Validità e normatività delle costituzioni (a proposito del programma di Costituzionalismo.it)

Il fatto stesso che alcuni studiosi abbiano voluto dar vita ad una nuova rivista – «Costituzionalismo.it» – dedicata allo specifico compito di difendere il carattere normativo del concetto di “costituzione” e di difendere – anche a partire da questo presupposto – la normatività attuale della Costituzione italiana, dimostra che attorno a questa tradizionalissima questione – in che cosa consista la normatività di una costituzione – non è ancora del tutto finito il bisogno di chiarimenti.
La questione – pacifica, fino a tempi recenti, tra gli studiosi, perché studiata da lontano – presenta oggi profili più profondi e più difficili. Non si pone infatti solo in termini astratti, ma nel vivo di un acuto conflitto – o meglio, di una diffusa anomia, o, se si preferisce, di un avanzato stadio di perversione del legame sociale – che, dal punto di vista del diritto costituzionale, sembra avvicinarsi allo stadio estremo della lotta per la costituzione: quello in cui a) la posta in gioco non è più il prevalere dell’una o dell’altra interpretazione, ma la continuità dell’esistenza stessa della costituzione; e in cui b) non è più possibile – data la distanza tra le parti, o la anomia, o la perversione all’interno di tutte le parti – una politica costituzionale, intesa come quell’azione (che Platone definiva “la tecnica regia”) che rende possibile il mantenimento dell’unità politica. Oggi, infatti, una minoranza sta cercando di dimostrare che il riconoscimento della costituzione è ancora diffuso, che la sua effettività nel paese non è cessata, e che dunque essa è valida (con tutto ciò che segue sul piano dei limiti al potere di revisione), malgrado i giudizi di desuetudine trasversalmente diffusi nella gran parte della classe politica e le sfigurazioni condotte per via legislativa (ordinaria e di revisione).
In questo contesto non è più sufficiente, per i costituzionalisti che intendano difendere la Carta del ’47, continuare a presupporne la validità come un dato, come una premessa che sta prima e fuori del loro discorso (per quanto continui ad essere assolutamente necessario e giuridicamente doveroso continuare ad utilizzarla come parametro perfettamente valido, e pretendere che così venga utilizzata dagli organi di garanzia, nel giudicare atti normativi e comportamenti). Per essere più precisi: continuare nella strada consueta è certo utile, perché il lavoro così svolto diventa uno dei fatti concludenti che dimostrano, con la loro stessa esistenza, il permanere di una effettività costituzionale (seppur erosa sul piano del discorso pubblico e legislativo). Ma non è sufficiente, perché non contribuisce a fermare questa erosione. E’ chiaro a tutti che il compito delle costituzioni è quello di chiudere i discorsi intorno alla validità degli atti che pongono il diritto e alla legittimità dei comportamenti degli organi costituzionali e dei loro titolari (con tutto quel che ciò comporta sul piano politico, culturale e morale). Questa chiusura non è un brutale e autoritario “chiudere il becco” se le costituzioni sono accettate, riconosciute, apprezzate, condivise… se sono cioè – detto sinteticamente e “scientificamente” – valide in virtù della loro effettività. E l’effettività non è altro che l’apparire esteriore di una serie di giudizi individuali, di carattere strategico, morale, passionale… Il compito di coltivare e mantenere questa accettazione, riconoscimento, apprezzamento, condivisione spetta innanzi tutto alle forze dominanti (ai soggetti autori dell’armistizio costituzionale e della successiva sua elaborazione, comunque li si voglia definire). E’ ovvio che – in un’ottica realistica –“spetta” significa solo: non può non rientrare nei loro calcoli di utilità, fintanto che siano interessate a preservare la costituzione. Se questo interesse cade (o è assente nelle nuove forze che abbiano sostituito le precedenti) si entra in una pericolosa fase di anomia (l’ultimo stadio della lotta per la costituzione, di cui si è detto). In questo contesto il giurista che continui a dare per risolto – in nome di una malintesa positività della sua scienza – il problema della validità (o a considerarlo non suo) non può che sviluppare argomentazioni fragili – per non dire ottuse – perché esse suonano solo come pronunciate ex auctoritate, mentre è proprio il riconoscimento di quell’auctoritas che deve essere argomentato. Compito, questo, che non crea alcuna tragedia metodologica. Si tratta – rimanendo entro i limiti, per così dire, di una “argomentazione di sostegno” della validità, e cioè senza volere mettere in discussione i fondamenti positivistici di quest’ultima (alla Kelsen o alla Hart o alla Mortati…) – solo di prendere atto della natura delle regole costituzionali: formule sintetiche che acquistano senso unicamente alla luce della lunga sequenza di esperienze politiche e intellettuali che ne costituiscono il presupposto. Esperienze la cui conoscenza, per quanto spesso in forma intuitiva, semplificata o irriflessa, è alla base dei giudizi che generano l’effettività (Kelsen) o il cui insieme forma la consuetudine di riconoscimento (Hart, MacCormick), o il nucleo del consenso per intersezione (Rawls) che entra nei giudizi strategici che reggono l’armistizio costituzionale (Mortati). Il giurista che attinge a questa sequenza per chiarire il senso della costituzione, in sé e nelle sue parti, non fa altro che esercitare un segmento – seppur difficile – del suo mestiere. Non cerca di fondare la validità della costituzione su valori a loro volta indimostrabili (prendendo una pericolosissima china), ma soltanto di chiarire, di riportare criticamente alla luce, i giudizi che, di fatto, hanno prodotto l’effettività della costituzione di cui pretende di affermare la (perdurante) validità: cause che sono, da un lato, i parametri in base ai quali i giudizi diffusi di riconoscimento della costituzione sono stati formulati, e dall’altro i contenuti anche impliciti della costituzione stessa, in tutta la loro ricchezza, sui quali quei giudizi sono stati formulati. Questa ripresa di giudizi in chiave di fatti che sono stati storicamente efficaci potrebbe apparire – data l’abitudine dei giuristi a non praticarla – come una argomentazione “in parallelo”, ulteriore, rispetto a quelle canoniche sulla validità, ma, in realtà, ne costituisce il cuore.
Certo, la crisi di una costituzione scatena forze immense perché, per definizione, essa consiste nella perdita del quadro di riferimento della loro azione. I giuristi, come tutti gli studiosi (tanto più dopo la fine dell’”ideocrazia”, soppiantata dalla centralità del potere comunicativo), possono fare ben poco. Ma non è questa una ragione per fare ancora meno di quanto potrebbe essere fatto.
Un sottile modo per eludere la questione, e continuare a stare chiusi dentro le confortanti barriere disciplinari, sempre più micro-tecnicizzate, è quello, perseguito dalla gran parte degli studiosi delle ultime generazioni, di considerare obsoleto il problema del fondamento della validità della costituzione in termini politici complessivi, che richiedano il concorso delle forze sociali, e delle culture politiche, dominanti. L’escamotage consiste nel ritenere che – dopo la fine delle grandi narrazioni, delle ideologie, della lotta di classe, dell’azione collettiva, dei partiti di massa, del governo (che viene surrogato dalla governance), della politica (che si pluralizza nelle politics e nelle policies), della storia, della scalata al cielo… – la costituzione si fondi direttamente sulla società, anzi sui singoli cittadini, che trovano in essa la carta dei “loro” diritti. Con il che, il problema della validità sarebbe risolto, in termini che potrebbero sembrare accettabili anche dal punto di vista di una teoria realistica, essendo ben possibile che alla costituzione dei partiti, alla costituzione dell’armistizio tra forze organizzate, succeda, con il diffondersi dell’area dell’overlapping consensus, la costituzione fondata su una cultura politica diffusa, sul diretto “dialogo” dei singoli con i principi costituzionali. Se non che questo modello finisce per restringere il ruolo della costituzione pressochè esclusivamente nel circuito Corte costituzionale-giudice-individui, dunque nel circuito delle garanzie, presumendo che il problema dell’integrazione, o della costruzione dell’unità politica, o della politica costituzionale, o come altro si voglia designare il problema cardine dell’artificialismo antico e moderno, sia risolto e scontato. Se la costituzione è la garanzia di un insieme di “pretese”, che cosa “costituisce” il contesto entro il quale quelle pretese possano trovare soddisfazione? Come si può vedere solo nei giudici e nella Corte i portatori e gli attuatori della costituzione? Il perfezionamento – dovuto all’introduzione della giustizia costituzionale – della tutela dei diritti “naturali” non può far dimenticare il problema di come “le leggi di natura … divengano effettivamente leggi” (Hobbes, Leviatano, par. XXVI).

II
Se non si prende la scorciatoia della “costituzione dei diritti”, resta il problema di come adeguatamente rifondare la validità della costituzione nel suo complesso (per definire la quale, in contrapposizione alle letture riduttive, potrebbe essere utile tornare ad utilizzare la desueta espressione di “costituzione politica”). Per far ciò, come si è detto, non è sufficiente (per quanto assolutamente necessario) utilizzarla – e chiedere che sia utilizzata – come perfettamente valida, contro il dilagare dei giudizi, e dei comportamenti, svalutativi. Occorre tornare continuamente ad argomentarne le buone ragioni.
E’ a questo punto che s’incontra il problema della sua “normatività”, come problema distinto da quello della sua validità. Non è il caso di prendere in esame tutti i possibili usi dei due termini, che potrebbero anche essere considerati sinonimi. Qui interessa solo usarli per mettere a fuoco il seguente problema: che, data una costituzione valida, l’intensità della sua forza prescrittiva può essere diversa, e che – lungo la scala, per così dire, della sua crescita – questa prescrittività muta di natura. La “forza di costituzione” è minima nelle costituzioni concepite come insieme dei principi che – tratti ex post dal diritto positivo dell’ordinamento di cui fan parte – ne sintetizzano il modo d’essere, esistenzialmente colto: le costituzioni totalmente flessibili degli ordinamenti che vivono solo “conformemente a sé stessi”, secondo l’espressione schmittiana. Posto che tali ordinamenti, e tali costituzioni, esistano effettivamente, al gradino superiore della scala si collocano le costituzioni formalmente rigide, ma suscettibili di revisione totale. Anche la loro prescrittività vale solo rebus sic stantibus (sono le costituzioni come insiemi di leggi costituzionali). Al gradino più alto si collocano le costituzioni che dichiarano – o meglio: che vengono percepite come se dichiarassero – immodificabile il loro nucleo. Se per “norma” intendiamo una regola la cui obbligatorietà non è disponibile da parte dei suoi destinatari, il carattere della normatività compete, propriamente, solo alle costituzioni di quest’ultimo tipo. In un’ottica meno rigorosa si potrebbe dire che la normatività è la misura della rigidità, e che dunque può essere attribuita (in misura parziale e variabile) anche alle costituzioni solo relativamente rigide. Ma si deve ammettere, come sopra si è accennato, che, nel passaggio dal secondo al terzo gradino, c’è una trasformazione qualitativa: solo qui il concetto di normatività diventa autonomo rispetto a quello di validità.
Mentre il contrario della validità è l’invalidità, il contrario della normatività è la descrittività; e sono descrittive le costituzioni indifferenti al mantenimento del loro contenuto. Da Kelsen in poi, è chiaro che, parlando del fondamento della validità delle costituzioni, il passaggio dalla “cosa” al sentimento (alla percezione) della cosa (dalla costituzione positiva alla norma fondamentale), è immediato e indistinguibile. Per questo la normatività delle costituzioni dipende non dalle parole delle loro disposizioni, ma dal modo con cui sono riconosciute (il che vale a rendere simile, sotto questo aspetto, la condizione delle costituzioni scritte e consuetudinarie, e di quelle formalmente rigide e formalmente flessibili). Questa stessa considerazione spiega perché possano diventare descrittive costituzioni normative, e cioè perché una delle forme che può assumere la lotta per la costituzione sia quella intorno al passaggio dall’una all’altra condizione, e concezione (come appunto sta avvenendo nel nostro paese). Oggi la crisi della normatività della Costituzione italiana si esprime nel diffondersi di concezioni svalutative delle sue regole a fronte dell’emergere di nuove regole contra o extra constitutionem accreditate e legittimate come conformi ad un’ineluttabile “natura”: evoluzione tecnologica, evoluzione geopolitica, natura obbiettiva (a-politica) dello stato di diritto, natura obbiettiva (a-politica) dell’UE come spazio “adatto” all’attuale fase della globalizzazione, “necessità” della guerra, irresistibilità delle tecniche di manipolazione genetica…
La normatività può dunque essere sancita in regole di diritto scritto (che, di fronte alla forza delle cose, non possono avere altro ruolo che quello di indicatori di discontinuità), ma la sua origine e la sua capacità di tradursi in effettività (che è capacità di entrare a far parte, anch’essa, della forza delle cose) derivano da fenomeni più profondi, che giuridicamente possono essere descritti come componenti della consuetudine di riconoscimento. Si potrebbe cioè dire che la consuetudine di riconoscimento di una costituzione normativa consiste di due elementi: il consenso diffuso intorno ad un insieme di principi di diritto politico (uso anche qui, per brevità, questa desueta espressione, risalente a Burlamaqui, Rousseau e Montesqieu) considerati irrinunciabili, e il consenso diffuso intorno alla costituzione positiva in quanto conforme a quell’insieme di principi.
In sintesi: la validità di una costituzione esprime il suo essere riconosciuta come regola di diritto, mentre la normatività esprime il suo essere riconosciuta come conforme a un modello assiologico. Dalla validità deriva la sua prescrittività quotidiana; dalla normatività la sua immodificabilità. La argomentazione della normatività è dunque diversa da quella della validità: anche dal tipo di argomentazione storica, fondata sui contenuti dei giudizi che hanno storicamente generato l’effettività, di cui si è parlato sopra. Là, ci si fermava alla constatazione dell’effettività e delle sue cause: l’argomentazione classica della validità veniva solo arricchita. Qui la normatività della costituzione dipende dalla normatività di principi qualificati come tali assiologicamente. Ciò che le unifica è il tipo di indagine che entrambe richiedono, in quanto l’assiologicità dei principi viene fatta coincidere con la costosità e la diffusione delle esperienze storiche che li hanno generati.

III
Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire: la separazione della normatività dalla validità non è che l’ennesima riproposizione della distinzione tra leggi immutabili e leggi arbitrarie, tra leggi naturali e leggi positive, e dunque non aggiunge nulla al secolare conflitto tra concezioni ideologiche e concezioni scientifiche del diritto.
Penso di interpretare il pensiero dei collaboratori di «Costituzionalismo.it» negando che la questione possa essere liquidata in questo modo.
Innanzi tutto, la normatività materiale delle costituzioni di cui si è detto – e restringiamo qui il discorso a quelle europee del secondo dopoguerra – non è di tipo ideologico, perché non si dissolve nella mera desiderabilità politica dei loro contenuti. Se così fosse, la sua difesa non sarebbe più un’attività che vuole essere scientifica, ma solo una militanza. Il presupposto della concezione in esame è che sia possibile sostenere che i contenuti del diritto, e in primo luogo delle costituzioni, non sono – del tutto – arbitrari. Non è qui il caso di ripercorrere le ragioni della forte tradizione di pensiero che critica in radice ogni possibilità di connettere lex e veritas. Sarà sufficiente ricordare – riprendendo quanto già prima accennato – che un’altra consistente tradizione vede nel costituzionalismo una plurisecolare – o plurimillenaria – elaborazione di principi di ragion pratica. Principi che si sottraggono, a causa della varietà dei contesti in cui furono elaborati, alla critica di essere mere maschere ideologiche della volontà di potenza di chi li sostiene, o di essere schemi di pensiero privi in sé di particolare pregio perché nati a seguito del combinarsi di accidenti storici insensati. Non c’è nessun giusnaturalismo o storicismo in questo punto di vista. Solo – se si vuole – la scommessa intorno alla ragionevolezza, o preferibilità, di principi la cui elaborazione è stata molto costosa per il genere umano. E se è vero che il costituzionalismo del Novecento ha rappresentato uno sviluppo, per così dire, demistificante, della tradizione precedente, perché ha tentato di metterla con i piedi per terra e di sfidare le sue promesse alla prova dei fatti – uscendo, per la prima volta nella storia, dallo stato monoclasse e monomorale – ciò rappresenta una ragione di più per ritenere che i principi che esso ha ricapitolato non siano da abbandonare a cuor leggero.
La normatività della costituzione – e cioè la previsione della sua immodificabilità (nel linguaggio inevitabilmente unidimensionale e rigido dei giuristi) sul piano del diritto, a causa della consapevolezza della sua preziosità sul piano della politica, e dunque della previsione (qui in senso letterale: della ragionevole prevedibilità) dei costi laceranti di una drastica deviazione dal suo tracciato – sta tutta qui: in una prudente valutazione di esperienze storiche cumulate, in cui si è intrecciata spontaneità delle situazioni e riflessività delle risposte.
In quest’ultimo accenno sta la replica all’ovvia obiezione che a questo punto potrebbe essere mossa: che tutto ciò non è null’altro che un ritorno al principio di tradizione. Il tono sprezzante e risolutivo di questa critica deriva, anch’esso, dal radicato convincimento che i contenuti del diritto siano arbitrari, e che, tra i vari modi in cui l’arbitrarietà può manifestarsi, il peggiore, perché il più asfissiante, sia quello che consiste nel dire “si deve fare così perché si è sempre fatto così”.
Se però si ponesse maggiore attenzione all’istituzionalismo elaborato da economisti e antropologi, si potrebbe constatare che le forme di razionalità di cui le istituzioni, sia intenzionali che spontanee, sono il frutto1), vanno ben al di là dell’atteggiamento mentale di acritica e passiva deferenza verso un passato del cui contrario s’è perduta memoria. E vanno altresì ben al di là di un istituzionalismo schiacciato sulle teorie della forza, com’è quello, diffuso nel nostro paese, della tradizione romaniana. Riflettere sul grande spazio che queste teorie – al di là della loro valorizzazione dell’ordine spontaneo – individuano per l’azione riflessiva e per il ruolo delle istituzioni artificiali potrebbe essere di grande aiuto.

IV
Dice Montesquieu: « … se vi è stata qualche rivoluzione e si è dato allo Stato una forma nuova, questo non si è potuto fare se non con fatiche e travagli infiniti, e di rado con l’ozio e i costumi corrotti. Gli stessi che hanno fatto una rivoluzione, hanno voluto farla apprezzare, e non vi sono potuti riuscire che mediante buone leggi. Le istituzioni antiche sono dunque di solito correzioni, e quelle nuove, abusi. Nel corso di un lungo governo, si va al male per una china insensibile, e non si risale al bene se non con uno sforzo» (Lo spirito delle leggi, V, VII). La normatività della costituzione è dunque quella sua particolare forza che deriva dalla qualità morale della sua origine, e che ne prescrive la continuità.
Non troppo paradossalmente, al termine di queste considerazioni sulla normatività, non resta però nessuna indicazione particolarmente stringente sul piano “normativo”, al di là del fatto che sia saggia la difesa della costituzione del 1947, che siano da ripudiare le concezioni di chi vuole disporre delle costituzioni a colpi di “opinioni” di transitorie maggioranze e, più in generale, che sia doveroso, nel riformare le istituzioni, prima ripercorrere a fondo tutti i problemi cui esse hanno cercato di rispondere nel corso della loro evoluzione e tutti i dilemmi, circa il proprio essere, che hanno dovuto sciogliere; e che dunque il giurista non possa sottrarsi al gravoso onere di misurarsi sul terreno dell’interpretazione storica e dell’argomentazione morale, e il politico al dovere dell’umiltà nel procedere ad interpretazioni e revisioni rispettose. Gli spazi della responsabilità per le scelte finali, che questo ancoraggio alla continuità delle istituzioni lascia aperti, restano enormi. «Credo che gli uomini che hanno redatto la costituzione intendessero donarci un documento che costituisse un duraturo strumento di governo. Ma non avevano idea di che cosa il futuro avrebbe riservato, non più di quanta ne abbiamo noi oggi. Non sapevano se avrebbe funzionato. Mosè non sapeva se la legge di Dio avrebbe funzionato. Fino ad ora hanno funzionato entrambe, forse perché entrambe hanno beneficiato di interpretazioni e revisioni rispettose e costruttive» (Chaim Potok, Il libro delle luci, Milano 2004, 129). Ma questa ipotesi, che sembra indicare un approdo di minima certezza politico-morale, è complicata dal fatto che Potok fa pronunciare queste parole da Harry Truman (dopo Hiroshima e Nagasaki, dopo gli esperimenti termonucleri nel Pacifico, durante la guerra di Corea), nel corso di una cerimonia cui partecipa Albert Einstein (che si sente «marchiato per sempre» dalla bomba), ed in cui viene ascoltato dal figlio di uno dei fisici di Los Alamos, che malgrado l’amicizia dello “zio Albert”, morirà ossessionato da quella che ritiene la colpa del padre. Perché collocare quelle parole in questo sfondo? Per dimostrare quanto sia in realtà tragica e ambigua, o fallace, quell’apparentemente rassicurante prospettiva, o per dire che non c’è altro al di fuori di essa?
Non esageriamo, verrebbe da dire. Certo, ma non facciamo neanche finta di niente, visto che la giuspubblicistica sta rischiando di pestare acqua nel mortaio. La via delle «interpretazioni e revisioni rispettose e costruttive» è, almeno, di certo, una via seria.

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