Il Consiglio costituzionale francese si pronuncia sulla legittimità del “contrat première embauche”: il licenziamento ingiustificato, incorporato nel contratto di primo impiego, è conforme alla Costituzione

Notizie & Opinioni

1. Il 14 marzo 2006, attraverso la saisine parlementaire, l’opposizione socialista ha investito il Conseil constitutionnel della questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 8 della più ampia legge sulle pari opportunità (“Loi pour l’égalité des chances”), approvata dal Parlamento francese dopo che il governo aveva posto, sul testo legislativo, la questione di fiducia, avvalendosi del dispositivo di cui all’art. 49, terzo comma, della Costituzione del 1958.
L’art. 8 della summenzionata legge ha introdotto, per via d’emendamento, il “contrat première embauche” (CPE), o contratto di primo impiego, riservato – come specificato nel primo comma – all’assunzione, da parte delle imprese dotate di un personale effettivo superiore alle venti unità lavorative, di giovani al di sotto dei ventisei anni. Il secondo comma del citato art. 8 prevede, poi, che questo contratto, stabilito per iscritto e senza determinazione di durata, sia sottoposto alle disposizioni del codice del lavoro, tranne che per i primi due anni, in cui quelle disposizioni di ‘diritto comune’ non valgono. Giustificando, così, il licenziamento senza motivo e senza causa.
La questione di legittimità costituzionale, sollevata con riguardo all’art. 8, si è focalizzata su sei punti:
– 1) una pregiudiziale di tipo procedurale, legata, rispettivamente: alle condizioni critiche e concitate in cui si era svolto il dibattito parlamentare che aveva portato al voto della legge; al fatto di aver introdotto il menzionato articolo per via d’emendamento, sottraendolo, in sostanza, all’esame del Consiglio di stato, così come previsto dall’art. 39, secondo comma, della Costituzione, per i disegni di legge deliberati in Consiglio dei ministri; alla circostanza, di carattere più generale, che quella disposizione fosse parte di un complessivo progetto di legge approvato attraverso la procedura d’urgenza (tramite la posizione della questione di fiducia) prevista dall’art. 49, terzo comma, della Costituzione, che ne ha impedito, al Senato, la discussione nell’apposita commissione mista; e, infine, ad un’applicazione discutibile del regolamento interno del Senato, che avrebbe reso irricevibili gli emendamenti e i sub-emendamenti proposti dai senatori dell’opposizione;
– 2) la mancanza di chiarezza e di intellegibilità della legge, soprattutto con riguardo alla definizione e all’inquadramento del regime giuridico applicabile al periodo dei due anni seguenti alla stipula del contratto di primo impiego;
– 3) la violazione del principio di uguaglianza;
– 4) l’attentato al diritto del lavoro;
– 5) la violazione dell’art. 4 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (il quale recita che: «la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri; così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri Membri della Società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla Legge») nella misura in cui l’art. 8 della legge sulle pari opportunità non consentirebbe né di assicurare un’eguale protezione dei diritti delle parti coinvolte nel contratto né, tantomeno, di garantire la dignità dei giovani, nonché la violazione dei diritti di difesa e del diritto a ricorrere in giudizio, così come garantito dall’art. 16 della Dichiarazione del 1789 (in cui si statuisce che: «Ogni Società in cui la garanzia dei Diritti non è assicurata, né la separazione dei Poteri stabilita, non ha una costituzione»);
– 6) la violazione della Carta sociale europea nella versione del 1996, della Convenzione internazionale del lavoro firmata a Ginevra nel 1982 e della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, relativa alla creazione di un quadro generale in favore dell’uguaglianza di trattamento in materia di impiego e di lavoro.

2. Con la decisione n. 2006-535 DC del 30 marzo 2006, il Consiglio costituzionale ha ritenuto il suddetto art. 8 conforme alla Costituzione.
Va subito detto che, sulla questione procedurale, il Conseil constitutionnel non ha avuto difficoltà a mantenersi su una linea interpretativa formalmente aderente al dettato costituzionale. Esso ha avuto buon gioco nel dimostrare, da un lato, che la funzione legislativa è stata correttamente esercitata, spettando l’iniziativa delle leggi – come stabilito dall’art. 39 della Costituzione – al Primo ministro e ai membri del Parlamento; e, dall’altro lato, che, in relazione a tale funzione, correttamente espletata, il diritto di emendamento (attribuito, dall’art. 44 della Cost., ai membri del Parlamento e al governo) era stato, a sua volta, correttamente esercitato secondo le previsioni contenute negli artt. 40, 41, 45 e 47 Cost. (p.ti 4- 11 della decisione)
Sul punto della chiarezza e dell’intellegibilità della legge, va osservato che, mentre i ricorrenti hanno cercato, con quella eccezione, di porre l’accento sulla evidente incompatibilità tra il regime giuridico che, per mezzo dell’art. 8, si intende far valere per i primi due anni del contratto di primo impiego (regime imperniato sulla sospensione formale oltre che sostanziale dei diritti riconosciuti ai normali titolari di un contratto di lavoro disciplinato dal Code du travail) e le norme di diritto nazionale (di rango costituzionale e legislativo) e internazionale preposte alla tutela dei diritti dei lavoratori, il Consiglio costituzionale, invece, ha inteso limitare la questione dell’intellegibilità e della comprensibilità della disposizione in oggetto alla mera coerenza logica interna di quest’ultima. È, cioè, sufficiente, per il Consiglio costituzionale, far notare come il legislatore non possa incorrere nella censura di incostituzionalità sia perché è stato in grado di prevedere delle regole specifiche, atte a disciplinare compiutamente il biennio del contratto di primo impiego, sia perché ad esse è corrisposta – sul piano del diritto ‘comune’ – l’enumerazione di un numerus clausus – e, dunque, sufficientemente determinato – di articoli del codice del lavoro non applicabili, per quel lasso di tempo, in caso di licenziamento. Con ciò – secondo il Consiglio – il legislatore ha potuto precisare, con sufficiente chiarezza, il regime giuridico dei primi due anni del CPE, durante i quali, in caso di rottura del contratto, non trovano applicazione quelle disposizioni del codice del lavoro relative al preliminare colloquio con il datore di lavoro, all’enunciazione dei motivi nella lettera di licenziamento e al carattere “réel et sérieux” della causa di licenziamento, e in conseguenza del quale è finanche prevista un’indennità pari all’8% della remunerazione lorda dovuta e si può avere diritto, altresì, a un accordo di riqualificazione professionale (p.ti 12-15).
Altrettanto eloquente è stata la risposta fornita dalla Corte francese ai dubbi di costituzionalità in ordine alla presunta violazione dell’art. 4 della Dichiarazione del 1789, nonché dei diritti di difesa e del diritto di ricorrere in giudizio a garanzia delle proprie pretese lavorative. Il nodo centrale, qui, è rappresentato dalla circostanza che non essendo obbligatorio, per il datore di lavoro, indicare i motivi del licenziamento, si produce una sorta di reazione a catena: ci si trova di fronte ad un’evidente situazione di netta inferiorità contrattuale e sociale di una delle parti in causa (il giovane lavoratore), impossibilitata a far valere un diritto indispensabile a realizzarne la dignità; inoltre, l’assenza di ‘contraddittorio’ che quella omissione oggettivamente produce, da un lato, non garantisce il diritto di difesa e dall’altro priva, di fatto, il dipendente del diritto di ricorrere in giudizio per licenziamento senza giusta causa. In questo caso, il Consiglio costituzionale, non solo ha ritenuto di interpretare riduttivamente l’art. 4 della Dichiarazione del 1789, trattandolo come disposizione concernente esclusivamente un principio di libertà contrattuale, senza così riuscire a rintracciarvi alcuna ‘ratio’ superiore capace di obbligare il datore di lavoro ad enunciare le motivazioni del licenziamento, ma, altresì, ha ritenuto – con modi sbrigativi – che non vi fosse alcun principio della costituzione dal quale fosse desumibile tale obbligo. Quanto, poi, al diritto di difesa, garantito dall’art. 16 della Dichiarazione del 1789, Il Consiglio costituzionale, pur riconoscendo la garanzia del contraddittorio nell’ipotesi del licenziamento avvenuto per motivi disciplinari, non ha ritenuto che la medesima procedura potesse essere estendibile agli altri casi. Infine, per il diritto di ricorrere in giudizio in caso di rottura del contratto di lavoro, se l’art. 8 prevede espressamente che l’azione di contestazione si prescrive nei 12 mesi dal ricevimento della lettera di licenziamento, ne consegue l’esplicita canonizzazione di una procedura idonea a garantire un qualche diritto al ricorso. Un diritto, però, come ammette lo stesso Consiglio, perentoriamente limitato a quei casi in cui si sia abusato del diritto di licenziare con l’intento, da parte del datore di lavoro, di discriminare i lavoratori sulla base delle loro caratteristiche ‘personali’ (donne incinte, categorie protette, ecc.) (p.ti 22-25).
Sulla compatibilità, poi, tra le norme contenute nell’art. 8 e quanto stabilito dalla Carta sociale europea, dalla Convenzione internazionale del 1982 n. 158 sul lavoro e l’occupazione e dalla direttiva n. 78/2000, il Consiglio ha preferito trincerarsi dietro lo schermo giuridico rassicurante dell’art. 61 della Costituzione. Ribadendo che non rientra nelle sue competenze valutare la conformità di una legge a quanto stabilito in un accordo internazionale e neppure esaminare la compatibilità di una legge rispetto alle disposizioni di una direttiva comunitaria che esso (Consiglio) non ha certo il compito di trasformare in diritto interno (p.ti 26-28).

3. Da tutto quanto esposto, dalla reticenza formalistica che ha caratterizzato l’approccio ai dubbi di costituzionalità finora esaminati sollevati dall’opposizione parlamentare, si può forse cominciare a comprendere come il Consiglio affronterà il cuore della questione di legittimità sottoposta alla sua attenzione: la violazione del principio di uguaglianza e l’attacco al diritto del lavoro. Si tratta di questioni intrecciate.
Entrambi i punti sono stati liquidati in poche battute. Ciò è dovuto al fatto che il Consiglio costituzionale sembra aver introiettato, facendolo proprio, il valore basilare della precarietà e della flessibilità lavorative: l’ancoraggio del diritto del lavoro alle esigenze immediate della sotto-occupazione anziché al principio della dignità che spetta ad ogni persona, indipendentemente dal censo e dalla professione, in ragione del quale è possibile pensare e realizzare una trasformazione degli ‘occupati’ in ‘cittadini’ a pieno titolo, coscienti del loro ruolo in una società democratica.
Eppure la violazione del principio di uguaglianza appare più che lampante: come giustificare la disparità di trattamento tra un giovane con meno di 26 anni che, assunto con il CPE, potrebbe essere licenziato senza motivo durante il periodo dei due anni e un giovane della stessa età e con la stessa qualifica, impiegato attraverso un contratto a tempo indeterminato, sottoposto alle regole di licenziamento previste dal diritto ‘comune’?
A questo proposito è bene leggere per esteso la motivazione del Consiglio, in cui tale differenza trova piena giustificazione: «17. Considerando che nessun principio né alcuna regola di valore costituzionale vieta al legislatore di adottare delle misure idonee a sostenere categorie di persone sfavorite; che il legislatore poteva quindi, tenuto conto della precarietà della situazione dei giovani nel mercato del lavoro, e in particolare dei giovani meno qualificati, creare un nuovo contratto di lavoro, diretto a facilitare il loro inserimento professionale; che le differenze di trattamento che ne conseguono sono in rapporto diretto con la finalità di interesse generale perseguita dal legislatore e non sono quindi contrarie alla Costituzione» («Considérant qu’aucun principe non plus qu’aucune règle de valeur constitutionnelle n’interdit au législateur de prendre des mesures propres à venir en aide à des catégories de personnes défavorisées ; que le législateur pouvait donc, compte tenu de la précarité de la situation des jeunes sur le marché du travail, et notamment des jeunes les moins qualifiés, créer un nouveau contrat de travail ayant pour objet de faciliter leur insertion professionnelle ; que les différences de traitement qui en résultent sont en rapport direct avec la finalité d’intérêt général poursuivie par le législateur et ne sont, dès lors, pas contraires à la Constitution») (p.to 17), ebbene considerando tutto ciò non vi è alcuna lesione del principio di uguaglianza.
L’interesse generale che il legislatore persegue non viene qui fatto coincidere con quanto stabilito, ad esempio, nei commi dieci e undici del Preambolo della Costituzione francese del 1946, ove si afferma che «La Nazione assicura all’individuo e alla famiglia le condizioni necessarie al loro sviluppo. Essa garantisce a tutti, e specialmente al fanciullo, alla madre e ai vecchi lavoratori, la protezione della salute, la sicurezza materiale il riposo e le vacanze. Ogni essere umano che, in dipendenza dell’età, dello stato fisico o mentale o della situazione economica, si trovi nell’impossibilità di lavorare, ha il diritto di ottenere dalla collettività adeguati mezzi di sussistenza»; passaggi prescrittivi, questi ultimi, che ricordano da vicino quanto stabilito nell’art. 36, primo comma, della Costituzione italiana, ove si statuisce che «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Nella decisione in esame, invece, l’interesse generale viene fatto coincidere con la situazione di emergenza dell’esistente e il criterio di ragionevolezza, originariamente pensato dalla giurisprudenza costituzionale per realizzare un’eguaglianza sostanziale, viene riconvertito, nel ragionamento del Conseil constitutionell, a strumento di legittimazione delle disuguaglianze di fatto presenti nella società.
In questa stessa scia si pone l’intervento del Consiglio sul paventato attacco al diritto del lavoro da parte dei ricorrenti. Anche in questo frangente è d’obbligo riportare per intero le parole del Consiglio costituzionale: «19. Considerando che spetta al legislatore, competente in virtù dell’art. 34 della Costituzione a determinare i principi fondamentali del diritto del lavoro, fissare le regole idonee ad assicurare, conformemente al quinto comma del Preambolo della Costituzione del 1946, il diritto di ognuno di ottenere un’occupazione permettendo l’esercizio di questo diritto a quante più persone possibili e, nel caso, sforzandosi di rimediare alla precarietà dell’occupazione; 20. Considerando, da una parte, come è stato detto sopra, che, tenuto conto della precarietà della situazione dei giovani nel mercato del lavoro, e in particolare dei giovani meno qualificati, il legislatore ha inteso creare un nuovo contratto di lavoro, diretto a facilitare il loro inserimento professionale; che così, con la sua finalità, l’art. 8 tende a dare concretezza, a beneficio degli interessati, all’esigenza risultante dal quinto comma del preambolo della Costituzione del 1946; che il Consiglio costituzionale non dispone di un potere generale di apprezzamento e di decisione della stessa natura di quello del Parlamento; che non spetta quindi a lui di spiegare se l’obiettivo che il legislatore si è assegnato poteva essere raggiunto per altre vie, quindi che le modalità fatte proprie dalla legge deferita non sono manifestamente inappropriate alla finalità perseguita; 21. Considerando, d’altra parte, che la facoltà concessa al datore di lavoro di non esplicitare i motivi della rottura del CPE nel corso dei primi due anni, non smentisce l’esigenza derivante dal quinto comma del Preambolo della Costituzione del 1946» («19. Considérant qu’il incombe au législateur, compétent en vertu de l’article 34 de la Constitution pour déterminer les principes fondamentaux du droit du travail, de poser des règles propres à assurer, conformément au cinquième alinéa du Préambule de la Constitution de 1946, le droit pour chacun d’obtenir un emploi tout en permettant l’exercice de ce droit par le plus grand nombre et, le cas échéant, en s’efforçant de remédier à la précarité de l’emploi ; 20. Considérant, d’une part, comme il a été dit ci-dessus, que, compte tenu de la précarité de la situation des jeunes sur le marché du travail, et notamment des jeunes les moins qualifiés, le législateur a entendu créer un nouveau contrat de travail ayant pour objet de faciliter leur insertion professionnelle; qu’ainsi, par sa finalité, l’article 8 tend à mettre en oeuvre, au bénéfice des intéressés, l’exigence résultant du cinquième alinéa du Préambule de la Constitution de 1946 ; que le Conseil constitutionnel ne dispose pas d’un pouvoir général d’appréciation et de décision de même nature que celui du Parlement ; qu’il ne lui appartient donc pas de rechercher si l’objectif que s’est assigné le législateur pouvait être atteint par d’autres voies, dès lors que les modalités retenues par la loi déférée ne sont pas manifestement inappropriées à la finalité poursuivie ; 21. Considérant, d’autre part, que la faculté donnée à l’employeur de ne pas expliciter les motifs de la rupture du ” contrat première embauche “, au cours des deux premières années de celui-ci, ne méconnaît pas l’exigence résultant du cinquième alinéa du Préambule de la Constitution de 1946») (p.ti 19-21), considerando tutto questo, il diritto del lavoro resta, secondo il Consiglio costituzionale, integro e salvo nei suoi aspetti essenziali.
Ciò che colpisce è l’orizzonte costituzionale limitato, per non dire minimale, in cui il Consiglio colloca la questione del contratto di primo impiego. Questo ‘orizzonte’ è rappresentato dal “diritto di ognuno a ottenere un’occupazione”. Un diritto che, tuttavia, resta sorprendentemente orfano dei principi politici, economici e sociali che la Costituzione francese (insieme ad altre del secondo dopoguerra) riteneva indispensabili per fare di quella pretesa una rivendicazione di civiltà giuridica. Ad esso occorre, infatti, accompagnare, oltre all’assicurazione del proprio sviluppo personale e sociale, alla tutela della salute, al sostegno della collettività nel caso di impossibilità di lavorare e di procurarsi mezzi di sussistenza, anche la possibilità, per ogni uomo e ogni donna, di difendere i propri diritti e i propri interessi mediante l’azione sindacale e l’adesione a un sindacato a propria scelta, il diritto di sciopero, lo stesso diritto di partecipare, per mezzo di propri delegati, alla determinazione collettiva delle condizioni di lavoro, il diritto di ottenere parità di accesso all’istruzione, alla formazione professionale e alla cultura.
Solo decontestualizzando il quinto comma del Preambolo del 1946 rispetto agli altri diritti spettanti ai lavoratori, pure in esso contemplati, è possibile giungere ad affermare – secondo l’ottica del Consiglio costituzionale francese –la compatibilità dell’art. 8 con la Costituzione.
D’altra parte, la spia semantica di questa ‘conformità costituzionale al ribasso’, di cui si è fatto autorevole interprete il Conseil constitutionnel, è contenuta nella frase, sopra riportata, per cui «le modalità fatte proprie dalla legge deferita non sono manifestamente inappropriate alla finalità perseguita», per cui l’obiettivo generico, astraente e meramente quantitativo dell’occupazione (e più che altro della sotto-occupazione) viene, non importa come e a quali condizioni, realizzato.