statuisce che “ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite». Dall’altra parte, una volta accantonato il rituale ossequio alle formule di rispetto per condizioni umane di lavoro (relegate a retorica costituzionale nazionale), avoca a sé la competenza a disciplinare, dal punto di vista normativo, la materia dell’organizzazione dell’orario di lavoro ritenendo inadeguata un’eventuale azione in proposito degli Stati membri. E lo fa utilizzando uno strumento ambiguo, flessibile, buono per tutte le occasioni, come il principio di sussidiarietà: «poiché gli scopi dell’azione prevista, ossia attualizzare la normativa comunitaria in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, non possono essere realizzati in maniera sufficiente dagli Stati membri e possono dunque essere realizzati meglio a livello comunitario, la Comunità può intervenire, in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del trattato. La presente direttiva si limita a quanto è necessario per conseguire tali scopi in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo» (considerando n. 13).
Insufficienza dell’azione degli Stati membri, sussidiarietà, principio di proporzionalità, scopi da conseguire, fanno parte di quell’armamentario argomentativo delle istituzioni comunitarie che funge da supporto tecnico ad un giudizio politico-valutativo compiuto a monte sulla bontà del mercato e del suo funzionamento. Tutto ciò è utile a delegittimare, con leggerezza, in modo soft, conquiste sociali che, in alcune costituzioni degli Stati membri, apparivano punti giuridici di non-ritorno. E ciò potrebbe bastare, non essendo questa la sede per tornare ad interrogarsi sulla teoria – ma soprattutto sull’applicazione – dei ‘controlimiti’ o per tentare di capire come mai la vernice logica di tali provvedimenti comunitari abbagli più della sostanza, che pure non pare difficile scorgere appena si voglia scrostare in superficie la patina tecnicistica che riveste principi operativi come, ad esempio, il principio di proporzionalità o l’implementazione ‘guidata’ del principio di sussidiarietà.

3. Se questa ricostruzione della ratio della proposta di modifica della direttiva europea sull’organizzazione dell’orario di lavoro appare plausibile non desta particolare stupore l’idea, in essa affermata, che l’orario settimanale di lavoro possa essere aumentato fino a 65 ore rispetto a un massimo iniziale di 48. Centrale è, in questo caso, il nuovo articolo 22 della direttiva 2003/88/CE. Unico vincolo, per le imprese, è l’acquisizione di un consenso previo del lavoratore all’esecuzione di un lavoro che si svolga all’interno delle 60-65 ore di lavoro settimanali. Cosa potrà opporre il singolo lavoratore al potere di ricatto delle imprese? Di più. Come ha osservato Luciano Gallino: «la durata del lavoro settimanale può essere portata perfino al di là delle 60 ore ove ciò sia previsto in una convenzione collettiva, un accordo tra parti sociali o la legislazione nazionale. In tali casi il singolo lavoratore deve adeguarsi» (L. GALLINO, Lavorare 60 ore, in La Repubblica del 16 giugno 2008, p. 27). È, questa, una possibilità prevista dal par. 1 dell’art. 22.
In tale ottica, peraltro, si iscrive la massimizzazione di rendimento, durante l’orario di lavoro, per la fattispecie declinata dal legislatore comunitario come “servizio di guardia”. “Servizio di guardia”, specifica il paragrafo 1bis della proposta di modifica della direttiva, è quel «periodo durante il quale il lavoratore è obbligato a tenersi a disposizione, sul proprio luogo di lavoro, al fine di intervenire, su richiesta del datore di lavoro, per esercitare la propria attività o le proprie funzioni». Ebbene, secondo l’art. 2bis, introdotto ex novo dalla proposta di modifica, il «periodo inattivo del servizio di guardia non è considerato orario di lavoro, a meno che la normativa nazionale o, conformemente alla normativa e/o alle pratiche nazionali, un contratto collettivo o un accordo tra parti sociali non dispongano diversamente». Quante ore in più, in queste condizioni, potranno essere richieste al lavoratore che si è reso colpevole di restare “inattivo” sul posto di lavoro, in quello che, sul piano formale, non può certo essere considerato tempo libero? Lavorare sempre, lavorare non stanca.