Conferenza ministeriale del WTO di Hong Kong del 13-18 dicembre 2005: i termini di uno scambio ineguale fra Nord e Sud del mondo e fra popoli e imprese

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Il ciclo di negoziati del WTO avviato a Doha, capitale del Quatar, nel Novembre 2001, persegue l’obiettivo di realizzare l’apertura dei mercati dei Paesi ricchi alle esportazioni dei Paesi del Sud del mondo come rimedio al sottosviluppo. La filosofia di fondo dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) si condensa, infatti, nell’esaltazione del libero mercato e, quindi, della liberalizzazione del commercio come premessa necessaria per fornire una risposta agli squilibri ed alle contraddizioni che dilaniano il pianeta (previsto aumento della popolazione totale di 3 miliardi di persone per il periodo 2000-2050; possibile dimezzamento delle terre coltivabili a causa del riscaldamento climatico).
L’atteggiamento delle due superpotenze commerciali (Unione europea e Stati Uniti), a fronte di tali rilevanti problemi, è stato, tuttavia, quello di trasformare il ciclo di negoziati commerciali in un accesso al mercato in tutti i settori. La strategia multilaterale, ma anche bilaterale, dell’Unione europea e degli Stati Uniti è stata quella di aumentare, in base agli imperativi di crescita e di occupazione, le esportazioni dei servizi e dei prodotti industriali, anche a costo di importare più derrate alimentari.
L’agricoltura pesa, infatti, meno del 2% nel loro PIL, contro il 75% circa fornito dai servizi e dal saldo per prodotti industriali (tra cui i prodotti agro-alimentari).
Nell’ambito del suddetto ciclo di negoziati, la conferenza ministeriale dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) di Hong Kong, che aveva il compito di stabilire regole di commercio stabile, si è conclusa con un modesto compromesso sul sopra descritto terreno strategico.
La modestia del compromesso si è manifestata proprio nella materia dell’agricoltura che, per i paesi più poveri, assume un’importanza fondamentale dato che essi impiegano, in questo settore, la maggioranza della popolazione lavorativa. Per i paesi ricchi l’agricoltura assume, invece, un rilievo trascurabile anche se viene utilizzata come strumento di ricatto politico idoneo ad evitare la modificazione dei rapporti di forza.
I governanti dei paesi poveri hanno ottenuto, cioè, una elemosina utile soltanto a dimostrare, ai loro governati, di aver conseguito un, pur modesto, risultato.
Il ministro indiano Kamal Nath ha, del resto, sostenuto che si è trattato di “no scontro tra i paesi dove 650 milioni di persone sopravvivono con meno di un dollaro al giorno e i paesi che spendono più di un miliardo di dollari al giorno solo di sussidi agricoli”. Sono questi ultimi paesi ad aver vinto, ancora una volta, nella sostanza, il conflitto dialettico svoltosi nella ministeriale di Hong Kong.
Il compromesso, al ribasso per i paesi poveri, è stato raggiunto, quindi, sulla materia dell’agricoltura anche se, come contropartita, si sono ottenute, dai paesi medesimi, concessioni maggiori per quanto riguarda l’accesso ai loro mercati nei settori dei servizi e dei prodotti non agricoli.
L’Europa e gli Stati Uniti dovranno, comunque, tagliare i sussidi all’export a partire da oggi e fino al 2013, anche se potranno mantenere gran parte degli aiuti destinati all’agricoltura fino al 2010. Nei tre anni successivi dovranno, però, avviare un processo di rapida e totale eliminazione degli aiuti medesimi.
Il 2013 è, del resto, la data stabilita, negli stessi giorni, al vertice di Bruxelles, per la riforma della Politica agricola comune (PAC).
La Francia aveva esercitato pressioni sul Commissario europeo al Commercio Peter Mandelson, affinché ponesse in sintonia cronologica le due sopramenzionate scadenze.
Occorre rilevare, a questo proposito, che non si era mai verificato che un vertice dei 25 Capi di governo dell’Unione si intersecasse con una ministeriale WTO e che una rilevante crisi europea si sovrapponesse al preoccupante stallo dei negoziati multilaterali (specie dopo il fallimento di quelli di Seattle dal 1999 e di Cancun del 2003) finalizzati ad avviare una nuova fase di liberalizzazione del commercio mondiale. La casuale coincidenza è servita, probabilmente, a far percepire, ai 25 Paesi dell’Unione ed ai 150 della WTO, che l’incomunicabilità ed i conflitti di interessi avrebbero potuto produrre effetti ancora più negativi.
Si assiste, infatti, al manifestarsi di un neo-liberismo in cui il libero scambio costituisce il dogma centrale che legittima i dirigenti politici a mercanteggiare tra loro ad insaputa dei popoli. I rappresentanti delle istituzioni finanziarie transnazionali, i dirigenti delle multinazionali, i grandi media spingono verso una sempre maggiore liberalizzazione. Basti pensare alla crescente rilevanza acquisita dagli accordi di libero scambio bilaterali ed all’interno dei nuovi blocchi regionali. Di fronte all’incapacità di pervenire ad intese mondiali si formano alleanze di paesi su scala mondiale che provano a ritagliarsi una globalizzazione su misura.
Il vertice di Kuala Lumpur ha sancito, ad esempio, l’istituzione di una nuova associazione tra Cina, India e sud-est asiatico. I luoghi di decisione reali si allontanano, insomma, dal WTO.
Il Financial Times ha pubblicato, del resto, nel numero dell’8 novembre 2005, un appello firmato da alcuni rappresentanti del gotha internazionale degli affari che ingiunge, ai governi, di trovare i compromessi necessari per salvare il sistema del commercio multilaterale che “tanto ha fatto per alzare il livello di vita nel corso dell’ultimo mezzo secolo” (cfr., B. CASSEN, Il superamento della mercificazione, in Le Monde diplomatique, n. 12, dicembre 2005, p. 5, nt. 3).
La parola d’ordine comune è divenuta, pertanto, quella di “salvare Doha ad Hong Kong”. Nonostante l’OMC (WTO), composta da 150 membri, assomigli ad un vero e proprio “girone dantesco” per la diversità e la contraddittorietà degli interessi, per la forza degli egoismi, per l’enorme disparità dei rapporti di forza, per la difficoltà di pervenire a una decisione mediante l’utilizzo della regola dell’unanimità.
Se non si fosse pervenuti ad una dichiarazione comune, si sarebbe prodotto un grave pregiudizio per tutto il ciclo di negoziati Doha sulla liberalizzazione del commercio globale e lo sviluppo che dovrebbe concludersi il prossimo anno.
Lo stesso Peter Mandelson ha dovuto, tuttavia, ammettere che l’accordo raggiunto “non è sufficiente per fare di questo vertice un vero successo, ma lo è per evitare un fallimento”. Le sue valutazioni sono state, ovviamente, più positive di quelle del ministro di Mauritius che, a nome dell’associazione dei paesi di Africa, Caraibi e Pacifico, ha dichiarato che permane “un senso generale di frustrazione”, o di quelle di un rappresentante africano che ha ammesso di aver dovuto “firmare l’accordo perché più di così al tavolo non c’era”.
I paesi ricchi hanno accettato, come s’è detto, di abolire, ma solo nel 2013, i sussidi in favore delle loro esportazioni agricole, ossia quei sussidi che rendono meno costose le esportazioni medesime e determinano, di conseguenza, una concorrenza sleale alle produzioni dei contadini del Terzo mondo. Europa ed America si sono, inoltre, impegnate, nei confronti dei 50 paesi più poveri del pianeta, ad abolire, a partire dal 2008, i dazi doganali sul 97% dei loro prodotti.
I paesi ricchi importeranno, cioè, il 97% dei prodotti provenienti dai paesi meno avanzati senza esercitare alcun diritto di dogana, né stabilire quote o contingentamenti.
L’accordo è stato giudicato, tuttavia, negativamente, dai paesi poveri e dalle organizzazioni non governative, sia per la scadenza lontana delle concessioni ottenute (il c.d. Gruppo dei 20, guidato da India e Brasile e composto da altri 90 paesi poveri, ha chiesto, pressantemente, che l’U.E. tagliasse i suoi sussidi a partire dal 2010), sia perché i sussidi all’esportazione rappresentano soltanto una parte modesta delle politiche protezioniste europee. La politica agricola comunitaria contempla, invero, l’elargizione, secondo varie modalità, di sovvenzioni assai sostanziose. Basti pensare agli aiuti diretti o al sostegno dei prezzi a favore degli agricoltori europei (il 22% ai francesi; il 15% agli spagnoli; il 14% ai tedeschi; il 13% agli italiani). Vi sono, poi, i finanziamenti nazionali all’agricoltura ed una molteplicità di aiuti pubblici che edificano, attorno ai mercati alimentari europei, una barriera protettiva pressoché insormontabile.
Occorre, inoltre, considerare che le nazioni più sviluppate, lungi dall’aver disposto l’abbattimento di tutte le barriere a favore dei 50 paesi più poveri del pianeta che rappresentano l’1% del commercio mondiale, si sono limitate ad abolire il protezionismo specialmente in relazione a categorie merceologiche non prodotte dai paesi poveri (es.: gli aerei).
Restano, invece, ben saldi numerosi dazi (circa un 3%) in settori sensibili (a favore, ad esempio, del riso giapponese o di alcuni tessili).
A fronte di queste vuote ed ipocrite concessioni i paesi ricchi hanno chiesto ed ottenuto, dai paesi poveri, un’apertura sui dazi industriali e sui servizi.
L’accordo è stato criticato, in modo radicale, dai movimenti sociali che, nel corso di manifestazioni e disordini (vi sono stati centinaia di arresti), hanno chiesto l’immediata interruzione dei negoziati WTO, evidenziando la dannosità del libero commercio per le classi sociali subalterne e per i paesi poveri.
I movimenti di contestazione ritengono che le politiche di libero commercio del WTO sostengono, esclusivamente, l’agribusiness a danno dei piccoli produttori. Il WTO obbliga i contadini, di tutto il mondo, a competere a livello globale causando la caduta dei prezzi e l’aumento della povertà.
I movimenti sociali hanno evidenziato come, nei negoziati di Hong Kong, abbia vinto, ancora una volta, l’egoismo del Nord del mondo.
Essi si sono sentiti traditi anche da paesi come il Brasile e l’India, che, pur essendo degli assi portanti del G20, hanno accettato un’accelerazione della liberalizzazione dei servizi relativi alla soddisfazione di bisogni fondamentali (quali, ad esempio, l’acqua).
Nei paesi del Nord e del Sud del mondo matura sempre più la consapevolezza che tutte le sicurezze sociali e collettive stanno esplodendo sotto la pressione di un libero-scambismo esasperato.
Un esempio concreto di questa deriva è rappresentato, nell’Unione europea, dalla direttiva Bolkestein che è stata, di recente, votata dalla Commissione del mercato interno del Parlamento europeo e che, mantenendo, con restrizioni di sola facciata, il “principio del paese d’origine”, organizza la corsa verso il basso dei salari e della protezione sociale.
I ministri e gli esperti delegati degli stati membri, nei vertici di Seattle (1999), Doha (2001), Cancún (2003) e di Hong Kong (2005), hanno perseguito, in effetti, in nome della “liberalizzazione”, il solo scopo di mercanteggiare su tutte le attività umane.
In queste sedi le apparenti concessioni su determinate materie (ad es. l’agricoltura) sono state abbondantemente compensate da altri vantaggi (ad es. i sevizi). L’obiettivo dei potenti resta, infatti, la ricerca del profitto e della redditività delle imprese, senza la minima preoccupazione sociale ed ambientale.
Per i poveri del mondo è in gioco, invece, la stessa sopravvivenza economica.
La loro unica speranza resta, pertanto, affidata alla ripresa ed alla unificazione delle lotte finalizzate a risolvere le questioni sociali su basi diverse da quelle del mercato e delle sue regole, ossia rivendicando la creazione di strumenti di direzione e controllo sociale sul duplice versante della produzione di beni e della produzione dei servizi.