Documento finale del vertice ONU del 14-16 settembre 2005. La difficile simbiosi tra «sviluppo umano» ed «economia sviluppata» e il perseguimento dell’obiettivo della “libertà dalla paura”. (a cura e con un commento di G. Bucci e L. Patruno)

Esiste un filo conduttore, neanche tanto invisibile, che lega il vertice mondiale ONU del 14-16 settembre 2005 ai lavori annuali del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale tenutisi a Washington il 24-25 settembre 2005.
La parola-chiave che contribuisce, più di qualsiasi articolata dissertazione analitica sul punto, a far emergere questo collegamento è quella dello “sviluppo”: «sviluppo economico», «sviluppo del benessere», «sviluppo delle istituzioni democratiche», «sviluppo dei diritti umani». Non è, allora, un caso che nel documento finale del vertice mondiale ONU si affermi che le proposte nel settore dello “sviluppo” abbiano, quale obiettivo principale, una “svolta” in materia di riduzione del debito e di liberalizzazione del commercio, mirando ad un aumento degli aiuti ai paesi più poveri, sia al fine di rivitalizzare le infrastrutture e migliorare i servizi sanitari ed educativi, sia per poter conseguire gli obiettivi di sviluppo del Millennio (MDGs), incluso il dimezzamento della povertà estrema entro il 2015.
In un’intervista rilasciata a “Il Sole 24 ore” del 22 settembre 2005 (pp. 1 e 9), il neo-presidente della World Bank, Paul Wolfowitz ha espresso il medesimo punto di vista, ribadendo che risulta prioritaria, nell’agenda della Banca mondiale, la garanzia della “libertà dei commerci” per favorire la pace, la sicurezza, e la concorrenza leale tra paesi industrializzati e paesi emergenti.
Per quanto sotterranea, la convinzione che pare sempre di più accomunare le Nazioni Unite e le istituzioni “forti” della globalizzazione (FMI, BM, e WTO), all’insegna dell’equazione sviluppo economico del libero commercio=relazioni pacifiche tra gli Stati, sembra coincidere con l’idea protoliberale che «la grande estensione e il rapido incremento del commercio internazionale» siano «la principale garanzia di pace nel mondo» (J. S. MILL, Principles of Political Economy: with some of their Applications to Social Philosophy, Fairfield, Augustus M. Kelly Publishers, 1976, p. 582).
Come è stato lucidamente sottolineato, «l’idea che l’approfondimento delle interdipendenze tra le nazioni sia una garanzia di convivenza pacifica, pezzo fondamentale della retorica libeo-scambista» è «una convinzione quanto meno semplicistica» (S. D’ACUNTO, Interdipendenza economica, sistema monetario internazionale e guerra nelle analisi di Keynes e Polanyi, in Democrazia e diritto, n. 1, 2005, p. 269).
Ciò, perché, in primo luogo, i rapporti di interdipendenza economica e di libero scambio fra Stati non possono essere letti e interpretati in astratto, ma vanno considerati e commisurati al «grado di turbolenza dell’ambiente economico» in cui si svolgono; e, in secondo luogo, perché «il sistema di regole che governano le relazioni economiche internazionali, che a sua volta influenza l’ampiezza del set degli strumenti a disposizione dei singoli Stati per far fronte alle emergenze economiche interne, può condizionarne profondamente la propensione alla cooperazione internazionale» (S. D’ACUNTO, op. cit., pp. 269-270).
Fatte queste considerazioni, diventa cruciale un interrogativo. Quanta autonomia e credibilità ci si può aspettare, ad esempio, da un rafforzamento del Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC) dell’ONU, in virtù del quale esso svolgerebbe una funzione più attiva nel coordinamento delle politiche di sviluppo a livello di sistema internazionale, atteso che le modalità di raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del Millennio, paiono acriticamente uniformarsi al modello del Washington Consensus propugnato dalle istituzioni “forti” della globalizzazione? Possono le Nazioni Unite subordinare l’universalismo geopolitico e umanitario alla compatibilità macroeconomica di un progetto mondiale di sviluppo che vede nel Fondo monetario internazionale, nella Banca mondiale e nell’Organizzazione mondiale del commercio i vettori neoliberisti e neooligarchici della globalizzazione?
All’universalismo dichiarato in sede del vertice mondiale dell’ONU sembra corrispondere, sul piano dei rapporti concreti di sviluppo e di indirizzo politico-economico globale, un rinnovato protezionismo, non più statuale o nazionale in senso stretto, ma “frantumato” e “mirato”, rispondente, oggi, alle spinte, sia politiche che economiche, provenienti da specifiche corporations e da gruppi di potere di settore. Queste nuove produzioni protette si “frantumano” e si “disperdono” in un quadro omogeneo di interdipendenza economica neoliberista. Quest’ultimo, a sua volta, costituito e garantito dalle norme prodotte e implementate in virtù degli accordi e delle procedure previsti e tutelati dal Fondo monetario internazionale e dall’Organizzazione mondiale del commercio, è diventato la base ideologica attraverso cui sostenere, astrattamente, la perseguibilità, la fattibilità delle relazioni pacifiche tra gli Stati. Base “ideologica” perché non sembra affatto che i benefici del commercio internazionale si facciano sentire sia sulla situazione complessiva internazionale, caratterizzata dalla recessione dei paesi industrializzati e da pratiche monopolistiche relative all’andamento dei prezzi del petrolio, sia sull’escalation dei conflitti militari, i quali anziché rappresentare l’eccezione costituiscono la triste regola che governa il disordine ordinamentale dei paesi più poveri e che sembra presiedere alla soluzione delle crisi internazionali, a prescindere dalle cause e dai motivi capaci di innescarle. In questo contesto, per quanto il riferimento giuridico delle Carte internazionali e degli statuti delle istituzioni internazionali sia rappresentato dai popoli e dagli Stati nel loro assetto democratico-costituzionale, viene sempre di meno «considerato l’interesse della collettività nel suo insieme e più gli interessi delle singole produzioni, o meglio, dei singoli produttori, il cui grado di produzione dipende anche dal peso politico che questi ultimi possono esercitare sui rispettivi governi» (A. COMBA, Il neo liberismo internazionale. Strutture giuridiche a dimensione mondiale. Dagli accordi di Bretton Woods all’organizzazione mondiale del commercio, Milano, Giuffrè, 1995, p. 281).
Di qui lo svilimento del multilateralismo e la sua riduzione a costrutto sovrastrutturale di decisioni politiche non contrattate, subpolitiche, riflesso condizionato di una visione della trans-statualità incentrata sui principi di autocorrezione e autoconservazione delle relazioni commerciali internazionali.
Il progetto di sviluppo dell’ONU non può fondarsi su un rafforzamento del suo intervento economico e sociale che sia la fotocopia delle attuali priorità e modalità di produzione e di sviluppo proposte dall’ FMI, World Bank e WTO. Ciò avallerebbe un modello di sviluppo ancora una volta non in sintonia con le finalità originarie della Nazioni Unite.
Quando, nel documento finale del vertice mondiale ONU, si fa riferimento a un rafforzamento delle Nazioni Unite, sulla scorta della convinzione diffusa che esse debbano «adattarsi» alle sfide globali e alle esigenze della odierna geopolitica, occorre domandarsi quale sia il punto di equilibrio tra la consapevolezza che il proprio ruolo, in questi anni, sia stato ridimensionato dalla “volontà di potenza” di alcuni Stati – monopolizzatori dei reali rapporti di forza sullo scenario mondiale – e la necessità che la riscoperta della propria funzione, di garante dei diritti umani e della pace, non si tramuti nella passiva accettazione di un modus operandi dominante, valido solo perché derivato da un’egemonia di fatto di alcune istituzioni internazionali (peraltro titolari di funzioni originariamente limitate e indirizzate a specifici scopi di intervento economico realmente solidale e sociale), chiamate a gestire, per un processo di autoinvestitura ancora tutto da decifrare e da analizzare, – in via transitoria e permanente allo stesso tempo – i processi globali, politici ed economici, in atto.
Si tratta, cioè, di comprendere, in senso più generale – e dal punto di osservazione del costituzionalista – quali siano le conseguenze del fatto che l’opinione più diffusa, nella valutazione del rapporto tra Stati e ordinamento internazionale, assuma «come dato di partenza l’ineluttabilità di cinque fenomeni: la globalizzazione (nei suoi vari profili: economici, tecnologici e culturali), l’incremento del diritto internazionale dell’economia (con il parallelo proliferare di organizzazioni e sedi decisionali), l’incremento dell’autoregolazione dei rapporti economici transnazionali (in via contrattuale, ad opera dei protagonisti degli scambi), la riappropriazione dello ius ad bellum da parte della superpotenza mondiale e dei suoi satelliti, contro quanto previsto dalla Carta dell’ONU, e – su un piano solo parzialmente diverso, e comunque vitale per gli Stati del vecchio continente – l’avanzato stadio raggiunto dai processi di edificazione della Comunità europea e dell’Unione europea (quale contenitore della prima, e autonomo strumento di integrazione interstatale» (M. DOGLIANI, Politica e antipolitica; democrazia d’indirizzo versus democrazia d’investitura, in S. Labriola (a cura di), Ripensare lo Stato, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 633-634).
Non solo. L’attenzione ai processi di trasformazione delle Nazioni Unite coinvolge una tematica costituzionale che deve essere affrontata. Ossia, la valutazione del permanere della effettiva compatibilità – verificandone le effettive condizioni, le reali connessioni e gli eventuali limiti – tra i principi internazionali, vagamente ispirati a un “nuovo corso” dell’ONU e dei suoi strumenti organizzativi di intervento sullo scenario mondiale, e quelle disposizioni costituzionali che sanciscono l’“apertura” dell’ordinamento nazionale verso l’ordinamento internazionale. E’ questo, probabilmente, un problema già attuale e scottante. Occorrerà, forse, in questo contesto, ridefinire la stessa nozione di “ordinamento internazionale”. Questo perché, se è vero che «le norme di diritto internazionale, raffrontate a quelle del diritto costituzionale vigente, rivelano, così, la perfetta concordanza esistente tra ordinamento internazionale e ordinamento interno», purtuttavia, pare altresì indiscutibile che tale «concordanza» non sia «solo astratta coincidenza di principi, ma innanzitutto processo dinamico, adeguamento interattivo, consolidamento degli strumenti di adattamento del diritto interno al diritto internazionale» (C. DE FIORES, “L’Italia ripudia la guerra”?La Costituzione di fronte al nuovo ordine globale, Roma, Ediesse, 2002, pp. 116-117).
C’è un ultimo punto, ma di importanza capitale.
In termini di “pace” e “sicurezza”, nel vertice ONU, si è ampiamente discusso delle modalità per rendere il mondo più sicuro, migliorando gli accordi collettivi di sicurezza. Le proposte formulate in questo caso includono iniziative per prevenire gli atti di terrorismo di ampia portata e la proliferazione di armi di distruzione di massa. Si è chiesto agli Stati membri di accordarsi su una definizione universale di terrorismo e di aderire a una convenzione globale contro il terrorismo.
E su questo occorre fare una considerazione di carattere generale.
Alla base del progetto universalista postbellico dell’ONU vi è il nesso pace-diritti. «Per il neonato ordinamento internazionale, solo l’effettiva affermazione dei diritti dell’uomo avrebbe potuto, in altre parole, scongiurare il ripetersi degli orrori compiuti nel corso del secondo conflitto mondiale e le atrocità dell’Olocausto. Un principio questo che trova una delle sue principali fonti di ispirazione nel celebre messaggio sulle “quattro libertà” pronunciato da Roosevelet al Congresso degli Usa (6 gennaio 1941), nel corso del quale il presidente americano invocherà una nuova era nella storia del mondo. Un’era fondata sui diritti e sulla pace, “libera dalla paura” e in grado di porre finalmente al bando le violenze commesse da ogni nazione e “gli atti di aggressione compiuti contro i suoi vicini, ovunque, nel mondo”»(C. DE FIORES, op. cit., pp. 114-115).
Nonostante la presenza dell’ONU, oggi, il sentimento collettivo più diffuso è proprio la “paura”, paura “politica”, paura “sociale”, paura “economica” (cfr., in merito, il bel libro di C. ROBIN, Paura. La politica del dominio, Milano, Egea, 2005).
Soprattutto dopo l’11 settembre, la paura politica sembra pervadere, in forma diffusa, i meccanismi istituzionali interni e i meccanismi di relazione e di interazione internazionale. Come ha scritto Robin: «la paura politica consolida intenzionalmente o inevitabilmente – essendo il risultato talvolta voluto e talvolta no – la distribuzione del potere e delle risorse esistente in una società; influenza il dibattito pubblico e incide pesantemente sulle scelte di politica pubblica. La paura politica assume solitamente una di queste due forme. Innanzitutto, governa i rapporti tra gli ordini superiori e inferiori della società, la cui paura reciproca contribuisce a preservare le disuguaglianze dalle quali è generata. In secondo luogo, la paura politica può nascere da forze esterne o interne a una società nella quale l’intera popolazione sia minacciata da un nemico straniero o da fenomeni pericolosi, quali la criminalità, la droga o la decadenza morale. Nella pratica effettiva (…) questi due tipi di paura sono spesso intrecciati e si rafforzano reciprocamente» (C. ROBIN, op. cit., p. 196).
Anche qui occorrerà verificare la reale portata del peso e dell’autorevolezza dell’ONU e del suo Consiglio di sicurezza sulle questioni attinenti alla c.d. guerra preventiva e alla summa divisio – del tutto arbitraria e unilaterale – tra “Stati canaglia” e “Stati virtuosi esportatori di democrazia” (V., ad esempio, sul punto, J. DERRIDA, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003).
Il rischio, infatti, in questo genere di arbitrarie e discutibilissime classificazioni, è quello di considerare come un dato di fatto, acclarato e condiviso, un’inquietante tripartizione dei ruoli politici e sociali all’interno degli Stati membri delle Nazioni Unite e tra Stati e Stati. Una tripartizione composta da: a) élites decisionali detentrici del potere insindacabile dell’uso della forza come metodo di risoluzione dei conflitti; b) spettatori inermi (cittadini e pubblica opinione mondiale) dell’esplosione arbitraria di questa o quella volontà di potenza, ratificata ex post in sede ONU; c) vittime innocenti, catalogate come tali a seconda della convenienza politica e della strategia mediatica maggiormente adeguate a sostenere e legittimare la logica e la retorica del più forte.
Dunque gli slogans prediletti di questo vertice ONU, “libertà dal bisogno” e “libertà dalla paura”, attendono una verifica, attendono di essere osservati attraverso la lente del costituzionalismo e dei suoi principi-cardine: la limitazione del potere effettivo e la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale, al di là della semplice constatazione di un richiamo formale alle categorie “buoniste” del riconoscimento “oratorio” dei diritti umani e della solidarietà di facciata delle organizzazioni internazionali, impegnate, sempre più spesso, a dar conto del loro operato a istituzioni e principi ancorati a visioni “commercialistiche” dei rapporti tra decisioni globali e democrazia.