Sommario: 1. Alcuni possibili scenari del XXI secolo. – 2. Costituzionalismi e «costituzionalismo». – 3. Costituzionalismo e interpretazione per valori. – 4. Tornare al costituzionalismo garantista.
1. Alcuni possibili scenari del XXI secolo.
Un autorevole esperto di cosmologia e astrofisica, Martin Rees, ha sostenuto, con riferimento all’abnorme e rapido aumento di temperatura, che «c’è solo una probabilità su due che la razza umana arrivi al prossimo secolo»(1). Le medesime preoccupazioni sono state espresse da un paleontologo, Michael Benton, il quale ha affermato che «la temperatura della Terra sarebbe solo a sei gradi dal livello nel quale le forme di vita che conosciamo (ivi inclusa la nostra) non potranno sopravvivere»; a tal riguardo la National Academy of Science degli Stati Uniti ha escluso perentoriamente che il sovrariscaldamento sia dovuto a cause naturali(2).
La popolazione della terra cresce a ritmi vertiginosi : da circa due miliardi che era negli anni ’50, ora si aggira intorno ai sei miliardi; nel 2015 ammonterà ad oltre sette miliardi e nel 2050 a nove-dieci miliardi. Già oggi le risorse alimentari e quelle idriche, sia a causa della loro dislocazione, sia per ragioni politiche e tecniche, sono insufficienti, con conseguente elevatissima mortalità (11 milioni di bambini ogni anno). Nel 2025 due miliardi di individui non disporrà di acqua bevibile(3).
Il rapporto ONU di quest’anno sul fenomeno dei diseredati e delle bidonville offre un quadro impressionante del fenomeno: un miliardo di persone (il cui numero presumibilmente si raddoppierà entro il 2030) che sopravvive in condizioni subumane: il 60 per cento in Asia, il 20 per cento in Africa e il 14 per cento in Sud America. La responsabile dell’agenzia «Habitat» dell’ONU rileva, in proposito, che «Uno dei problemi è che le amministrazioni locali non sanno neppure cosa succede oltre i confini di queste bidonville, perché nessuno ha il coraggio di entrarvi»(4).
La stampa quotidiana riporta continuamente episodi di tortura posti in essere, anche da parte di paesi altamente civilizzati, su persone catturate nella lotta contro il terrorismo internazionale. Significativo il caso dei prigionieri della base americana di Guantanamo, che non sono considerati dagli USA né prigionieri di guerra (tutelati dalla convenzione di Ginevra), né comuni cittadini (tutelati anch’essi da Convenzioni internazionali, se non anche dalle stesse leggi federali americane). Amnesty International ha inoltre denunciato che alla tortura si ricorre tuttora sistematicamente a Cuba, in Iran, in Egitto, nei territori occupati da Israele, in Albania, in Cecenia e in Sud Africa(5).
Dal canto suo, il Parlamento europeo ha di recente stigmatizzato le inammissibili brutalità degli organi europei di polizia su persone arrestate (con conseguenze addirittura letali, in dieci casi) nonché il peggioramento della situazione dei detenuti in taluni paesi dell’UE -tra cui l’Italia-, a motivo, soprattutto, del sovraffollamento carcerario(6).
Il Parlamento europeo ha altresì deplorato che nell’UE il problema della concentrazione del potere mediatico nelle mani di alcuni megagruppi non abbia trovato una soluzione legislativa e, in particolare, che in Italia «permanga una situazione di concentrazione del potere mediatico nelle mani del Presidente del Consiglio, senza che sia stata adottata una normativa sul conflitto di interessi»(7).
Gli schermi televisivi sono divenuti, ormai da anni, il luogo privilegiato della politica, anche perché una cospicua parte dell’elettorato dei paesi altamente industrializzati (che in Italia ammonta a quasi il 20 per cento) dipende dalla televisione come unica fonte informativa. Di qui le preoccupazioni che sollevano, in Italia, il gruppo Berlusconi-Mediaset e, a livello mondiale, il gruppo Murdoch, entrambi operativi, oltre che nel settore televisivo, in quelli della stampa quotidiana e periodica, dell’editoria, della produzione cinematografica ecc.(8).
Da anni è operativo Echelon, e cioè un sistema di controllo via satellite della National Security Administration degli Stati Uniti -a cui partecipano anche il Regno Unito, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda- in grado di intercettare il contenuto di qualsiasi comunicazione via telefono, telefax, telex e posta elettronica inviata nel mondo: un sistema originariamente limitato allo spionaggio militare (sulla base di un accordo risalente al 1948), ma attualmente -si dice- esteso anche allo spionaggio commerciale.
Vi risparmio l’elencazione dei gravissimi problemi istituzionali e sociali connessi alla cd. globalizzazione dell’economia, che presumo noti a tutti(9). E vengo al tema della mia relazione.
2. Costituzionalismi e «costituzionalismo».
Di fronte ai preoccupanti scenari ai quali ho fatto cenno, mi chiedo se tutti i gravissimi problemi che essi pongono, proprio perché affrontabili con accordi internazionali e con misure legislative, abbiano a che vedere col «costituzionalismo»; e cioè se la risposta alle «sfide» che essi pongono agli Stati e alle organizzazioni sovranazionali possa esser fatta rientrare tra gli obiettivi di quel movimento politico, filosofico e culturale che si usa designare con tale vocabolo.
In altre parole: solo perché siamo dei costituzionalisti, è lecito ritenere che abbiamo titolo per intervenire su qualunque problema d’interesse generale?
Il dubbio sorge perché, accanto al significato classico, più ristretto e garantista, di «teoria giuridica dei limiti del potere politico», si vanno affermando, anche tra i giuristi, delle concezioni omnicomprensive di costituzionalismo, quali quelle di «concezione della Costituzione»(10) e di «tendenza costituzionale»(11) o altre ancora(12). Accezioni che -a meno che non se ne specifichi il collegamento con quella che è la vera essenza del costituzionalismo, e cioè la «limitazione legale del governo, l’antitesi del governo arbitrario»(13)- sollevano però delle perplessità quanto alla loro piena rispondenza agli obiettivi storici del costituzionalismo, il quale «ha sempre aspirato a porre una legge come limite a chi detiene di fatto il monopolio della forza, a rendere sovrane le leggi e non gli uomini» (14).
Due sono i rilievi critici che sollevano le nozioni di costituzionalismo nelle quali non si abbia cura di evidenziare che esso è essenzialmente teso a porre limiti agli arbitri di governo.
Primo rilievo critico. Se ci si limita ad affermare che il «costituzionalismo» designa genericamente la supremazia della costituzione, oppure una concezione della costituzione, ovvero una mera tendenza costituzionale, si finisce, sia pure inconsapevolmente, per far rientrare nel concetto di «costituzionalismo» anche concezioni e tendenze costituzionali che, sia pure con le migliori intenzioni, prefigurano sistemi di governo nei quali vengono attribuiti amplissimi poteri discrezionali all’esecutivo, ancorché democraticamente eletto, e vengono ridotti al minimo i controlli su di esso(15).
Non è perciò un caso che uno dei massimi teorizzatori del «costituzionalismo» come sistema di limiti al potere, e cioè Charles McIllwain, con riferimento alla politica del New Deal propugnata da F.D. Roosevelt, ebbe ad esprimere, nel 1937, il suo timore che, in tal guisa, venisse meno «l’antica alleanza fra il riformatore sociale e il liberalcostituzionalista». Osservava in proposito McIllwain: «Nel passato riformare gli abusi di solito voleva dire difendere i diritti individuali contro un potere dispotico. Strano a dirsi, ma riformare gli abusi ha oggi chiaramente acquistato, per la maggior parte dei riformatori, il significato di un aumento dei poteri del governo»(16). E gli studiosi successivi hanno appunto sottolineato, con preoccupazione, quale sia stato il fenomeno nuovo che ha caratterizzato lo Stato «attivo» (o «interventista»): «l’indeterminatezza degli interventi regolatori pubblici, il fatto che essi non abbiano confini e limiti predeterminati»(17).
Né può ritenersi -proprio in accordo con i principi del costituzionalismo classico- che l’investitura democratica elimini in radice siffatti problemi. Per vero, in un sistema retto da una costituzione scritta liberaldemocratica, non solo il governo esercita «funzioni» (e cioè poteri enumerati aventi un dato fine legislativamente previsto, in accordo coi principi di legalità e di tipicità degli atti amministrativi); non solo anche gli altri poteri si muovono -e devono muoversi- nel rispetto del principio di «competenza», ma lo stesso «popolo sovrano» -come esattamente sottolinea l’art. 1 comma 2 della Costituzione italiana- esercita la sovranità «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Il che significa che la stessa investitura democratica non pone l’eletto al di sopra della Costituzione.
In altre parole, e volendo semplificare al massimo, non esiste un «costituzionalismo» di Rousseau, e tanto meno, un «costituzionalismo» giacobino; esiste invece il «costituzionalismo» di Montesquieu, di Locke, di Hamilton, di Constant e di Tocqueville. Rousseau, di per sé, porta al radicalismo democratico, e quindi alla dittatura(18).
Secondo rilievo critico. E’ inesatto che il «costituzionalismo» appresti delle tecniche per la soluzione di qualsiasi problema, nazionale o internazionale, purché abbia un rilevante spessore politico. Da un lato, una tesi siffatta finisce per conferire alla nozione di «costituzionalismo» una portata puramente descrittiva (nel senso cioè che nel costituzionalismo può farsi rientrare di tutto), dall’altro finisce per costruire il rapporto intercorrente tra la costituzione (come prodotto del costituzionalismo) e l’attività legislativa come se la seconda costituisse il mero «svolgimento» della prima (19): e cioè come se nella costituzione il legislatore ordinario rinvenisse l’esaustivo fondamento di tutte le sue scelte politiche, e non già il limite (talvolta positivo, ma generalmente negativo) di esse.
Ebbene, a me sembra che, mentre il concetto di costituzione è puramente descrittivo (nel senso, cioè, che le costituzioni potrebbero anche non tutelare i diritti fondamentali, non prevedere la divisione dei poteri, non essere democratiche e così via), non altrettanto possa dirsi del costituzionalismo.
In favore del concetto descrittivo della costituzione mi limito ad osservare che, aderendo alla contraria tesi della natura essenzialmente assiologica del concetto di costituzione -notoriamente sostenuta da autorevolissimi studiosi, sia spagnoli che italiani(20)-, si finisce col negare, contro la storia, la qualifica di costituzione a documenti solenni che, pur non conformandosi al modello ideologico dell’art. 16 della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, sono stati, ciò non di meno, formalmente denominati «costituzioni», e come leggi superiori hanno concretamente operato(21). In altre parole, non mi sento di negare la natura di costituzione alle costituzioni napoleoniche e alle costituzioni dei Paesi del socialismo reale, per il fatto che non sarebbero state «garantiste» nel significato proprio dei regimi liberaldemocratici (si dice, infatti, che esse sarebbero state costituzioni nominali o pseudo-costituzioni o costituzioni-facciata)(22). Come dicevo, non può dubitarsi che tali costituzioni furono «effettive» -e cioè efficaci in fatto-, e ciò non solo perché la loro vigenza era assicurata con la forza, ma anche perché milioni di persone, bene o male, in esse hanno creduto.
Non mi sembra, invece, che abbia senso negare la natura assiologica e prescrittiva del concetto di costituzionalismo (e, conseguentemente, non mi sembra abbia senso negare la natura prescrittiva e assiologica al concetto di «Stato costituzionale», che è lo Stato che, per l’appunto, realizza, tra l’altro, i principi del costituzionalismo garantista). Per vero, affermandosi la natura descrittiva del concetto, si finirebbe per negare qualsiasi identità a quel movimento politico, filosofico e culturale.
In conclusione, o il costituzionalismo si conforma al modello del citato art. 16 della Dichiarazione del 1789 (e le sue tecniche sono volte a limitare sia funzionalmente che strutturalmente il potere politico) oppure non è costituzionalismo(23).
3. Costituzionalismo e interpretazione per valori.
Qui tuttavia deve essere fatta una puntualizzazione: il discrimine fra ciò che è costituzionalismo e ciò che non lo è rileva non solo allo scopo di distinguere gli «Stati costituzionali»(24) dagli Stati «non costituzionali». Tale discrimine rileva altresì all’interno di un ordinamento costituzionale liberaldemocratico, per valutare la conformità, alla logica del costituzionalismo, delle tecniche giuridiche utilizzate dal legislatore, dalla giurisprudenza e dalla dottrina nella concreta disciplina del potere (pubblico e privato) e dei diritti individuali.
Mi si consenta, al riguardo una breve digressione. Nella relazione ad un convegno italo-spagnolo di qualche anno fa(25), ebbi modo di prospettare la tesi secondo la quale, in un ordinamento liberaldemocratico, soltanto l’interpretazione costituzionale che sia rispettosa degli enunciati della costituzione, ancorché sensibile all’evoluzione storica, può dirsi conforme ai principi del «costituzionalismo».
Mi parve infatti di poter sostenere che, se si parte dalla nozione garantista di «costituzionalismo»(26), la coerenza impone che solo un’interpretazione che prenda «sul serio» il testo e la struttura della Costituzione(27) -per la quale, cioè, gli enunciati costituzionali costituiscono il limite insuperabile delle possibilità “creative” dell’interprete(28)-…solo una siffatta interpretazione, diversamente da altri metodi interpretativi (quale, ad es., la cd. «interpretazione per valori»), è funzionale allo scopo di limitare il potere ed ostacolare gli arbitri effettuati per il tramite dell’interpretazione giuridica.
Per contro, l’approccio interpretativo delle svariate teorie dei valori(29) è «normativo-sostanziale» ed è quindi «free-form»(30): pretende cioè soltanto la «razionalità» rispetto al «valore» sotteso all’enunciato costituzionale(31), ma non anche la conformità del risultato interpretativo all’enunciato in sé e per sé considerato(32). E in ciò si annida, per l’appunto, il rischio di soluzioni arbitrarie, del soggettivismo di molti «bilanciamenti» tra valori, dell’abuso del criterio della ragionevolezza (anche, e soprattutto, per «salvare» le leggi dalla pronuncia d’incostituzionalità)…
Mi rendo ben conto che questa tesi potrà non essere condivisa e che, comunque, non ha una portata generale, perché presuppone l’esistenza di una forma di Stato liberaldemocratica e di una costituzione, oltre che scritta, testualmente articolata (come appunto le Costituzioni italiana e spagnola). Ciò che però mi preme sottolineare con questo esempio, è che il concetto di costituzionalismo, se per un verso è più ristretto di quello di «concezione della costituzione» e di «tendenza costituzionale», per un altro verso implica delle conseguenze più radicali.
In altre parole, non è sufficiente affermare che il costituzionalismo si articola intorno a cinque nuclei forti (la costituzione scritta, il potere costituente, la dichiarazione dei diritti, la separazione dei poteri e il sindacato giurisdizionale di costituzionalità delle leggi)(33) ; occorre altresì aggiungere che il costituzionalismo implica un’impostazione metodologica sempre tesa ad esaltare il limite del potere per evitarne gli arbitri, quale che sia il problema in discussione: il contenuto dei diritti costituzionali o i poteri dell’esecutivo, l’immunità del Capo dello Stato o dei membri del Parlamento, le funzioni della Corte costituzionale e così via. Ovviamente, si dovrà porre mente all’efficienza dei pubblici poteri, ma, lo ripeto, sempre evitando che la necessaria discrezionalità (che è sempre limitata, quanto meno finalisticamente) non ridondi mai, aprioristicamente, in arbitrio.
Mi si potrebbe obiettare che una tesi del genere identifica il costituzionalismo esclusivamente con quello che ha teorizzato e «prodotto» i diritti della prima generazione (e cioè i diritti «oppositivi», vale a dire le libertà ancora oggi inesattamente qualificate come «negative»)(34), e quindi finisce per passare sotto silenzio sia il costituzionalismo che ha teorizzato e «prodotto» i cd. diritti della seconda generazione (i diritti sociali, e cioè i diritti dei non abbienti all’istruzione, all’assistenza sanitaria, alla previdenza e al gratuito patrocinio), sia quello che ha teorizzato e «prodotto», in sede internazionale, i cd. diritti della terza generazione (i diritti alla pace, allo sviluppo, all’ambiente salubre e al patrimonio comune dell’umanità)(35).
Un’obiezione del genere sarebbe però sicuramente inesatta. Mentre i diritti sociali, proprio perché tesi ad emancipare la persona umana dal bisogno, costituiscono la stessa «precondizione» per il pieno esercizio della libertà individuale(36) -laddove, per altro verso, le libertà politiche e i diritti di partecipazione politica costituiscono, come già intuito da Benjamin Constant, le garanzie (ma non le sole) di tale libertà(37)-, i cd. diritti della terza generazione sono anch’essi, a ben vedere, dei diritti «oppositivi».
Con quest’ultimi, bene o male, si esprime, da un lato, a livello internazionale, il tentativo di limitare il potere degli Stati di porre in essere operazioni belliche, tranne che in caso di legittima difesa, e di impedire che gli Stati stessi trascurino i problemi dell’ambiente e dell’ecosistema; e si esprime, dall’altro, a livello nazionale, il tentativo di conferire sia ai poteri pubblici che ai privati la possibilità di sindacare la produzione e il commercio illegittimo delle armi, di arginare gli scempi edilizi, di limitare gli inquinamenti elettronici, acustici e atmosferici…
Le perplessità che suscitano i diritti fondamentali della terza generazione non concernono perciò la loro natura di diritti «oppositivi», ma la difficile enucleazione -dalle proclamazioni internazionali che contemplano tali diritti- di situazioni giuridiche soggettive giustiziabili (38).
Un’ultima rapida avvertenza, però assai importante.
Ho già sottolineato la mia diffidenza nei confronti dell’interpretazione per valori. Proprio per questo mi pare significativo sottolineare quanto avvertito da uno dei più acuti -ma consapevoli- sostenitori della determinante importanza dei valori. E cioè che, anche «dinanzi al prevalere di una considerazione di tipo “sistemico”», l’«incorporazione» della garanzia dei diritti nella «costellazione dei valori costituzionali» non comporta «il rischio dell’omologazione, o meglio di un cedimento del significato “oppositivo” dei diritti di libertà»(39). Un dubbio, quest’ultimo, -lo dico per inciso- che però può sorgere solo se si assuma che la «costituzione come insieme di valori» possa, ancorché surrettiziamente, prevalere sulla costituzione scritta; ma che, per quanto detto, non mi sembra concettualmente possibile, almeno con riferimento a Costituzioni dettagliatamente articolate come quella spagnola(40) e quella italiana, nelle quali la composizione delle antinomie non può prescindere dal rispetto degli enunciati testuali.
4. Tornare al costituzionalismo garantista.
Ho indugiato così a lungo nel sottolineare quali siano i caratteri essenziali della nozione di costituzionalismo, perché ritengo che la vera, grande sfida che si pone oggi al costituzionalismo sia quella di ritrovare e di riaffermare la propria identità originaria di teoria giuridica dei limiti del potere politico. Ciò significa che tutti noi -teorici di questa disciplina o operatori pratici- dovremmo riflettere sui contenuti del nostro lavoro quotidiano, per verificare se e quanto siamo stati coerentemente fedeli a questa filosofia politica e, conseguentemente, riflettere su quale sia stato e quale invece debba essere il nostro ruolo nella società(41), senza quindi contrabbandare come costituzionalismo qualsiasi teorizzazione costituzionalistica.
Per contro, non mi sembra che abbia molto senso l’altra impostazione che potrebbe darsi al tema della mia relazione, consistente nel verificare dettagliatamente se il costituzionalismo -in uno dei vari significati che ad esso vengono dati- possa svolgere una funzione nell’impostazione dei gravissimi problemi accennati all’inizio. Un’impostazione del genere sarebbe infatti assai riduttiva.
E’ bensì vero che l’abnorme e rapido aumento della temperatura della terra, la crescita della popolazione mondiale a ritmi vertiginosi, le condizioni subumane del miliardo di diseredati che vive nelle bidonville ecc. ecc., rappresentano degli scenari preoccupanti per il futuro dei nostri figli e nipoti, ma, a parte l’ovvia ed onesta constatazione che il costituzionalismo, come dottrina, può fare poco per ridurre la temperatura terrestre o la fame nel mondo, quelli enunciati in premessa non sono gli unici gravi problemi pratici che incombono sull’umanità. Basterebbe parlare dei problemi giuridici istituzionali ai quali non ho fatto deliberatamente cenno: ad es. la riforma dell’ONU, il processo costituente europeo tuttora in atto, l’asimmetria che l’ambito economico manifesta sempre più con quello politico e giuridico(42)…
Se invece si ritiene che la vera sfida del costituzionalismo sia quella a cui ho accennato poc’anzi, allora la riaffermazione del costituzionalismo come teoria giuridica dei limiti del potere politico si risolve, di per sé, in un imperativo morale che, a guisa di bussola, non solo ci dovrebbe consentire di prendere posizione sui problemi «giuridicamente più aggredibili» da parte del costituzionalista, sia teorico che pratico (quali, ad es., il perdurante ricorso alla tortura e la concentrazione del potere mediatico), ma ci potrebbe guidare anche nell’impostazione dei problemi più lontani dalla nostra disciplina, quali l’aumento della temperatura terrestre e la sovrappopolazione, qualora l’esame critico di tali fenomeni ci porti a concludere che la causa di essi sia individuabile in opinioni o comportamenti di autorevoli leader politici, religiosi o del mondo economico-imprenditoriale: opinioni o comportamenti che pertanto vanno denunciati e combattuti.
Una seconda osservazione conclusiva. Il contributo al costituzionalismo, da parte della civiltà occidentale, è stato determinante, e di ciò non possiamo non essere orgogliosi. Merita quindi di essere favorevolmente segnalato che nell’incipit della Costituzione europea, quale risulta dal testo approvato dalla Convenzione, si ricordi -tra i valori che sono alla base dell’«umanesimo» sviluppato da noi europei- il rispetto della ragione, oltre all’eguaglianza degli esseri umani e alla libertà.
E’ infatti proprio il rispetto della ragione ciò che ha costituito il fondamento della tolleranza delle altrui opinioni, la quale -esaltata da Galileo, Spinoza, Milton e Locke (per citare solo alcuni dei grandi pensatori europei)- ha rappresentato, identificandosi con la libertà di coscienza e di religione, il primo dei nostri moderni diritti civili di libertà.
Ma questo ci consente di porre due punti fermi. Il primo è che i valori della nostra civiltà occidentale -e tra di essi il costituzionalismo garantista, quale ci deriva da un’evoluzione millenaria- pur affermandosi (ideologicamente) come universali, non sono tali, e quindi non possono essere «imposti» agli appartenenti di altre culture, ma possono essere soltanto «proposti», perché, nella competizione tra le idee e tra i diversi valori esistenti al mondo, possano -le nostre idee e i nostri valori- essere liberamente accettati «dagli altri», in quanto ritenuti «migliori» anche da costoro.
E ciò vale anche per la democrazia come noi europei la intendiamo, che però non si identifica con «il potere nelle mani dei più» (come ci appare da quella citazione di Tucidide, II, 37, poco elegantemente posta all’inizio del progetto di Costituzione europea), ma con quel sistema di governo che assicura il rispetto delle minoranze nonché la possibilità di controllo da parte di esse. Il riconoscimento di diritti e di libertà -non dovremmo mai dimenticarlo- è sempre avvenuto grazie alle lotte di minoranze oppresse.
Il secondo punto fermo che deriva da tale premessa sta in ciò: la proclamazione dei diritti implica sempre la costituzione di obblighi in capo a soggetti-terzi(43). Ed è proprio sulla base sia dell’interdipendenza dei diritti degli uni con i corrispondenti obblighi degli altri, sia del fatto che le nostre Costituzioni non presuppongono più quella separazione tra società e Stato che era la caratteristica della teoria statalistica dei diritti pubblici soggettivi…è proprio su tale base, che il costituzionalismo moderno si preoccupa di limitare oltre al potere pubblico, anche quello privato, e quindi esso ha titolo per occuparsi, tra l’altro, anche dei problemi dell’inquinamento ambientale, del surriscaldamento, della «videopolitica»(44)…
Una terza e ultima notazione. Non so se in Spagna i partiti politici e i sindacati attraversino la stessa crisi che ha colpito i partiti e i sindacati italiani -i primi, a causa del rifiuto, da parte dell’opinione pubblica, della «mediatizzazione» da essi svolta fino al 1993 (anno dell’abrogazione -in forza di un referendum popolare- della pluralità dei voti di preferenza apponibili sulla stessa scheda elettorale, che tanto potere aveva attribuito ai partiti col sistema elettorale proporzionale); i secondi, a causa del mutamento che le nuove professioni e la maggiore istruzione dei giovani hanno implicato nel mondo del lavoro(45). Mi sembra però di poter affermare che anche in Spagna, come in Italia, sia in crisi la «forma» dello Stato-nazione(46), in ragione della spinta contrapposta esercitata su di esso dalle autonomie locali da una parte e dell’Unione europea dall’altra.
Che ciò rappresenti una sfida per il costituzionalismo europeo anche -e non soltanto- per la soluzione dei problemi pratici indicati in premesse, mi sembra indiscutibile. Si tratta infatti di forgiare gli strumenti mediante i quali i singoli possano sia influire sul cd. sistema europeo di governo multi-livello («multilevel system of government») che coinvolge UE e Stati membri, sia continuare ad influire sugli Stati, ai quali, pur sempre, resta «riservato il potere esecutivo, quello più direttamente e immediatamente connesso alla condizione umana concreta»(47). Si tratta quindi non solo di «costruire l’UE», ma anche di «ripensare lo Stato»(48), per le funzioni essenziali che entrambi -UE e Stati-membri- saranno chiamati ad esercitare come «strumenti» di esercizio della sovranità del popolo europeo(49) (…sempre che alla frase di Tucidide II, 37, si vorrà dare un senso concreto!).
Certamente, la diversa dislocazione extranazionale dei poteri decisionali e il condizionamento sia delle manovre di bilancio, sia di gran parte della legislazione statale rappresenta, per noi europei, una svolta epocale. E lo è. Ma altrettanto epocale fu la svolta che si ebbe agli inizi del sec. XX, quando lo Stato monolitico liberal-autoritario entrò in crisi in conseguenza della riemersione (soprattutto nella nuova «forma» dei sindacati operai e dei partiti politici di massa) degli enti intermedi che la rivoluzione francese aveva cancellato (50). E perciò oggi, come allora, i costituzionalisti europei sono chiamati a riflettere sulla effettività dei loro sistemi di rappresentanza politica e sul come possa essere efficacemente organizzato il consenso popolare per influire sulle scelte dei governanti in sede europea, il che sarà ancor più urgente se, come sembra, verrà approvata una Costituzione europea senza che ancora ci sia un demos europeo…(51).
E sono chiamati, nel contempo, a riflettere su come possa essere garantita la libertà (effettiva e consapevole) dei cittadini di scegliersi i propri rappresentanti sia nel Parlamento europeo sia nei Parlamenti nazionali, in un’epoca dominata dalla «videopolitica».
A questo proposito mi si consenta una chiosa finale.
Dalle anticipazioni giornalistiche ho letto che, nel recentissimo «Reagan, a Life in Letters», è stata riportata una lettera che il Presidente Reagan -probabilmente alla scadenza del suo primo mandato- ebbe a scrivere a Charley Schultz, il padre dei «Peanuts», per pregarlo di non candidare Snoopy alla Presidenza degli Stati Uniti; in cambio Reagan si impegnava a nominare Snoopy segretario di Stato. Reagan ovviamente scherzava, ma -credo- non troppo.