Maggioritario

 

Sommario: 1. Il principio maggioritario e il suo ‘assurdo inverso’. 2. Due risposte sulla realizzazione degli obiettivi del maggioritario: negativa per quelli proclamati. 3. Segue: affermativa per gli obiettivi politici effettivamente perseguiti. 4. Un Parlamento di ‘figuranti’. 5. Il Partito maggioritario. 6. Qualche dubbio su eguaglianza (e libertà) dello stesso voto ‘in partenza’.

1.- Il principio maggioritario e il suo ‘assurdo inverso’. “Maggioritario” è aggettivo che da tempo ha grandissima fortuna: politici, politologi e giuristi, stampa ed altri media ne parlano continuamente [1] ma non sempre nella stesso senso, spesso “assimilando e sovrapponendo” casi rispondenti a logiche diverse “senza distinguere principio maggioritario elettivo e deliberativo [2]), principio maggioritario di rappresentanza funzionale [3].
L’aggettivo viene anche riferito a più “cose” – legislazione elettorale, sistema politico, Parlamento, Governo, sistema complessivo – e, mutando di senso a seconda degli accostamenti, finisce per presentare una varietà di sfaccettature che genera equivoci. Edoardo Ruffini osservava che persino nel significato apparentemente ovvio di criterio per stabilire quando una proposta s’intende approvata o respinta, considerato quanto “numerosi e vari possano essere i mezzi per dare a un gruppo una volontà unitaria”, il principio maggioritario come regola per cui “in una collettività debba prevalere quello che vogliono i più e non quello che vogliono i meno”, non è poi così ovvio e naturale. Il principio maggioritario appare ‘naturale’e ‘ovvio’, precisa l’Autore, solo “fino a tanto che lo si contrappone al suo assurdo inverso, il principio minoritario” [4]. Ma proprio in quest’ultimo, e dunque nel suo contrario, esso rischia talora di trasformarsi.
Quell’assurdo inverso, infatti, è l’esito cui il principio maggioritario può condurre in casi diversi da quello in cui un collegio è chiamato a deliberare su una sola questione che ammette un’unica alternativa, approvare o respingere. Riferito all’elezione di una o più persone, il principio assume un altro significato: eletto è chi ottiene più voti rispetto agli altri candidati, anche se si tratti di una minoranza di voti entro il collegio, purché sia la minoranza più alta [5]. In materia elettorale, “maggioritario” assume un significato specifico, contrapposto a “proporzionale”: un sistema che nel tradurre i voti in seggi consente ad una lista di ottenere più seggi di quanti gliene spetterebbero in base al criterio proporzionale [6], falsando la rappresentanza e travolgendo il senso profondo del governo rappresentativo. “The essential property of representative governemt is to produce coincidence between the wishes of the sovereign and the wishes of the subjects”, scriveva Dicey; ma il sistema elettorale britannico, per il quale la mancanza di corrispondenza fra voti e seggi è tale da stroncare partiti di dimensione nazionale diversi dai due maggiori, è da anni sotto accusa [7]. Emblematico è il risultato delle elezioni dell’ottobre 1974 nelle quali il Partito liberale con il 18,3% di voti ottenne il 2,1% in seggi; meno anche dei partiti locali i quali, col 3,5% di voti, raggiunsero il 2,2% in seggi [8].
L’insofferenza per gli esiti di esclusione, da tempo all’attenzione dei laburisti, indusse Tony Blair, benché poco favorevole, a continuare la politica del precedente leader, John Smith, inserendo nel programma del partito il mutamento del sistema elettorale e, nel dicembre 1997, una Commissione indipendente, presieduta da Lord Jenkins, fu incaricata di studiare e preparare un progetto di riforma elettorale per ridurre gli effetti distorsivi del plurality. Ma il progetto, benché approvato all’unanimità dai membri della Commissione, dopo la vittoria elettorale rimase nel cassetto [9]).
L’alterazione della rappresentanza, che pure suscita reazioni nella patria stessa dell’uninominale maggioritario, in Italia è considerata da molti un esito scontato e ininfluente a fronte del grande vantaggio: la governabilità [10]. Le conseguenze appaiono tanto più gravi di fronte al problema che il principio di maggioranza in ogni caso porta in sé: il problema del dissenso e delle minoranze che ha costituito la ragione prima del suo difficile e lento affermarsi contro il principio di unanimità [11].
All’interno di un discorso politicamente orientato, negli ultimi decenni il meccanismo elettorale è stato visto e voluto come primo passo verso un governo maggioritario – monopartitico a maggioranza ristretta [12] – attraverso la semplificazione del sistema politico, la concentrazione dei partiti e la formazione di un Parlamento maggioritario che non ‘ostacoli’ l’azione del Premier ma gli assicuri libertà e efficacia di “decisione”; per giungere alla fine, nell’ottica dell’unicità del potere [13], alla “democrazia maggioritaria”, in definitiva, ad una diversa forma di stato. L’entità delle alterazioni agli equilibri del sistema, che la caratterizza, ne rende assai dubbia, infatti, la collocazione tra le forme di governo anziché tra le forme di stato [14].

2.- Due risposte sulla realizzazione degli obiettivi del maggioritario: negativa per quelli proclamati. La prima mossa, la sostituzione del sistema proporzionale, in Italia, da anni ormai, è stata compiuta. Si può affermare che il generale effetto “maggioritario” si sia prodotto? La risposta negativa è apparsa fino ad ora [15] evidente, con la sola parziale eccezione, nella XIV legislatura, del funzionamento del Parlamento (infra, § 4). Ma, formulando diversamente l’interrogativo e chiedendosi se la sostituzione del sistema proporzionale abbia raggiunto ‘gli effetti sperati’, la risposta è invece affermativa. L’obiettivo reale dei riformatori può dirsi raggiunto. La diversità dipende dalla formulazione della domanda.
Se l’obiettivo finale era un generale effetto maggioritario [16] la risposta negativa s’impone; non pare proprio che il mutamento del sistema elettorale abbia funzionato secondo gli automatismi auspicati. La frammentazione, anziché ridursi, è aumentata, l’unicità della leadership è stata messa in discussione [17], la maggioranza non ha tenuto [18], il cammino verso la democrazia maggioritaria non è giunto alla conclusione felice. Neppure la scorciatoia cui è ricorsa la maggioranza berlusconiana per garantirne la piena realizzazione è servita: il corpo elettorale ha fatto barriera. Chiamato a pronunciarsi sul testo approvato dal centro – destra lo ha respinto impedendo lo stravolgimento della Costituzione del 1948 e dei suoi principi. L’esito del referendum costituzionale, unito all’alta partecipazione dei cittadini al voto, è un fatto significativo che non può essere ignorato neppure da riformatori che nulla scoraggia, già pronti a ripartire [19].
Quella scorciatoia, tuttavia, in se stessa è significativa; l’approvazione del nuovo testo da parte della maggioranza al potere ben conferma il dubbio (della maggioranza stessa) sugli “automatismi” e dunque sulla possibilità di conseguire gli effetti del maggioritario senza che una riforma costituzionale costringa normativamente il sistema agli esiti di concentrazione auspicati; è la riprova dunque di quanto fosse astratto il convincimento d’incidere sul sistema politico, con l’effetto di trascinamento sulle istituzioni, mediante i soli meccanismi elettorali [20].
La smentita più clamorosa è venuta sul piano che avrebbe dovuto registrare per primo gli effetti benefici della nuova legislazione elettorale: il sistema partitico. Le cifre parlano da sole; non soltanto la frammentazione non si è ricomposta, ma all’accresciuto numero di partiti, movimenti, sigle elettorali e post – elettorali, si è accompagnata una diversa qualità delle entità affiorate: talora piccolissime, spesso del tutto prive di riscontri elettorali, quasi sempre personalizzate e identificate con un unico politico le cui ambizioni, aspirazioni future, ambiguità, hanno prevalso su ogni ‘fedeltà’, legame e impegno elettorale. Da qui l’accentuato trasformismo che ha reso da subito difficile e fluida la “maggioranza”, e la resistenza interna che ne ha boicottato o ritardato l’azione. Sono cose note che non serve ripetere; più accentuate e visibili, forse, nel centro-sinistra, ma ben presenti nel centro – destra e accesamente denunziate dal leader della coalizione all’inizio della campagna elettorale (specialmente a proposito dell’UDC). I risultati delle elezioni recenti confermano che soltanto una novità relativa al “partito”, aggiungendosi ai meccanismi maggioritari ha consentito la semplificazione [21].
Tuttavia, come dicevo, la risposta negativa è parziale. Si può dire infatti che, almeno nella fase del governo Berlusconi, in ordine al funzionamento del Parlamento alcuni effetti corrispondenti al disegno maggioritario si siano verificati, come dimostra l’approvazione solerte e obbediente di varie leggi sulle quali sarà il caso di ritornare [22].

3.- Segue: affermativa per gli obiettivi politici effettivamente perseguiti. Venendo alla seconda ipotesi, che l’obiettivo finale fosse un altro e all’effetto bipolare automatico, pur desiderandolo, si sia creduto poco, si deve invece concludere che la riforma elettorale ha avuto successo.
Se come pensa Ugo Rescigno [23] il significato più profondo delle riforme elettorali era stato “il tentativo di distruggere i tradizionali partiti di massa, come erano nati dopo la Resistenza e come si erano affermati da allora per alcuni decenni, e di sostituirli con altri tipi di partito”, l’eliminazione del proporzionale ha realizzato sicuramente questo scopo, e nel contempo, lo scopo ulteriore ad esso conseguente.
L’obiettivo – ho pensato sempre [24] – andava infatti ben oltre la trasformazione dei partiti, passaggio indispensabile per incidere sulla società e la sua struttura ma non fine a sé stante. Il costo della partecipazione democratica era troppo alto (come del resto varie parti hanno apertamente dichiarato), troppo numerosi i bisogni che si affacciavano alle istituzioni per poterli soddisfare senza nulla togliere a posizioni consolidate. Essenziale era dunque la riduzione delle domande e il modo più efficace per raggiungere il fine era la riduzione dei loro canali di trasmissione, in primo luogo dei partiti. Così alcuni interessi sono rimasti senza voce, altri, pure debolmente rappresentati, senza forza contrattuale. Il mutamento dei meccanismi elettorali, sullo slogan della “democrazia immediata” di duvergeriana memoria [25], ha portato inevitabilmente alla riduzione della domanda da tempo auspicata.
Il sistema intero si è riorientato verso posizione decisamente moderate. L’effetto, ben noto ed ora pienamente realizzato, è efficacemente descritto dagli autori del passato (Harold Lasky in primo luogo): affinché l’alternanza sia realizzabile, entrambi gli schieramenti devono alleggerire i programmi, smorzare i toni e adeguare le proposte agli orientamenti degli incerti, che, spostando il loro voto, rendono possibile il succedersi di una forza politica all’altra nel governo del paese. E’ una corsa verso il centro come ben dimostrano gli atteggiamenti dei due poli, dei gruppi o “persone” all’interno di entrambi. I programmi tendono necessariamente ad avvicinarsi. Le posizioni estreme, chiaramente definite in un senso o nell’altro, si ritiene (talora a torto) che non siano premiate: caratterizzando fortemente uno schieramento la speranza di pescare nell’ampia zona intermedia appare vana; gli elettori ‘mobili’ sono difficili da conquistare.
Anche questo effetto, insieme alla trasformazione dei partiti, si è già da tempo prodotto: non è un caso che salari, stipendi e pensioni dagli anni novanta siano rimasti quasi inalterati, che un innaturale silenzio abbia avvolto le vicende di ampie fasce sociali, sacrificando il lavoro (sul quale – dice la Costituzione – la nostra Repubblica è fondata) a interessi diversi ampiamente pubblicizzati, favorendo l’accumulo di ricchezze enormi (non sempre, ma almeno talora, disoneste) a favore di soggetti più avventurosi e adeguatamente rappresentati. Una vera trasformazione sociale è avvenuta: la classe operaia, una volta in primo piano, spezzata anche nella sua unità con l’introduzione massiccia del lavoro precario , ha perduto forza, visibilità e riferimenti istituzionali.
Trasformazione dei partiti, trasformazione della struttura sociale [26], dunque un pieno successo.
Le elezioni appena concluse vanno addirittura oltre ogni speranza; la sinistra, dalle istituzioni politiche statali, è completamente sparita: l’effetto “premio di maggiornza” ha funzionato in pieno.

4.- Un Parlamento di ‘figuranti’. Alla faccia instabile e rissosa del Parlamento uscito dal maggioritario se n’è accompagnata un’altra, apparentemente contraddittoria, non meno pericolosa per la democrazia: il consenso costante e acritico dei parlamentari ai provvedimenti proposti dalla loro guida, particolarmente vistoso nel quinquennio del centro – destra il cui perno è un partito ‘monarchico’ (secondo la definizione datane in questi giorni da Berlusconi) con un solo e non discutibile capo che lo ha fondato e lo dirige [27].
Se – come lo stesso leader ha dichiarato nella recente campagna elettorale accusando i suoi alleati della penultima legislatura – alcuni obiettivi non sono stati realizzati per l’ostacolo frapposto da forze interne della maggioranza (in particolare dall’UDC), due rilievi s’impongono. Il primo è che sicuramente gli ostacoli non sono venuti dall’opposizione, certamente non in grado di essere d’impedimento all’attuazione della politica governativa a causa della sua ininfluenza numerica nelle votazioni parlamentari sul cui esito mai ha potuto incidere. E qui si palesa in tutta la sua gravità il problema che il principio maggioritario porta in sé, il problema del dissenso, delle minoranze [28]. Nello stesso tempo viene in primo piano l’altro, non minore inconveniente per la democrazia: un Parlamento per approvare, una schiera di rappresentanti del popolo sovrano destinati a un unico compito: essere presenti per votare in conformità alle indicazioni, un Parlamento di figuranti come l’ha definito il ‘monarca’ (sempre all’inizio di questa campagna elettorale), rispondendo a domande sulle candidature: tutte ininfluenti, appunto, tranne pochissime, considerato il compito gregario assegnato agli eletti. E’ l’idea debole di Parlamento, composto da persone scelte per l’assoluta fedeltà al capo [29].
Non si tratta di parole vuote: passando in rassegna la produzione normativa della penultima legislatura dominata dal centro – destra, evidente appare l’adesione pronta e sicura ai provvedimenti che più da vicino interessavano i dirigenti del polo, quand’anche fortemente discussi nell’opportunità e nella stessa legittimità. L’elenco è nutrito: la legge sulle rogatorie internazionali (presentata il 2 luglio 2001 e approvata il 3 ottobre 2001), la legge sul falso in bilancio (presentata il 3 luglio 2001 e approvata il 28 settembre dello stesso anno [30], la legge Cirami sul legittimo sospetto (presentata il 9 luglio 2002 e approvata il 5 novembre 2002, nonostante il doppio passaggio in Camera e Senato reso necessario dagli emendamenti), il cosiddetto Lodo Schifani sulla sospensione dei processi alle alte cariche dello Stato [31] che, nonostante la sua paternità ambigua, sembra battere il record di velocità (approvata dalla Camera il 9 aprile 2003 e dal Senato, con modificazioni, il 5 giugno 2003, ha l’approvazione definitiva della Camera il 18 giugno successivo; la legge sulla prescrizione, detta ex Cirielli per il ripensamento del proponente che ritira la firma il 25 novembre 2004 (approvata la prima volta alla Camera il 16 dicembre 2004 ottiene l’approvazione definitiva del Senato il 20 novembre 2005, pur con il doppio passaggio in entrambi i rami richiesto dagli emendamenti). All’elenco va aggiunta la legge Gasparri, in materia radiotelevisiva, che, nonostante il rinvio da parte del Presidente della Repubblica e il rallentamento che ha provocato, è stata definitivamente approvata il 9 aprile 2004 a meno di due anni dalla sua presentazione (25 settembre 2002).
Esempio ancor migliore è la veloce riforma della Costituzione: il disegno di legge per la revisione costituzionale, presentato al Senato il 17/10/2003, pur con l’iter aggravato previsto dell’art. 138 Cost. (e varie sospensioni dei lavori) il 16 novembre 2005 arriva all’approvazione finale (a maggioranza assoluta, il che ha consentito il referendum popolare che l’ha bocciata). Da ultimo, ed è forse l’esempio più vistoso, va ricordata l’approvazione della disgraziata riforma elettorale: dalla nomina del relatore di maggioranza, 28 settembre 2005, all’approvazione, 14 dicembre 2005 [32], sono trascorsi poco più di due mesi.
Cosa ci aspetta nella prossima legislatura?

5- Il partito maggioritario. Si è detto all’inizio dei vari significati di “maggioritario” e delle diverse applicazioni [33]. Ad esempio, come l’ha usato Veltroni per esprimere il “nuovo” del partito che si andava a formare – un partito “maggioritario” non solo numericamente, ma omogeneo in tutte le sue componenti, unificato da un programma comune, costruito per governare e non soltanto per vincere le elezioni mediante alleanze di convenienza tra diversi –, l’aggettivo assume un significato che non si ferma al partito, riflettendosi sulle Assemblee legislative, sul Governo, sui loro rapporti e sul loro funzionamento. Ad un simile partito maggioritario seguirebbero infatti un Parlamento maggioritario ed un Governo maggioritario con effetti immediati sul ruolo del Capo dello Stato, anch’esso inevitabilmente modificato; seguirebbe, in definitiva, il consolidarsi di una variante della nostra forma di governo, il ‘governo parlamentare a primo ministro’. Il sistema intero diverrebbe, insomma, ‘maggioritario’. Così il cerchio verrebbe a chiudersi: dopo le riforme fallite, le bicamerali fermate, le intese tradite, gli sforzi pluridecennali, in caso di vittoria l’obiettivo sarebbe raggiunto. Tutto, insomma, sembra muovere dal partito, premessa indispensabile di svolgimenti nuovi. In questo senso, per imprimere un movimento al sistema, il candidato Premier ha avuto sicuramente ragione. Tutto dipende da dove quel “movimento” conduce.
L’elezione di aprile, già prima del suo svolgersi, venne definita un’elezione di svolta, “che sancisce l’avvio di una democrazia … personalizzata e mediatica”, caratterizzata da una competizione diretta fra due leader, come in Francia o negli Usa, secondo un modello presidenziale di fatto. “Anche se in Italia non vige un sistema presidenziale, i principali candidati e i principali partiti agiscono “come se fosse così” – si è scritto – “con programmi non radicalmente dissimili, con reciproco riconoscimento, usando la comunicazione per imporsi “e al tempo stesso difendersi di fronte a un’offerta politica che si è pluralizzata” [34].
Arriviamo così al nodo cruciale, che è appunto il partito, o i partiti; anche se in questa prospettiva non sono solo i numeri a contare e l’atteggiamento di uno dei due maggiori poteva condizionare, e in concreto ha condizionato, gli altri: come potrà funzionare – ci si chiedeva prima delle elezioni – “il bipolarismo (imperfetto) dei 40 partiti”? [35]. A cose fatte la risposta è semplice, almeno all’apparenza; ed è comunque, in parte, sicura: li ha fatti sparire. Soprattutto è sparita la sinistra, come da sempre, fin dall’inizio del “processo riformatore” si voleva. Così una non irrilevante parte della cittadinanza è rimasta senza rappresentanza parlamentare, del tutto priva di voce e di canali di collegamento a livello istituzionale.
L’effetto ‘premio di maggioranza’ è stato risolutivo; molto più di qualsiasi altra riforma ha funzionato l’argomento del voto utile. Per eliminare qualche partito è bastato escluderlo dalle coalizioni negandogli l’accesso alle istituzioni.

6.- Qualche dubbio su eguaglianza (e libertà) dello stesso voto ‘in partenza’. Ma allora, l’“effetto maggioritario” potrebbe prodursi anche senza un sistema elettorale maggioritario?
La domanda sorge perché i nostri attuali meccanismi elettorali non sarebbero più di tipo maggioritario: si dice infatti che con la legge votata dal centro – destra alla fine della penultima legislatura si è tornati al proporzionale. La necessità di precisare a questo punto s’impone, per l’ambiguo senso dell’aggettivo maggioritario che, accennavo all’inizio, può accompagnarsi a varie “cose”. In primo luogo al sistema elettorale. Al di là delle descrizioni diffuse sul modello (Westminster) – collegio uninominale in primo luogo – mi pare appropriato definire il meccanismo maggioritario individuando un elemento caratterizzante sia del modello inglese che delle varianti comunque cammuffate: un sistema “nel quale i partiti maggiori, o almeno un partito, ottiene più seggi (e quindi più potere) di quanti gliene spetterebbero in base al criterio proporzionale” [36]. Il premio di maggioranza, presente nel nostro sistema (anche se concepito, per il Senato, in modo stravagante) distorce indiscutibilmente l’esito della consultazione elettorale, falsando il rapporto fra voti e seggi con l’attribuzione alla coalizione che ottiene più voti di un numero di seggi maggiore “di quanti gliene spetterebbero in base al criterio proporzionale”.
Va peraltro ancora sottolineato che, nei meccanismi attuali, all’alterazione successiva al conto dei voti (nella trasformazione in seggi), si accompagna un’alterazione preventiva per la forza deterrente del voto inutile combinato all’elevata soglia di sbarramento qualora i partiti maggiori respingano alcuni dalla coalizione impedendo loro l’accesso effettivo alla competizione. Sembra con ciò profilarsi una novità in grado di incidere sulla stessa eguaglianza del voto in partenza, considerata ormai fuori discussione. Il problema dell’eguaglianza si porrebbe infatti, secondo affermazione comune, soltanto riguardo all’efficacia non all’espressione del voto, sempre assicurato eguale in partenza ma non a destinazione. E proprio su questa base si distinguono i sistemi maggioritari da quelli proporzionali [37].
Persino queste conclusioni sembrano ora in causa. L’attuale legge elettorale appare addirittura congegnata in modo da incidere nell’espressione stessa del voto, allontanando l’elettore da una scelta che si prospetta assolutamente inutile. L’inefficacia, insomma, è così radicale da reagire sull’espressione stessa del voto, deviandolo verso una lista diversa da quella che l’elettore avrebbe liberamente scelto. Si può ancora parlare di eguaglianza ‘in partenza’? E di libertà?
In questa luce, la stessa costruzione di un partito maggioritario, certamente benefica per la semplificazione, produce effetti pericolosi se accompagnata da forzature distorsive come il premio di maggioranza, tanto più se aggiunto a soglie elevate; effetti pericolosi per la partecipazione degli elettori (l’astensione è cresciuta), per la rappresentanza e l’equilibrato rapporto tra istituzioni e popolo sovrano, per il funzionamento delle istituzioni democratiche.
Resta poi da verificare, quando le istituzioni si metteranno in moto, se la semplificazione numerica comporterà una semplificazione politica o se invece entro le “unità” composite riaffioreranno le diversità. Il sistema politico quando è frammentato non si lascia facilmente ingabbiare entro schemi rigidi e alieni .

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