Appunto sulla cultura espressa dalla legge costituzionale n. 1 del 1999

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1. Premessa
2. La cultura egemone
3. Nel segno dell’irregolarità comparatistica
4. Osservazioni conclusive

1. Una legge importante come quella di revisione costituzionale del 22 novembre 1999, che disciplina la forma di governo regionale standard e quella transitoria attualmente in vigore, parla anche della cultura politica e istituzionale della classe politica che l’ha voluta (allora al governo c’era il centrosinistra, ma il testo fu approvato da ben più dei due terzi dei deputati e dei senatori) e del più generale “ambiente” che quella cultura ha prodotto: assumendo questo punto di vista, propongo le seguenti osservazioni.

2. La legge dimostra che è prevalente oggi in Italia una cultura per descrivere la quale si può far ricorso alle parole – in chiave adesiva – di Andrea Manzella e – in chiave critica – di Giuseppe De Rita.
Il primo 1 fa notare che c’è “tutto un moderno costituzionalismo che sostiene che la personalizzazione della politica sia ormai l’unica garanzia della sua democraticità: in considerazione della frammentazione delle classi, delle culture, delle identità. È alla persona candidata alla premiership di governo che si fa credito di capacità di integrazione, di gestione e si richiede un individuale rendiconto. Ad essa si attribuisce una pienezza di poteri e di responsabilità, di consenso politico e di adesione politica, un impasto di imprenditorialità e di esternazione: tutti elementi che configurano una rappresentanza politica di valore generale. Si temeva infatti che la personalizzazione e la verticalizzazione della politica avrebbero prodotto effetti di esclusione e di riduzione. Ci si accorge che sono, invece, forme di inclusione di strati sociali allontanatisi dalla politica tradizionale”.
Il secondo 2 rileva che “gli anni Novanta sono stati segnati da una dinamica politica pervasa da opzioni diverse ma tutte disattente al problema del riassetto complessivo del nostro sistema istituzionale e incentrata su tre scelte correlate fra di loro: la scelta del primato della decisionalità; la scelta della concentrazione e verticalizzazione del potere; la scelta della personalizzazione delle decisioni e del potere”. La prima “talvolta corrivamente scivolata nel più arrogante decisionismo … ha squilibrato … il necessario equilibrio fra decisionalità e rappresentanza”, determinando “la pratica inutilità odierna dei consigli comunali, provinciali e regionali, veri e propri fantasmi istituzionali senza ruolo” ridotti “a mere comparse dell’attività e dell’attivismo personale del sindaco, del presidente della provincia, del presidente … della regione”.
Ne è derivato – e si passa così alla seconda scelta – lo “spostamento delle decisioni in ambiti sempre più ristretti di potere; [la] tendenza a cercare o imporre leader anche improbabili in ristrette cerchie di interesse e d’opinione; [la] coltivazione del mito del capo, necessario e spesso mitico delle istituzioni”. Polemizzando con chi afferma “che è proprio il carattere di proliferazione molecolare della nostra società che impone come sua singola unificazione possibile il presidenzialismo al vertice”, si fa notare che questa ipotesi è “intimamente vecchia, in quanto risente ancora dell’antica concezione piramidale del potere, con un «faraone» che opera sul fluire della domanda e della risposta decisionale lungo dinamiche squisitamente gerarchiche”.
Quanto infine alla terza scelta – strettamente correlata alle prime due – De Rita parla di “ricerca regressiva di decisionalità e di «capi»” in chiave, aggiungerei, più d’incarnazione di tipo populista3, che di rappresentanza liberaldemocratica, tale dunque da non richiamarsi alla statemanship e cioè al “peso del valore personale dei leader che ha sempre connotato la politica e lo Stato”, ma a “un più pesante e ambiguo fenomeno di identificazione della politica con figure e vicende squisitamente personali”: se la rappresentanza “ha bisogno di un paziente lavoro collettivo, il decisionismo ha bisogno di uomini che sappiano «impersonarlo»; se la partecipazione ha bisogno di canali e di dinamiche di tipo collettivo, la verticalizzazione del potere ha bisogno di uomini che siano o almeno appaiano straordinari leader maximi”.
Riconoscendomi nella sostanza della linea di pensiero appena riassunta, vorrei solo sottolinearne alcuni elementi e proporre qualche integrazione. Comincerei con il notare che il “costituzionalismo contemporaneo” di cui parla Manzella affonda le radici – e ha ricevuto critiche – in tempi molti lontani: è stata di recente Lorenza Carlassare a riportare l’attenzione su un passo del Patriarca di Robert Filmer – uno dei massimi teorici dell’assolutismo monarchico, che contestava le basi filosofiche contrattualistiche di Hobbes, considerandole pericolose concessioni agli avversari 4 – in cui si afferma che il popolo “deve limitarsi ad eleggere e rimettersi ai suoi eletti che facciano a loro arbitrio”, così fornendo materiale alla nota critica rousseauiana che vedeva in quello inglese un popolo libero un giorno solo.
Continuerei con il notare che andrebbero tenute presenti le valenze regressive e/o inquietanti di tale “costituzionalismo contemporaneo”: a fronte della “crescente specializzazione dei saperi su cui si fondano molte decisioni pubbliche” 5, si tende a banalizzare in chiave populista la dinamica politica nella scelta di un improbabile demiurgo a fini di mero “appagamento ideologico” di un corpo sociale reso sapientemente (e strumentalmente) disponibile nei confronti di “miti irreali” funzionali ai poteri – intellighenzia inclusa – che contano.
Fra tali miti può essere annoverato quello al quale fa riferimento Giuliano Amato 6, quando parla della “retorica della politica” che “ama sostenere che chi vince le elezioni attuerà dal giorno dopo non il proprio, ma il programma del popolo: perché il popolo, votando per i vincitori, ha fatto suo il loro programma e li chiama appunto ad attuarlo” 7.
In realtà la versione populista della democrazia nella misura in cui privilegia – per usare le categorie analitiche di una studiosa americana 8 – lo standing for (ciò che il rappresentante è o riflette) rispetto all’acting for (ciò che il rappresentante fa) non è portata ad esaltare particolarmente l’elemento programmatico né in entrata né in uscita: se le campagne elettorali sono prevalentemente giocate su messaggi (sempre più brevi, come documentano i centri di osservazione specializzati) e non su programmi; hanno come loro target l’elettore videns piuttosto che l’elettore sapiens 9; hanno come loro propellente la forza del denaro più che quella delle idee; se a prevalere, insomma, è “l’industria del marketing politico” 10, troverà sempre più difficoltà ad affermarsi una concezione dell’attività politica come “produzione democraticamente controllata di decisioni”, come consapevole “routine” 11 di gestione e di risposta agli inputs sociali; mentre non è forse il “cesarismo costituzionalizzato” 12 il contesto più adatto perché venga accettata “l’idea di una democrazia che richiede, un giorno dopo l’altro, nella monotonia di un compito modesto, quell’impegno di vigilanza e di applicazione che sono propri del corretto esercizio di un mestiere” 13.
Sotto altro aspetto l’accoppiata personalismo-decisionismo 14 – quando il secondo termine non si risolva in mero annuncio ad effetto di decisionismo – è espressione di una cultura che tende a identificare la democrazia con il suo segmento terminale e tale segmento con una “corsa di cavalli” 15, svuotandola di ogni discorsività (come se si privasse un concerto dei brani per pianoforte o per violino), di ogni valore che non sia la decisione perentoria (il fragore dei piatti, per continuare la metafora), per raggiungere il traguardo di una sorta di monocrazia elettiva 16 che si risolve in un mitico circuit de confiance tra corpo elettorale e leader: un leader che, in realtà, grazie alla sua forza istituzionale (di carisma politico è quasi sempre azzardato parlare a livello regionale 17, mentre più plausibile – e messa probabilmente in conto dai revisori del 1999 – appare la prospettiva della formazione di partiti personali) 18, può liberarsi dal “disordine” della vita politica e sociale e isolarsi in un “palazzo” al quale solo pochi hanno accesso.

3. Il tipo di cultura al quale si è dedicato qualche cenno nel paragrafo precedente se assunto con ossequio acritico e in versione estremizzante da un ambiente politico-culturale ossessionato dalla sindrome del ritardo (nei confronti di più evolute culture, s’intende) 19 e dalla smania di omologazione ai modelli stranieri più celebrati, produce sforzi d’imitazione che – sullo slancio – danno paradossalmente luogo a modelli unici.
Esempi in questo senso si sono accumulati in Italia a partire dagli anni novanta del secolo scorso: subito dopo l’entrata in vigore della legge che prevede l’elezione diretta del sindaco era stato notato che essa aveva costruito un sistema unico al mondo, nel quale i seggi assegnati in consiglio dipendono non dai voti ricevuti dai candidati consiglieri, ma dai voti ottenuti dal candidato sindaco 20.
Per approvare una legge elettorale in grado, con la forza dell’ artificialismo, di bipolarizzare l’arena politica, rendere possibile l’alternanza al governo 21 e designare nella sostanza il presidente del consiglio dei ministri, si è dovuto ricorrere a uno strumento come il referendum, del tutto anomalo in materia elettorale nel contesto comparatistico 22.
Per entrare nel novero dei paesi “normali” si è pagato un biglietto d’ingresso sul piano politico-costituzionale che ci riconsegna, agli occhi dell’Europa, a un’anormalità ancora più vistosa, incarnata (soprattutto, ma non esclusivamente 23) dalla figura e dalla situazione di chi ha vinto le elezioni del 13 maggio 2001 24.
In questa logica – di diventare “unici” per smania di diventare “uguali”, combinando non virtuosamente provincialismo autarchico con provincialismo cosmopolita – si inscrive la legge costituzionale in esame.
Unica è, per cominciare, la situazione di un ordinamento che preveda – sia pure in forma indicativa (anche questa una tecnica non comune nel quadro comparatistico) e non prescrittiva – una forma di governo per le principali articolazioni territoriali distante da quella nazionale e vicina a quella comunale, alterando, come è stato da più parti osservato, il consueto standard di circolazione dei modelli fra centro e periferia: tale mancanza di attrazione del modello nazionale può perfino essere letto come un contributo all’opera di delegittimazione del testo costituzionale 25 o come un significativo allenamento che gli “energumeni del cangiamento” 26 hanno voluto giocare in periferia prima della finale a Roma, che sembra già orientarsi verso il binomio “troppa ingegneria costituzionale e troppo poco costituzionalismo”.27
Indipendentemente da tali considerazioni, la forma di governo regionale indicata come ottimale è di per sé – come molti hanno osservato – un unicum nel panorama comparatistico 28, anche se la logica che la sottende è di tipo omologante: la volontà di adeguarsi a “una delle tendenze modellistiche immanenti alla vita costituzionale contemporanea” 29, affermatasi in ambigua omogeneità ad alcune inquietanti tendenze della società contemporanea, la concentrazione monocratica del potere supportata dall’investitura popolare.
Nel delineare una forma di governo che tenga conto di questo dato ormai ineludibile si possono assumere peraltro due atteggiamenti: quello di assolutizzarlo o quello di temperarne la portata.
La cultura del legislatore costituzionale del 1999 si è pienamente dispiegata nel primo senso.
Non si può che aderire – magari prestando più attenzione di quanto comunemente si sia fatto a un importante avvertimento metodologico 30 – al comune rilievo secondo il quale la vigente forma di governo regionale non si identifica con nessuno dei modelli operanti nel diritto comparato (e neppure con la meteora israeliana), avendo la legge di revisione costituzionale del 1999 proceduto a un’opera di contaminazione fra di essi: tale contaminazione peraltro – e gli elementi originali su di essa innestati – non è avvenuta (come è più usuale) nella prospettiva di contemperare gli obiettivi caratterizzanti le varie forme di governo, ma in quella di centrarne uno solo, la concentrazione personalistica del potere, appunto 31.
Come è stato notato 32, è l’idea stessa di limite che è estranea alla cultura che ha prodotto la legge in esame: nella forma di governo proposta agli statuti regionali, in effetti, “troviamo singoli istituti presi dall’una e dall’altra forma … in modo da neutralizzarli nella loro forza limitante” 33.
Di questo vagabondaggio costituzionale a meta obbligata – che supera la soglia oltre la quale l’accoppiata personalizzazione-concentrazione del potere può entrare in rotta di collisione con valori fondanti della democrazia liberale 34 – questi mi sembrano i più rilevanti esiti, ottenuti attraverso l’ibridazione a senso unico dei materiali rinvenibili nel “baule degli ingegneri costituzionali” 35 o attraverso il loro mancato utilizzo 36: a) rispetto ai modelli statunitense, francese e alla meteora israeliana (ai quali ci si può richiamare per via dell’elezione, e dunque legittimazione, popolare e per la supremazia in posizione che i primi due riconoscono a chi rappresenta lo Stato 37), si è sottratto il presidente regionale all’alea di non disporre di una maggioranza, assicurandogliela – potenzialmente anche a costo di enormi distorsioni del voto popolare 38 – attraverso una legge che, imponendo un’“associazione simbiotica fra elezione del Presidente ed elezione del Consiglio” 39, tende a ridurre il secondo a una protesi del primo; b) in difformità dal modello inglese, lo si è sottratto – prevedendo elezioni anticipate sia a seguito di sue dimissioni che di un voto di sfiducia consiliare – all’alea di essere sostituito in corso (e in prosecuzione) di legislatura 40, andando anche oltre la versione “presidenziale” del parlamentarismo di cui ragionano studiosi inglesi come M. Foley e A. Mughan; c) in conformità a quel modello, gli si è attribuito il potere di sciogliere liberamente il Consiglio dimettendosi 41; d) pur in un contesto in cui la stabilità dell’esecutivo e la durata ordinaria della legislatura assumono un valore inestimabile, si è legato ad avvenimenti casuali connessi alla sua persona addirittura la durata del consiglio e della giunta, scartando ipotesi note al diritto comparato che o prevedono la figura di un vice (eletto con o nominato da lui) che sia vicario a tutti gli effetti 42 o prevedono un’elezione limitata al titolare della carica 43; e) pur in un contesto in cui è ipervalorizzato il circuit de confiance fra corpo elettorale e presidente, non si è preso in considerazione un istituto – certo estraneo alla nostra cultura giuridica – come il recall 44; f) si è attribuito al Presidente il potere insindacabile di nomina e revoca degli assessori, concedendogli potenzialità di aggiustamenti e cambi della maggioranza non inferiori a quelle che sono state precluse – in quanto squalificate a priori come frutto di intrigo, carrierismo e tradimento del patto elettorale – ai consiglieri 45, avallando una contrapposizione fra buono – il padre-padrone della Giunta – e cattivi, degna di quella fra J. Wayne e gli indiani nei film – tanto cari all’America dei Bush – di J. Ford; g) in conformità con vari ordinamenti, lo si è infine esonerato dalla fiducia iniziale (esonero da alcuni presidenti esteso alla stessa presentazione della Giunta in Consiglio) e gli si è data la possibilità di rimanere in carica anche presiedendo una giunta di minoranza.
A fronte di questo “formidabile mix” 46, di tale “poderoso trasferimento di risorse istituzionali e politiche dalle assemblee agli esecutivi regionali” 47, che determina – fra l’altro – consistenti ricadute sul sistema delle fonti, a reggere – se mi si passa l’espressione – il peso del contrappeso a tale “poderosa base istituzionale di forza politica” 48 sta di fatto – a parte le virtuose esercitazioni sullo statuto dell’opposizione 49 e sul rafforzamento dei poteri consiliari d’indagine, controllo, informazione 50 – l’ipostatizzazione di una versione dostojevskiana della democrazia (“delitto” del presidente e “castigo” del corpo elettorale), non a caso esaltata dai difensori della riforma con accenti apologetici, restii a confrontarsi con le diffuse analisi che, per un verso, mettono in guardia – almeno gli intellettuali – dall’identificare la fessura delle urne con la bocca della verità e lo spoglio delle schede come il puro distillato della volontà popolare 51; per un altro, sottolineano l’enorme vantaggio di posizione di cui godono gli incumbent 52.
Per dare sostanza a questa versione della democrazia (che in ogni caso – sostanzialmente basata com’è sull’accoppiata “scelta di un capo-possibilità di alternanza” – si avvicina a quella “scheletrica” di recente teorizzata 53 e volta le spalle alle forme meno ruvide di democrazia 54), si è perfino ipotizzato una “questione di morale costituzionale” che imporrebbe al presidente uscente di sottoporsi al giudizio del corpo elettorale 55: mostrando, se non altro, disattenzione verso comuni regole di diritto italiano e di diritto comparato – plausibilmente in via di introduzione anche a livello regionale – che impongono ragionevoli limiti alla consecutività dei mandati 56, e anche una tendenza dirigistica nei confronti di scelte irrinunciabilmente individuali.

4. Nelle regioni che accoglieranno il modello standard – la grande maggioranza, probabilmente, per convinzione o per mimetismo o per non essere smentiti da un corpo elettorale condizionato, forse irreversibilmente, dalle tecniche “nutritive” (D. Fisichella) poste in essere dai signori dell’opinione pubblica – saranno ovviamente le prossime legislature a dirci se a vincere sarà stato il “tipo” normativamente proposto o il crittotipo latente nella società politica 57, o, se si vuole, la gabbia o il prigioniero, intendendo per quest’ultimo, i cromosomi istituzionali proporzionalistici 58 in attiva quiescenza nel nostro tessuto politico-istituzionale: o se – ancora – la partita finirà, per imprevedibili vie di fatto, con un pragmatico e ragionevole pareggio.
Alle regioni, se ce ne saranno 59, che (utilizzando i ragionevoli anche se un po’ confusi60 ambiti di autonomia loro attribuiti, sufficienti comunque a invertire il senso di marcia indicato dalla legge del 1999) non riconosceranno il valore pedagogico sotteso al modello di democrazia (parlare di forma di governo mi sembra riduttivo, visto che sono in gioco anche principi di fondo 61) proposto dalla legge costituzionale esaminata, spetterà di dimostrare (anche scartando l’estremistico modello di democrazia d’investitura proposto e orientandosi verso una democrazia d’indirizzo dai robusti, ma non draconiani, caratteri razionalizzatori, che rafforzino, fra l’altro, la capacità dell’esecutivo di proteggere le proprie politiche nel rapporto con il potere legislativo) la possibilità di centrare gli obbiettivi che costituiscono ormai il minimo comun denominatore dei diritti costituzionali vigenti in Europa: quello della stabilità, capacità decisionale e connessa responsabilità dell’esecutivo; quello della riduzione della frammentazione partitica, senza però mortificare oltre una certa soglia il pluralismo e la ricchezza delle istanze sociali; quello di rendere più “pesante” il voto, mettendolo nella condizione di contare non solo per la formazione delle assemblee, ma anche per la determinazione di una maggioranza (e dunque per l’individuazione dell’esecutivo e del suo vertice) collegata ad esso da un vincolo di programma 62; quello di rendere limpidi, ma non improntati alla pura logica maggioritaria, i rapporti fra maggioranza e opposizione; quello di rendere dialetticamente collaborativi e non puramente ratificatori i rapporti fra esecutivo e maggioranza; quello …
Torniamo alla realtà: per notare che, a quattro anni di distanza dall’approvazione della legge costituzionale n. 1 del 1999, le principali promesse ivi contenute (esercizio della potestà statutaria; approvazione da parte del Parlamento di una legge di principio in materia elettorale) tali sono rimaste. È un film che abbiamo già visto: quello del differimento ottimistico che va fatalmente verso lo squallore dell’ormai.

Alfonso Di Govine

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