I limiti della tutela del concepito tra Corte di Cassazione e Corte costituzionale

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Sommario: 1 – La tutela del concepito e della salute della madre; 2 – Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza; 3 – L’interpretazione dell’art. 6, lett. B) della legge 194/1978; 4 – La precedente giurisprudenza e la Cassazione; 5 – L’intervento della Corte costituzionale; 6 – La sentenza 29 luglio 2004 della Cassazione –

1 – La tutela del concepito e la salute della madre – La Corte di Cassazione con la sent. 29 luglio 2004 n. 14488 si è espressa su un tema di estrema attualità, ossia quello della legittimità dell’aborto eugenetico in relazione alla tutela che l’ordinamento appresta al concepito.
La questione è all’ordine del giorno soprattutto dopo l’approvazione della legge n. 40/2004 (norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e le recenti richieste referendarie.
In materia è intervenuta anche la Corte costituzionale: dalle sue affermazioni è bene partire per inquadrare la problematica, prima di esaminare la portata della sentenza della Cassazione.
La Consulta con le sentenze 45, 46, 47, 48, 49 del 2005, concernenti l’ammissibilità dei referendum popolare per l’abrogazione (di tutta o di singole disposizioni) della suddetta legge 40/2004, ha affrontato nuovamente l’accidentato e difficile terreno del rapporto fra i diritti del concepito, che la Corte stessa ha ricollegato agli artt. 2 e 31 della Costituzione1), e quelli della madre del nascituro, con particolare riferimento al diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost2).
Il giudice costituzionale, nel ritenere inammissibile la richiesta di abrogare l’intera legge perché coinvolgente “una normativa …costituzionalmente necessaria”, ha dato atto che il venir meno della disciplina in questione avrebbe comportato di per sé un pregiudizio totale e definitivo nei confronti di determinate situazioni che esigono un minimo di tutela a livello costituzionale ed internazionale3).
Fra gli interessi che la Corte ha ritenuto suscettibili di ricevere un pregiudizio definitivo dall’abrogazione della legge compare anche il divieto di pratiche eugenetiche, previsto dall’art. 3 (Diritto all’integrità della persona) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e presente nella legge 40/2004 all’art. 13, lett. B.4)
Il divieto di pratiche eugenetiche, oltre che ricollegarsi direttamente alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, affonda le proprie radici nello stesso art. 3 della Costituzione ed in particolare nel secondo comma di tale disposto che impone come obiettivo il superamento degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (tra i quali sicuramente l’handicap di natura fisica o psichica).
Sennonché, a dispetto delle giuste preoccupazioni della Corte, non si può fare a meno di notare che, paradossalmente proprio in nome della tutela del concepito e della salute della gestante, una qualche forma di aborto eugenetico rischiava comunque di insinuarsi nel nostro ordinamento per effetto di un’interpretazione distorta della legge 194/1978, che la sentenza della Cassazione n. 14488/2004 sembra aver definitivamente stroncato.
E’ bene osservare da vicino la sentenza in parola in modo da comprendere i rischi che una sperimentazione senza regole sugli embrioni può comportare e al fine di verificare se e quali confini la Costituzione imponga in materia.
Con la sentenza in questione, la Cassazione ha imboccato definitivamente la via tracciata nel 1975 dalla Corte costituzionale, negando in radice la possibilità di ricorrere all’aborto eugenetico, sul presupposto dell’inesistenza nel nostro ordinamento di un diritto di non nascere, nel caso in cui la nascita comporti una wrongful life, una ‘vita ingiusta’.
Nell’occasione il Supremo Collegio ha rimarcato che “il nostro ordinamento positivo tutela il concepito e quindi l’evoluzione della gravidanza verso la nascita, per cui se diritto vuol parlarsi, deve parlarsi di diritto a nascere”.
Del resto, ipotizzare che il concepito abbia un diritto a non nascere nell’ipotesi in cui lo stesso presenti determinate anomalie o malformazioni, significherebbe riconoscere un principio di eugenesi prenatale, in contrasto non solo con i principi di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, ma anche con quello di indisponibilità del proprio corpo di cui all’art. 5 del c.c.
Va ricordato, inoltre, che la tutela del concepito secondo quanto argomentato dalla Corte costituzionale nella sentenza 27/1975, trova il proprio fondamento, nell’articolo 31, comma 2, della Costituzione, che “impone espressamente la protezione della maternità” e nell’art. 2 della stessa Costituzione5), che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito” (infra § 5).
Va inoltre rilevato che la legge 194/1978, intitolata non a caso “norme per la tutela sociale della maternità” oltre che “sull’interruzione della gravidanza” proclama all’articolo 1 che “lo Stato …riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana sin dal suo inizio”.
Per di più, come precisato dalla Cassazione con la sentenza 14488/2004, il “diritto di non nascere sarebbe un diritto adespota (letteralmente: senza padrone), in quanto a norma dell’articolo 1 Cc la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, ed i diritti che la legge riconosce a favore del concepito (art. 462, 687, 715 Cc) sono subordinati all’evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita”. Con l’assurda conclusione che “il diritto di non nascere, fino alla nascita non avrebbe un soggetto titolare dello stesso e con la nascita detto diritto di non nascere sarebbe definitivamente scomparso”.
La problematica stessa che, in realtà, deve considerarsi frutto unicamente della lettura distorta dei dettami della legge 194/1978, è stata, tuttavia, alimentata da influenze d’oltralpe sul diritto “di non essere se non sano”6), ma anche dalla stessa giurisprudenza italiana. Né tale interpretazione è stata bocciata apertamente dal Supremo Collegio. La Cassazione, infatti, pur non avendo mai ammesso l’aborto eugenetico, ha considerato, sia pure implicitamente, presupposto necessario, anche se non sufficiente, per poter ricorrere all’IVG 7)(dopo i novanta giorni) la presenza nel feto di malformazioni o malattie genetiche.
Prima di analizzare la portata innovativa della sentenza in commento è opportuno mettere a fuoco la normativa sull’interruzione volontaria della gravidanza.

2 – Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza – La legge n. 194 del 1978 prevede tre momenti (individuati, il primo dall’art. 4, gli altri due dai punti a) e b) dell’art. 6) durante la gravidanza, in corrispondenza dei quali la possibilità di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza è subordinata a differenti presupposti. Ai sensi dell’art. 4, la donna, nei primi novanta giorni, può ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza nel caso in cui il “coefficiente di rischio (per la salute fisica o psichica della donna, s’intende) è sottoposto a valutazioni di opportunità.
Conseguentemente, come rilevato da Rossi Carleo, “l’interruzione della gravidanza assume il carattere di provvedimento ‘profilattico’, cioè valido per ridurre eventuali danni alla salute materna che il proseguimento della gravidanza potrebbe portare”8).
I requisiti previsti dall’art. 6 fanno riferimento, invece, alla salute intesa come assenza di malattia acuta o cronica, dove “il rischio è visto in termini di probabilità, (e) l’interruzione assume il carattere di provvedimento complementare, utile cioè nella globalità delle cure prestate per diminuire il rischio di un aggravamento di una condizione morbosa già in atto”9).
All’uopo il legislatore, nell’art. 6, distingue due casi:
a) nel primo, che fa riferimento all’ipotesi in cui il feto ha la possibilità di vita autonoma, è consentito ricorrere all’interruzione della gravidanza solo per salvaguardare la vita della donna (art. 7 della l. 194/1978)10).
b) nel secondo, in cui non sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione volontaria della gravidanza è consentita, oltre che nel caso in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, anche qualora “siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
Pertanto, l’ipotesi sub. B) dell’art. 6 della legge 194/78, comprende un lasso temporale fra il novantesimo giorno ed il momento in cui il feto assume vita autonoma.
In definitiva, dunque, tra il novantesimo giorno ed il momento in cui il feto assume vita autonoma, l’interruzione della gravidanza può essere praticata anche nell’ipotesi in cui vi sia un pericolo grave per la salute fisica o psichica della donna dovuto ad un processo di natura patologica.

3 – L’interpretazione dell’art. 6, lett. B) della legge 194/1978 – I dubbi interpretativi dell’art. 6 lett. B) derivano dal fatto che il disposto in parola fa riferimento a processi patologici in modo assai generico.
Lo specialista deve considerare se tali processi patologici provochino “uno stato di pericolosità latente che un’attesa più o meno prolungata, potrebbe aggravare ponendo la donna in condizioni ancora più difficili per la sua salute”, infrangendo l’“armonioso equilibrio di un processo fisiologico che si auspicava normale”11).
L’unico dato certo desumibile dal tenore letterale della norma è che, nell’ipotesi di accertati processi patologici del feto, la donna possa andare incontro ad un grave pericolo per la propria salute (fisica o psichica).
Tuttavia, anche in tale ipotesi, non mancano problemi di carattere interpretativo, in relazione alla diagnosticabilità delle anomalie o malformazioni fetali.
Infatti, al di là delle ipotesi di anomalie o malformazioni verificabili con maggiore o minore accuratezza diagnostica attraverso indagini prenatali (ecografia, amniocentesi, prelievo di villi coriali ecc.), il problema si pone di fronte ai quei processi patologici del feto solo ipotizzabili, come il caso di madre sieropositiva o quello di malformazioni fetali accertabili solo quando il feto abbia già raggiunto vita autonoma (ed ancor più nell’ipotesi in cui tale accertamento sia possibile solo dopo la nascita).
E’ evidente che, in quest’ultimo caso (e per rimanere nell’ambito dei citati esempi), assume rilevanza decisiva, ai fini che qui interessano, stabilire, attraverso indici rivelatori, se vi sia la possibilità che il bambino nasca sieropositivo o malformato.
L’interpretazione teleologica della legge porta a valutare la questione, secondo quella che in definitiva è la ratio fondamentale della norma stessa, ossia quella tutela della salute psicofisica della donna.
La valutazione sia del benessere psicofisico della madre sia dell’esistenza di un nesso causale tra la patologia fetale ed il grave pericolo per la stessa gestante, rappresenta l’aspetto fondamentale della normativa che in tal modo, escludendo la liceità di qualsiasi forma di aborto eugenetico, giustifica in realtà la IVG dopo il novantesimo giorno solo nel caso di una minaccia grave e comprovata per la salute della gestante.
Pertanto, deve ritenersi che non sia determinante la possibilità o meno di diagnosticare l’esistenza delle malformazioni fetali. Anzi tale aspetto deve ritenersi sostanzialmente irrilevante rispetto a quanto il legislatore impone all’attenzione dei medici ai quali l’indagine compete.
La ratio della norma evidenzia, d’altronde, l’esclusiva preoccupazione del legislatore di tutelare un effettivo pericolo per la salute e la vita della donna da qualunque causa esso possa essere determinato12).
Ne emerge, come momento di fondamentale rilievo, l’accertamento non tanto delle anomalie e delle malformazioni fetali, di per sé – è opportuno ricordarlo – non giustificatrici della IVG, bensì del pericolo grave per la salute materna, anche limitatamente all’integrità psichica, unico presupposto che consente l’interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno.
In sostanza, le malformazioni del feto, così come ogni altra possibile circostanza, in tanto sono rilevanti in quanto determinano nella gestante uno stato di squilibrio psichico tale da degenerare in patologia; cosicché è allo stato psicofisico della donna che occorre far riferimento e non alle malformazioni del feto in quanto tali.
Conseguentemente, anche nell’ipotesi in cui non vi sia la certezza, ma solo la significativa possibilità, che il feto sia malformato, se ciò comporta nella gravida un’alterazione del suo equilibrio psichico tale da tramutarsi in un stato patologico, allora è sicuramente possibile praticare l’IVG.

4 – La precedente giurisprudenza – A dire il vero, la giurisprudenza, anche della Cassazione, fino alla sentenza in commento, non si era espressa su quale fosse l’interpretazione da dare al comma in questione.
Sennonché in più di un’occasione, pur sottolineando la necessità di appurare se la gestante sia affetta da processi patologici consistenti in un grave pericolo per la sua salute psichica o fisica, i giudici di merito e la stessa Cassazione hanno ricollegato la necessità di tale indagine alla presenza di accertate anomalie o malformazioni del nascituro.
Significativa, in tal senso la sentenza del 13.12.1994 del Tribunale di Roma13), in cui il giudice romano addirittura distingue a seconda del genere di malformazioni di cui il feto risulta affetto, per discriminare la legittimità o meno di ricorrere all’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni.
Il Tribunale nell’occasione è arrivato a sostenere che le malformazioni pur gravissime del feto, nel caso in cui investano il solo apparato scheletrico ed articolare, non possono legittimare il ricorso all’IVG ai sensi dell’art. 6 della legge 194/1978, perché non intaccano la sfera della coscienza e delle capacità intellettive del nascituro (sic!)14).
Nella fattispecie, dunque, sono le condizioni del feto e non quelle della donna ad essere prese in considerazione; e ciò in evidente contrasto con il tenore letterale della legge, al punto da far ritenere ammissibile il ricorso all’aborto selettivo.
Sennonché, la Cassazione, prima della decisione in commento, non aveva preso una posizione netta in ordine alla problematica, lasciando in definitiva aperta la porta ad un’interpretazione volta a consentire una forma di aborto eugenetico.
Ad esempio, con la sent. 24.3.1999 n. 2793, il Supremo Collegio, chiamato a decidere su una fattispecie vertente in tema di possibili (e non certe anomalie del feto15)), ha respinto le richieste della madre. La Cassazione sebbene abbia sottolineato che a legittimare il ricorso all’aborto è necessario uno stato di grave pericolo per la salute psichica o fisica della donna, ha associato tale stato alle rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro. “Ciò che conta”, si legge nella motivazione, “è la sussistenza del grave pericolo (per la salute fisica o psichica della gestante), che è determinato dalle rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, ma potrebbe mancare pur in presenza di queste”.
La sentenza in questione, in realtà, pur sottolineando la necessità di focalizzare l’attenzione sullo stato di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, sembra ritenere presupposto non sufficiente, ma comunque necessario, la presenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto.
Tuttavia, come già evidenziato, stando anche al solo tenore letterale dell’art. 6 lett. B) della l. 194/1978, l’unico presupposto necessario e sufficiente per poter procedere all’interruzione volontaria della gravidanza dopo i novanta giorni e prima che il feto abbia assunto vita autonoma, è quello relativo allo stato di salute della gestante. Viceversa, le anomalie o malformazione del feto rappresentano null’altro che un’ipotesi esemplificativa (e forse più ricorrente) che secondo l’id quod plerumque accidit può determinare nella gestante uno stato di turbamento psichico tale da degenerare in una vera e propria patologia.
Ciò che conta è lo stato mentale della donna, stato che può degenerare in patologia a prescindere dalla presenza di malformazioni del feto, anche, ad esempio, in conseguenza di errati convincimenti o paure della gestante stessa.
In altri termini, l’accertamento di anomalie e malformazioni del feto può far presumere, secondo l’intenzione del legislatore, che la gestante che si sia rivolta al ginecologo ecografista per conoscere l’esistenza di rischi per la salute del nascituro, se correttamente informata, sullo stato patologico del feto possa essere intenzionata all’interruzione della gravidanza.
La circostanza in parola è stata confermata dalla stessa Corte la quale, cambiando orientamento rispetto alle precedenti decisioni, con la sentenza 10.5.2002 n. 6753, prima, e con la sentenza 29 luglio 2004, n. 14488, poi, nell’ipotesi in cui la donna non sia stata informata delle malformazioni del feto, ha precisato che “la legge, in presenza di determinati presupposti, consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al proprio stato di salute e rende corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto”16).
Il fatto che le accertate malformazioni o anomalie del feto possano far presumere la volontà della donna di interrompere la gravidanza nel caso in cui non sia stata informata delle stesse, non implica affatto che qualora non siano state accertate anomalie di sorta sul feto, la gestante non possa andare incontro ad un turbamento psichico tale da degenerare in patologia, a tal punto da correre un grave pericolo per la propria salute.

5 – L’intervento della Corte costituzionale – Questa esegesi, inoltre, è in linea con (quello che i più definiscono) bilanciamento dei valori in gioco operato dal legislatore e avallato dalla Corte Costituzionale, fin dalla ormai celebre sentenza n. 27 del 1975. Con la decisione in parola il giudice delle leggi ha evidenziato che “l’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi totale protezione”, riferendosi proprio, oltre al benessere fisico, all’equilibrio psichico della gestante.
All’uopo la Corte costituzionale ha aggiunto che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”.
Senza commentare quest’ultima controversa asserzione17), è bene, comunque, sottolineare che nell’occasione la Corte ha correlato la possibilità di ricorrere all’IVG esclusivamente al pregiudizio della salute della madre, tutelata dall’art. 32 Cost., senza in alcun modo far rientrare nel cd. bilanciamento di valori le condizioni di salute del concepito.
E’ la sola salute della madre ad essere presa in considerazione e a rappresentare quell’interesse costituzionalmente protetto in grado di comportare il sacrificio di un altro interesse, che la stessa Corte ha riconosciuto come degno di tutela18).
Del resto, la Corte costituzionale, con la sent. 26/1981 ha rimarcato il carattere di “norma costituzionalmente imposta” dall’art. 32 Cost.19), dell’art. 6 della l. 194/1978, in quanto “sul piano costituzionale rimane fermo … che la salute della gestante dev’essere compiutamente garantita dai gravi pericoli che ogni effettiva malattia, di qualsiasi natura, possa produrre nel corso dell’ulteriore gestazione”20).
Sul punto Benciolini e Aprile21) osservano, infatti, che, al di là di una mera interpretazione letterale della norma, in armonia alle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con la succitata sentenza, “la difficoltà o addirittura l’impossibilità di accertare un’anomalia fetale può non essere di impedimento all’i.v.g. se di fatto – attraverso le alterazioni della salute (in questo caso di ordine per lo più psichico) che la stessa prospettiva può creare – si dovesse accertare la sussistenza di un processo patologico a carico della donna a sua volta produttivo di un grave pericolo per la salute”.
Pertanto, sottolineano gli autori, “nessuna ipotesi di aborto ‘eugenetico’ è ammessa dal legislatore in quanto solo le condizioni di salute della madre … giustificano l’I.V.G.”.

6 – La sentenza 29 luglio 2004 della Cassazione – Con la decisione in parola, il Supremo Collegio nega in radice la legittimità nell’ordinamento di qualsiasi forma di aborto eugenetico, avallando, sia pure implicitamente, l’interpretazione qui sostenuta.
Nella fattispecie all’esame della Corte non era stata accertata alcuna malformazione nel feto, né vi era stato un errore diagnostico in tal senso, ma lo specialista non aveva avvertito i genitori, affetti da talassemia eterozigota22), circa i rischi che il nascituro potesse essere affetto da talassemia maior, grave malattia di carattere genetico.
La bambina nata era risultata affetta da detta malattia, cosicché i coniugi avevano convenuto in giudizio il medico per chiedere il risarcimento dei danni, poiché la donna non era stata informata23) circa i rischi che correva la nascitura, e, conseguentemente, non era stata messa in grado di ricorrere all’IVG.
Inoltre, i genitori avevano agito a nome e per conto della figlia per il risarcimento del danno da “vita ingiusta” che le era toccata a seguito della mancata interruzione della gravidanza.
Se nella motivazione relativa alla condanna del medico per l’inesatta informazione fornita ai coniugi, il Supremo Collegio non dirime i dubbi sulla rilevanza delle malformazioni del feto al fine di ricorrere all’IVG24), è con riferimento alla domanda svolta dai genitori in nome e per conto della figlia che la Suprema Corte dimostra di avvicinarsi ad una posizione in linea con i principi espressi trent’anni prima dalla Consulta.
Infatti, la Cassazione rigetta la domanda sul presupposto che non esiste nel nostro ordinamento alcuna forma di aborto eugenetico, dal momento che il “diritto a nascere sani” non significa che “il feto, che presenti gravi anomalie genetiche, non deve essere lasciato nascere”25).
Infatti, continua la Cassazione, “sostenere che il concepito abbia un diritto a non nascere, sia pure in determinate situazioni di malformazione, significa affermare l’esistenza di un principio di eugenesi o eutanasia prenatale, che è in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, nonché con i principi di indisponibilità del proprio corpo di cui all’art. 5 c.c.”.
In realtà, precisa il giudice di legittimità, lo scopo della legge 194/1978 risulta evidente in quanto “viene consentito il sacrificio del concepito, la cui tutela la stessa legge proclama nel primo comma dell’articolo 1, considerando preminente la tutela della salute fisica o psichica della madre (Cass. 6464/04; 12195/98)”.
L’affermazione in parola si allinea perfettamente con quanto espresso dalla Corte costituzionale, con la sent. 29/1975, secondo cui le malformazioni genetiche del feto in tanto rilevano in quanto compromettano la salute della madre.
E’, dunque, la salute della madre l’unica esigenza costituzionalmente protetta il cui pregiudizio può consentire di ricorrere all’IVG.
Se è solo alla salute della madre che si guarda, non solo le malformazioni del feto non sono sufficienti (da sole) a consentire l’IVG, ma neppure necessarie, rilevando all’uopo qualsiasi circostanza idonea a compromettere la salute (sia pure solo psichica) della gestante.
Invece se la salute della madre prevalesse sulla tutela del nascituro solo qualora quest’ultimo fosse malformato si giungerebbe all’inammissibile e aberrante conseguenza che la vita del futuro soggetto sano sarebbe da considerarsi preminente rispetto a quella del nascituro malato.
La Suprema Corte non enuncia esplicitamente la conclusione appena riportata. Tuttavia, nel rilevare la ratio sottesa al bilanciamento di valori operato nella fattispecie, in relazione ai presupposti di cui all’art. 6 lett. B) della legge 194/1978, essa giunge alla conclusione che, i pericoli alla salute (anche psichica della donna) vanno valutati “anche dalle rilevanti anomalie o malformazioni del feto”. Conseguentemente, anche in assenza di anomalie o malformazioni del feto è praticabile l’IVG ai sensi dell’art. 6 lett. B), qualora la donna rischi di vedere compromessa la propria salute a causa della gravidanza.
Con tale affermazione, la Suprema Corte apre, con sufficiente chiarezza, alla possibilità di IVG dopo il novantesimo giorno, senza collegarla ad anomalie o malformazioni del feto.
L’affermazione della Corte di per sé non può ritenersi esaustiva di una problematica che necessiterebbe di una presa di posizione esplicita e decisa, in modo da estirpare in radice l’idea che la vita di un individuo possa valere di più di quella di un altro.
Ad ogni modo la sentenza in commento è idonea, col suo rigetto totale di qualsiasi forma di aborto eugenetico, ad aprire la strada a soluzioni ermeneutiche che tengano conto della vita umana per il valore che in essa racchiude senza distinzioni di sorta.

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