La «legge Gasparri», il pluralismo e il miraggio digitale

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1. È trascorso quasi un anno da quando la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, comma 7, della l. n. 249/1997, sancendo che, allo scadere del 31 dicembre 2003, nessun soggetto privato potrà essere titolare di più di due reti televisive operanti su frequenze terrestri in ambito nazionale. A sostegno della pronuncia, la Corte ha rilevato come la disposizione de qua, nel consentire in via «transitoria», ma senza stabilire un termine finale certo ed improrogabile, il superamento del predetto limite, si ponesse in contrasto con quel pluralismo delle voci «che rappresenta uno degli “imperativi” ineludibili emergenti dalla giurisprudenza costituzionale in materia» e che non può ritenersi soddisfatto dal «mero concorso fra un polo pubblico e un polo privato ai fini del rispetto delle […] esigenze costituzionali connesse all’informazione» (così sent. n. 466/2002; v. anche sentt. nn. 826/1988, 112/1993, 420/1994 e 155/2002). Pochi mesi prima, il Presidente della Repubblica, in un messaggio inviato alle Camere, aveva sottolineato che «la garanzia del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta», sollecitando l’adozione di una nuova «legge di sistema», la quale tenesse conto dell’evoluzione tecnologica, nonché delle indicazioni provenienti dal diritto comunitario e dalla giurisprudenza costituzionale.
È in tale quadro che si colloca la c.d. «legge Gasparri», che – salvo imprevisti – sarà licenziata dal Parlamento entro la fine di novembre. Questa si propone l’ambizioso obiettivo di introdurre una riforma complessiva del sistema radiotelevisivo nazionale, regionale e locale, dichiaratamente volta ad «adegua[rlo] all’avvento della tecnologia digitale e al processo di convergenza tra la radiotelevisione e altri settori delle comunicazioni interpersonali e di massa, quali le telecomunicazioni, l’editoria, anche elettronica, ed INTERNET in tutte le sue applicazioni» (art. 1, comma 1), allo scopo di garantire, fra l’altro, la «libertà» ed il «pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva», nonché «la completezza, la lealtà e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose» (art. 3, comma 1).
Nella prospettiva del disegno in esame, tale obiettivo dovrebbe essere raggiunto attraverso due strade parallele: da un lato, stabilendo limiti specifici in funzione anticoncentrativa; dall’altro, prevedendo la completa conversione, entro l’anno 2006, delle trasmissioni televisive terrestri dalla tecnica analogica a quella digitale, la quale consente di quadruplicare (o persino quintuplicare) il numero dei programmi fruibili (cfr. AGCom, Libro Bianco sulla Televisione Digitale Terrestre, 2000, p. 8).
Sennonché, a ben vedere, se il fine perseguito è quello che si è appena detto, lo strumentario all’uopo predisposto si rivela del tutto inadeguato.

2. Nel disegno di legge si prevede che, a regime, nessun operatore di comunicazione possa, né direttamente né indirettamente, conseguire ricavi superiori al 20% delle risorse complessive del «settore integrato delle comunicazioni» (Sic). Questo ricomprende «le imprese radiotelevisive e quelle di produzione e distribuzione, qualunque ne sia la forma tecnica, di contenuti per programmi televisivi o radiofonici; le imprese dell’editoria quotidiana, periodica, libraria, elettronica, anche per il tramite di INTERNET; le imprese di produzione e distribuzione, anche al pubblico finale, delle opere cinematografiche; le imprese fonografiche; le imprese di pubblicità, quali che siano il mezzo o le modalità di diffusione» [artt. 2, comma 1, lett. g), e 15, commi 2 e 3].
Ci si trova in presenza – come appare evidente – di una definizione normativa del c.d. «mercato rilevante» del tutto arbitraria, tanto che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato non ha esitato a definirla «priva di fondamento giuridico ed economico», rammentando che «sulla base di una consolidata giurisprudenza nazionale e comunitaria il mercato rilevante comprende tutti quei prodotti o servizi che siano sostituibili non soltanto in termini di caratteristiche tecnologiche, ma soprattutto in relazione alla loro capacità di soddisfare, allo stesso modo, le preferenze dei consumatori; i prodotti o i servizi che sono solo scarsamente o relativamente intercambiabili tra loro, sulla base delle preferenze espresse dalla domanda, ossia dai consumatori di un dato bene o servizio, non fanno parte dello stesso mercato. // Il disegno di legge in commento, negando in radice siffatti principi, e aggregando in un coacervo eterogeneo, in via astratta e generale, beni e servizi che, sulla base dell’applicazione dei menzionati principi antitrust, non possono essere ricondotti ad un medesimo ambito di mercato, priva di qualunque effica-cia la soglia antitrust del 20 per cento» (così la nota resa il 10 settembre 2003 alla Commissione Trasporti della Camera dei deputati, p. 12).
Il giudizio dell’Antitrust è lapidario e suona come una bocciatura senza appello.
D’altra parte – e lo sottolinea la stessa Autorità (nota cit., p. 13) – un sistema così congegnato «non trova alcun riscontro nell’esperienze legislative di altri paesi economicamente avanzati», i quali preferiscono affidarsi a meccanismi anticoncentrazione decisamente più seri ed affidabili, essenzialmente imperniati sulla previsione di limiti alla titolarità di licenze per le trasmissioni radiotelevisive (Francia e Spagna) oppure di quote massime di audience (Germania e Regno Unito).

3. Quanto al passaggio dalla televisione analogica a quella digitale, la previsione del 2006 come anno dello switch-off si fonda su stime assai lontane dalla realtà dello sviluppo tecnologico del nostro Paese, ed è perciò destinata (non diversamente dalle previsioni contenute in molte altre leggi già intervenute in materia) a restare per lungo tempo soltanto nel libro dei sogni.
Tale previsione non tiene conto del fatto che attualmente in Italia la televisione digitale terrestre versa ancora in una fase meramente sperimentale (cfr. Corte cost., sent. n. 466/2002, par. 4 del «Considerato in diritto»). Ed è ben noto come la conversione al digitale comporti tuttora costi elevatissimi sia per gli operatori (circa 700 milioni di euro) sia per gli utenti finali (mediamente 500 euro per ogni famiglia); con la conseguenza che essa, a tutt’oggi, risulta per entrambi economicamente poco «appetibile».
Anche in questo caso, è sufficiente guardare al di là dei nostri confini per avvedersi che nessun altro Paese europeo ha previsto una scadenza così ravvicinata. Basti pensare che «nel Regno Unito – dove le prime trasmissioni in digitale terrestre risalgono al 1998 – il completamento della conversione delle trasmissioni televisive dall’analogico al digitale avverrà tra il 2006 e il 2010, e cioè tra gli otto e i dodici anni dopo le prime trasmissioni»; onde riesce assai difficile pensare che in Italia un tale fenomeno possa effettivamente realizzarsi prima del 2012 [così A. Pace, intervento in AA.VV., Servizio pubblico e pluralismo televisivo nell’era del digitale, Atti delle «Giornate di riflessione», Camera dei deputati, 18-19 novembre 2002, Roma, 2003, 63. Un tabella comparativa che illustra lo sviluppo della televisione digitale nei Paesi dell’UE, con riferimento al 2002, è riportata nella Comunicazione della Commissione delle Comunità Europee sulla transizione dalla trasmissione radiotelevisiva analogica a quella digitale (dallo “switchover” digitale allo “switch-off” analogico), 17 settembre 2003, COM(2003) 541].
Sotto questo profilo, dunque, la legge in questione – lungi dall’essere «realista» (così l’ha definita il Ministro delle comunicazioni in un intervento sul «Corriere della Sera» del 26 settembre 2003) – appare a dir poco viziata da un eccesso di ottimismo.
Non vale obiettare che essa «non fa che ripercorrere la identica strada» già tracciata dalla maggioranza di centrosinistra col d.l. 23 gennaio 2001, n. 5, convertito con modificazioni nella l. 20 marzo 2001, n. 66 (così il Ministro delle comunicazioni nel succitato intervento sul «Corriere della Sera»; ma v. anche l’articolo di V. Zeno-Zencovich su «Il Sole 24-Ore» del 1° ottobre 2003, p. 11). A prescindere dal rilievo che una legge che si fonda su valutazioni fattuali errate è una legge irragionevole (e perciò incostituzionale ex art. 3 Cost.), indipendentemente dal colore della maggioranza parlamentare che l’ha approvata, sta di fatto che l’attesa – dal vago sapore millenaristico – per il futuro avvento della televisione digitale non guarisce né allevia in alcun modo il grave male che affligge da troppi anni il sistema radiotelevisivo del nostro Paese: sistema che si caratterizza per quella situazione di duopolio più volte censurata dalla Consulta ed alla quale la «legge Gasparri» non pone minimamente rimedio, introducendo anzi una disciplina che ne legittima ulteriormente la protrazione.

4. La riprova – semmai ve ne fosse bisogno – sta nel regime del periodo «transitorio».
L’art. 23, comma 5, del disegno di legge stabilisce, infatti, che «la licenza di operatore di rete televisiva è rilasciata, su domanda, ai soggetti che esercitano legittimamente l’attività di diffusione televisiva, in virtù di titolo concessorio ovvero per il generale assentimento di cui al comma 1» del medesimo articolo. Ciò si risolve, in buona sostanza, nell’assegnazione delle frequenze agli attuali operatori televisivi in tecnica analogica, i quali potranno richiedere «le licenze e le autorizzazioni per avviare le trasmissioni in tecnica digitale terrestre».
S’introduce, in tal modo, una vera e propria sanatoria (l’ennesima!) di quella che la Corte costituzionale ha efficacemente definito una «occupazione di fatto delle frequenze (esercizio di impianti senza rilascio di concessioni e autorizzazioni), al di fuori di ogni logica di incremento del pluralismo nella distribuzione delle frequenze e di pianificazione effettiva dell’etere» (così sent. n. 466/2002, par. 7 del «Considerato in diritto»). Sanatoria che, consolidando l’assetto esistente, pone insormontabili barriere all’ingresso di nuovi operatori nel mercato della televisione digitale e finisce col penalizzare ulteriormente quei soggetti i quali, pur essendo titolari di concessione, non abbiano ancora ottenuto le frequenze necessarie per coprire interamente il proprio bacino di utenza (è il caso, ad es., di «Europa 7»).
A questo riguardo, non si può non sottolineare che una siffatta previsione contrasta nettamente con quanto stabilito dall’art. 9, comma 1, della direttiva-quadro n. 2002/21/CE, la quale impone agli Stati membri di assicurare che l’allocazione e l’assegnazione delle radiofrequenze avvengano sulla base di «criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati» (in questo senso, v. anche quanto affermato dal Presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Enzo Cheli, nel corso della sua audizione dinanzi alle Commissioni riunite Cultura e Trasporti della Camera dei deputati il 10 settembre 2003; il testo integrale dell’intervento si può leggere su «Il Foglio» del 20 settembre 2003).
A ciò si aggiunga che l’art. 25 del medesimo disegno di legge, nel fissare le tappe del progressivo passaggio dalla televisione analogica a quella digitale, configura un sistema che disattende quanto statuito a chiare lettere dalla Corte costituzionale nella sent. n. 466/2002.
La disposizione de qua stabilisce che, «[a]i fini dello sviluppo del pluralismo saranno rese attive, entro il 31 dicembre 2003, reti televisive digitali terrestri, con un’offerta di programmi in chiaro accessibili mediante decoder o ricevitori digitali». Sarà compito dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, «entro i dodici mesi successivi al 31 dicembre 2003, svolge[re] un esame della complessiva offerta dei programmi televisivi digitali terrestri allo scopo di accertare: a) la quota di popolazione raggiunta dalle nuove reti digitali terrestri; b) la presenza sul mercato di decoder a prezzi accessibili; c) l’effettiva offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche».
Come ha giustamente rilevato il Presidente dell’AGCom, «tale verifica viene a compiersi ben oltre la scadenza del termine indicato dalla Corte e senza, d’altro canto, comportare alcuna sanzione in caso di accertata inosservanza dello stesso termine» (audizione cit.). Il massimo che l’Authority potrà fare è inviare una relazione al Governo e alle competenti commissioni parlamentari!
Ma v’è di più. Secondo quanto dispone l’art. 25, comma 7, del disegno di legge, «fino alla completa attuazione del piano di assegnazione delle frequenze televisive in tecnica digitale, il limite al numero complessivo di programmi per ogni soggetto è del 20 per cento ed è calcolato sul numero complessivo dei programmi televisivi concessi o irradiati […] in ambito nazionale su frequenze terrestri indifferentemente in tecnica analogica o in tecnica digitale. I programmi televisivi irradiati in tecnica digitale possono concorrere a formare la base di calcolo ove raggiungano una copertura pari al 50 per cento della popolazione».
Potrebbe sembrare, di primo acchito, che l’articolo in parola si limiti sostanzialmente a ribadire il tetto antitrust già fissato dall’art. 2, comma 6, della l. n. 249/1997, ai sensi del quale nessuno soggetto può essere titolare di concessioni o autorizzazioni «che consentano di irradiare più del 20 per cento rispettivamente delle reti televisive o radiofoniche analogiche e dei programmi televisivi o radiofonici numerici, in ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri». Sennonché, a ben vedere, le due previsioni non sono affatto coincidenti. Ed invero, mentre nella «legge Maccanico» il limite del 20% viene calcolato sulla base delle «reti», nella «legge Gasparri» il medesimo limite viene invece calcolato sulla base dei «programmi», ivi compresi quelli in tecnica digitale, alla sola condizione che questi ultimi raggiungano almeno la metà della popolazione. Orbene, poiché il numero delle reti nazionali analogiche previste dal piano nazionale è pari ad 11, e poiché ciascuna rete digitale può trasmettere fino a 5 programmi, il soggetto che disponga di una rete digitale avente una copertura del 50% potrà detenere fino a 3 programmi (canali) televisivi.
Il tutto, con buona pace della Corte costituzionale e del tanto declamato pluralismo, che ancora per lungo tempo continuerà ad essere soltanto un miraggio. Digitale, ovviamente.

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