Va detto chiaramente: il progetto di legge che mira a modificare 41 articoli della nostra Costituzione, già approvato in prima lettura dal Senato e che, nel mentre si iscrive, è all’esame della Camera dei deputati, si appropria di una veste non sua. Non è di revisione costituzionale come pretenderebbe. Fuoriesce dalla previsione dell’articolo 138 della Costituzione, che nell’ipotizzare la possibilità e l’opportunità di apportare modifiche al testo delle disposizioni costituzionali, ne disciplina il procedimento. Nel farlo, nello scegliere un tipo di procedimento, tra i tanti che potevano essere adottati, il Costituente definì le modifiche ammissibili, e le definì come puntuali, specifiche, attinenti cioè ad un determinato istituto, ad un singolo tema. Il che non significa e non comporta che si possa procedere a modificare soltanto una disposizione, un solo articolo. Significa e comporta che si possa procedere a rivedere anche più disposizioni ed articoli purché, riguardino una sola delle materie, una specifica istituzione: Esemplificando: la conformazione del Parlamento (monocameralismo o bicameralismo e, per la seconda di queste due conformazioni, quale tipo), il procedimento di formazione delle leggi, il sistema delle fonti normative (da specificare ed eventualmente da arricchire con l’aggiunta delle leggi organiche), la distribuzione del potere legislativo ed amministrativo tra lo stato e le entità territoriali minori, il controllo di costituzionalità delle leggi, (se accentrato o diffuso, inclusivo o non della Verfassungsbeschwerde), l’unicità o articolazione della giurisdizione, il ruolo del Capo dello stato, la revisione costituzionale, eccetera.
Si appropria di una veste non sua, questo progetto, non soltanto per la quantità e diversità delle norme e degli istituti che pretende sopprimere, sostituire, distorcere, ma perché mira al rovesciamento della Costituzione, del suo spirito oltre che della sua lettera. Tende cioè a sostituirne la specifica ragion d’essere, quella di legittimare costituzionalmente la costruzione di una democrazia avanzata, che conformi i rapporti economici e sociali ai principi della libertà e dei diritti umani, della dignità sociale, della giustizia e dell’eguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana.
La verità è che l’approvazione del progetto in questione non modificherebbe soltanto la seconda parte del testo costituzionale, inciderebbe profondamente sulla prima, quella che statuisce i princìpi che qualificano l’ordinamento e riconosce i diritti delle cittadine e dei cittadini e di tutti gli esseri umani. Certo, le due parti della Costituzione sono distinte, ma connesse, la seconda è funzionale alla prima. Il rapporto che collega l’una all’altra, i principi e i diritti alle istituzioni che definiscono e regolano il potere, nell’ammettere la possibilità di innovazioni, anche significative, pone almeno due condizioni. Le modifiche devono essere rigorosamente ed inequivocabilmente coerenti con la finalizzazione intangibile dell’ordinamento, dettata dai princìpi fondamentali e dalle norme sui diritti inviolabili; devono altresì risultare dotate di una funzionalità credibile e condivisa, non inferiore a quella offerta dalle disposizioni che si intendono sostituire. Dal che consegue che non sono ammissibili normative strumentali per altre finalità istituzionali. Non è quindi costituzionalmente legittimo modificare direttamente la seconda Parte della Costituzione e surrettiziamente, ma efficacemente e ineluttabilmente, la prima Parte.
Valga l’esempio dei ‘livelli essenziali’ (artt. novellati 117, secondo comma, 120 secondo comma) la cui introduzione riduce il significato e la portata del principio di eguaglianza (primo e secondo comma dell’art. 3) Ai diritti sociali si assicura una garanzia minimale, il sistema che ne risulta ammette la differenziazione, consentirà programmaticamente non l’eguaglianza ma la disparità di trattamento che viene riconosciuta, addirittura sancita, … ‘costituzionalizzata’. Un vulnus, molto grave, quindi, è stato già inferto alla Costituzione dalla irresponsabilità e dalla stupidità, politica e giuridica, della maggioranza (risicata) di cui disponeva l’Ulivo nella scorsa Legislatura con l’approvazione del ‘nuovo’ Titolo V, approvazione che è ora motivo di autocritica e suscita intenti riparatori. Sappiamo però che su di esso può comunque cadere ed è sperabile che cada al più presto la mannaia di qualche declaratoria di incostituzionalità (e non ne merita una sola) da parte della Corte costituzionale.
La perversa tendenza che produsse quel monumento di insipienza politica e giuridica eretto col nuovo Titolo V della Costituzione prosegue, si conferma, si estende e si incrementa nel progetto di trasmutazione della Costituzione che la Camera dei deputati sta esaminando. Ha ad oggetto, tale progetto, sia la conformazione del Parlamento, sia il procedimento di formazione delle leggi, sia la distribuzione della potestà legislativa tra stato e regioni, nientemeno che la forma di governo e quindi il ruolo di tutti e tre gli organi politici supremi della Repubblica, Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, il rapporto tra tali organi, e, come se non bastasse, la forma di stato, cioè il tipo di Repubblica, inoltre la Corte costituzionale, quanto a derivazione dei componenti e quanto a posizione dei suoi organi, ed anche la revisione costituzionale. In tal modo, questo progetto non si configura solo come esempio da manuale di appropriazione di una veste giuridica altrui, cioè di uso illegale di un potere legale, ma rivela la propria profonda ed univoca natura, definisce l’azione che, suo tramite, si sta perpetrando e la presenta in tutta la sua proterva evidenza come usurpazione, l’usurpazione del potere costituente.
L’evocazione di tale potere, che è quello del Leviatano prima che abdichi (e mai definitivamente, lo sappiamo) a favore del suo figlio legittimo, il diritto, sta comportando reazioni di vario tipo. Non merita considerazione quella di chi crede di saper addomesticare tale potere, disciplinandolo, incanalandolo, subordinandolo, assegnandogli funzioni di servizio per mascherare preventivati cedimenti camuffati da compromessi del più basso profilo che si tenterà poi di giustificare trincerandosi dietro il più truce realismo politico. Di qualche altra, invece, conviene occuparsi, di quella, ad esempio, che, motiva l’opzione costituente con la giusta ragione che la serie di modifiche che il centro destra vuole imporre, è tale da rendere impraticabile, oltre che impropria, la procedura di revisione prevista dall’art. 138 della Costituzione. Ebbene, questa opzione, qualunque sia la motivazione che le si offre, finisce con l’accettare l’impostazione e la portata del progetto del centro destra. Diserta la lotta, quanto mai necessaria ormai, da condurre sul terreno, anche se aspro ed infido, del conflitto radicale sulle ragioni stesse della convivenza nazionale, il terreno dello scontro nella società, chiamando col referendum le elettrici e gli elettori a decidere schierandosi: o a favore di chi vuol ridurre la democrazia alla scelta quinquennale di un capo dotato di poteri assoluti, di chi accetta e sostiene il dominio del mercato e riduce i diritti sociali ad elargizioni residuate, se e nella misura in cui è soddisfatta la retribuzione del capitale, o, invece, a favore di chi non vuole mollare i diritti che la Costituzione gli ha riconosciuto e non si accontenta della riduzione della democrazia ad acclamazione operata con la scheda elettorale.
Mi preme, a questo punto, avanzare qualche domanda a Giuliano Amato che aveva accennato al potere costituente per far notare che un progetto di legge teso a così vaste e così rilevanti modifiche non poteva essere gabbato come revisione costituzionale. Ne contestava perciò la legittimità, giustamente. Sembra ora che egli propenda per proporre al centro destra una qualche procedura volta se non ad invocare, a mimare una qualche forma di funzione costituente. Io non capisco come possa ritenere che tale eventuale procedura si arresti innanzi ai vincoli, agli imperativi posti dai principi fondamentali e dai diritti inviolabili sanciti nella Costituzione del ’48. Sa, Giuliano Amato, più e meglio di ogni altro, che le Costituzioni sono il prodotto di certe, particolari occasioni storiche: Ebbene, la congiuntura che stiamo vivendo non è neanche lontanamente comparabile al clima costituente del secondo dopoguerra, e non ci rassicura minimamente specie sul principio di eguaglianza, visto che lo stesso Amato confessa1) di aver trovato difficoltà addirittura a far scrivere questa parola nel progetto di trattato di costituzione europea. Se si è di fronte a un disegno mirante al rovesciamento dello spirito della Costituzione, si è di fronte ad un tentativo, ad un progetto, ad una politica da combattere fino in fondo, con le armi della democrazia, ma senza tentennamenti, soprattutto senza possibilità alcuna, né esplicita, né implicita, di legittimare, come sarebbe fatale in una qualche concordata procedura volta a richiamare il potere costituente, chi propugna tale progetto, chi persegue tale obiettivo. Legittimare l’eversore, qualunque possa esserne il motivo, non credo che rientri nel catalogo delle virtù repubblicane.
Che si tratti di un progetto eversivo è deducibile dalle considerazioni che seguono. Nella sua prima stesura, quella approvata dal Senato, si credette, da alcuni, che qualunque modifica a quel testo sarebbe stata auspicabile, perché non poteva che migliorarlo. Si contava su di un sussulto di intelligenza, sul senso dello stato, se non della democrazia, che avrebbe potuto trasferire il progetto su vie meno catastrofiche. Mai fiducia è stata così mal riposta. Il testo è stato modificato sì, dalla Prima Commissione della Camera dei deputati, ma in peggio. Si può motivatamente supporre, dopo venti e più anni di elaborazione di progetti volti a modificare le istituzioni, che una legge inflessibile presieda al riformismo istituzionale, quella della perversione progressiva ed inarrestabile dei testi di riforma. Il che non deve comportare, a giudizio di chi scrive, che ci si debba affrettare a subire l’ultimo testo disponibile temendo quello successivo, ed accontentarsi del meno peggio, ma esattamente l’opposto, un rifiuto netto e definitivo della deriva che ha colpito la Repubblica. E vengo ai due temi centrali cui si riferiscono le modifiche proposte dal Governo di 42 articoli della Costituzione: ‘federalismo’ e ‘premierato’.
Il federalismo è tensione all’unità, lo si sa bene e da sempre. Non è secessione mascherata e perversa. Non è frammentazione istituzionale volta alla frantumazione di ogni vincolo sociale e dell’unità nazionale. Ebbene, quel che, invece, si propone come ‘federalismo’ non si sottrae a rilievi ispirati dalla preoccupazione che si tenda alla frammentazione della Repubblica ed alla frantumazione dei vincoli di «solidarietà politica economica e sociale» (art. 2 Cost). Intanto, non corrisponde a nessuno dei modelli di stato che traggono ispirazione da tale nobile principio istituzionale. Non vi corrisponde perché si vuole con esso innestare un processo del tutto innaturale. Lo stato federale nasce come tale, come processo volto a unificare stati che preesistono e che mantenendo la loro individualità mettono in comune alcune parti della loro sovranità, alcune delle funzioni che spettano a ciascuno di essi per gestirle in comune. L’operazione che invece si vuole tentare in Italia, è esattamente l’opposta, quella di espropriare funzioni indefettibili di uno stato per attribuirle alle Regioni che, non va dimenticato, sono entità sorte per decisione e solo in virtù di decisione statale. Questa operazione, è il ripiego della secessione che uno dei partiti della maggioranza, la Lega, ha escogitato per l’impossibilità constatata di raggiungere il suo obiettivo originario, e corrispondere per altra via all’esigenza della quale essa è portatrice: quella di sgravare le regioni ricche, e delle regioni ricche le classi agiate, da ogni vincolo di solidarietà con le fasce di popolazione non agiate delle altre regioni italiane. Questa è l’ispirazione di fondo, l’ideologia che viene tradotta in termini di norme costituzionali che mirano a realizzare il federalismo all’italiana. Ispirazione ed ideologia che come si diceva sono già penetrate nell’ordinamento costituzionale italiano nelle disposizioni del Titolo V novellato, con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Ho già fatto riferimento all’effetto riduttivo della garanzia di eguaglianza di trattamento dei cittadini derivante dal virus dei ‘livelli essenziali’ iniettato in Costituzione. Nel confermare le obiezioni esemplifico. Mi domando ora proprio, con riferimento che il terzo comma L’articolo 119 di tale Titolo prevede come strumento volto ad equilibrare la capacità di spesa delle Regioni con minore capacita fiscale per abitante, un fondo perequativo senza vincoli di destinazione. Domando: quale garanzia può essere più assicurata con tale strumento da una legge di un ordinamento permeato dallo spirito del federalismo competitivo, in cui l’aggettivo non può negare, ma solo confermare che si tratterà in ogni caso di competizione tra ineguali? Il Centro-Nord contro il Sud, 12 contro 8. Tanto più se sarà approvata la trasmutazione della Costituzione nel testo predisposto dalla I Commissione della Camera che prevede per tale tipo di legge l’eguale partecipazione della Camera e di quel Senato che realizzerebbe appieno il federalismo delle classi agiate.
Siamo giunti, così a toccare la questione delle istituzioni del ‘federalismo’ che si vuole imporre. Rovesciato il significato della parola, il progetto rovescia i criteri di attribuzione delle funzioni: gli organi che dovrebbero tendere a tutelare l’interesse nazionale, quello dell’unità dell’ordinamento giuridico, economico, e sociale, quindi la tutela dei diritti, l’eguaglianza, la sicurezza, il lavoro e quant’altro è ancora scritto nella I Parte della Costituzione, sono privati di tale funzioni nel mentre le istituzioni che dovrebbero tutelare le autonomie territoriali e farle valere vengono strutturate in modo da non corrispondere ai modelli sperimentati come idonei a rendere effettiva la tutela di tali interessi.
Parto col precisare questo secondo rilievo. Gli interessi regionali sono già entificati, in Italia. Perché, allora, la rappresentanza di tali interessi nell’istituzione rappresentativa nazionale (il Senato) non viene seriamente e pienamente attribuita agli organi cui è costituzionalmente riconosciuta (art. 121 Cost.)? Perché del federalismo tedesco si rifiuta la suggestione principale e caratterizzante, quella che attribuisce ai presidenti degli enti esponenziali delle realtà territoriali corrispondenti alle nostre Regioni la funzione di rappresentarle nell’istituzione che, appunto, vuole essere rappresentativa, sul piano nazionale, di tali realtà? Si teme la riduzione drastica del numero dei membri del Parlamento? Si teme che il Senato non accetti di essere sostituito da un’assemblea composta dai presidenti delle Regioni, integrata, magari, dai presidenti dei Consigli regionali, se rappresentativi delle minoranze? Lo si dica. Si ponga il problema all’opinione pubblica, anche per svelare se effettivamente si mira e da parte di quali forze, ad una riduzione significativa, reale e attuale (non futura ed incerta) dei membri delle Assemblee parlamentari.
Lo si dica e non si facciano immonde accoppiate di funzioni diverse per natura e per fini. Non si attribuisca all’organo che dovrebbe rappresentare gli interessi regionali compiti impropri, opposti alla sua ragion d’essere. È improprio ed opposto alla sua ragion d’essere il potere prevalente nella determinazione dei principi generali della legislazione ripartita tra stato e regioni. Si tratta di principi intimamente connessi agli interessi generali della Nazione. Il potere prevalente nel determinarli dovrebbe spettare all’organo che rappresenta l’interesse generale, alla Camera dei deputati, quindi e non al Senato delle Regioni (che chiamano ‘federale’ come se tale denominazione potesse spettare solo ad un organo della Repubblica e non alla Repubblica come tale). È improprio ed opposto alla sua ragion d’esser il compito di controllare la legislazione regionale valutarla secondo il parametro dell’interesse generale e, se lesiva di detto interesse, proporne l’annullamento.
Così come improprio ed inquietante è l’attribuzione alla Camera dei deputati del potere prevalente in materia di legislazione sui diritti, stante il rapporto di subordinazione istituzionalizzata, come vedremo, riservata a quest’organo dal progetto, potere prioritario che dovrebbe essere invece deferito al Senato perché, nel quadro, pur non condivisibile, che viene disegnato, darebbe maggiori garanzie, per essere eletto probabilmente col sistema proporzionale e non presentandosi come … emanazione sicura del Primo ministro.
Qualche considerazione sulla devolution. Due delle materie che si propone di attribuire alla competenza esclusiva delle Regioni sono quanto mai indicative di quella ideologia ispiratrice del ‘federalismo’ leghista cui ho fatto riferimento. Sono infatti materie che attengono a diritti sociali, quello all’istruzione, il più antico, e quello alla salute, quanto mai conseguente al diritto alla vita cui offre credibile concretezza. Per tutti e due questi diritti le prestazioni da offrire per assicurarne il godimento, non possono subire differenziazioni perché violerebbero il principio di eguaglianza e porrebbero in discussione la loro stessa effettività. Ne dovrebbe derivare in modo del tutto indiscutibile l’attrazione di queste due materie nell’area per la quale i principi generali che le regolano siano dettati da leggi del parlamento nazionale approvate in modo da offrire il massimo di credibilità garantista. Imporre invece l’attribuzione di queste materie alla legislazione esclusiva delle Regioni comporta la possibilità non astratta ma del tutto prevedibile di una differenziazione. Si configurerebbe una ipotesi di violazione certa anche del principio di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione, violazione, questa, che verrebbe a congiungersi all’articolo 3 come oggetto della furia devastante del processo eversivo in corso mediante l’uso illegale del potere legale di revisione. L’altra materia che si vuole attribuire alla competenza esclusiva delle Regioni è la polizia locale, espressione questa che in quanto non collegata a quella rurale, come nel testo abrogato dell’art. 117, e non definita lascia il dubbio che non si tratti di polizia amministrativa, ed induce a credere che si voglia sottrarre la materia ai principi generali legislativamente stabiliti dal legislatore nazionale, pur trattandosi di materia quanto mai rilevante ai fini della garanzia dei diritti di libertà e non solo.
Per fortuna sta emergendo, soprattutto per merito della Confindustria, ed è giusto dargliene atto, la questione del costo di tale sconvolgimento (ma vedi anche Sartori, Corriere della Sera, del 3 settembre) dell’ordinamento costituzionale. Non intendo quantificare oneri, né entrare nella polemica sul carattere aggiuntivo o meno di tali costi, pur essendo sicuro che non si potrà mai trattare di meri trasferimenti dallo stato alle amministrazioni e che le duplicazioni siano quanto di più certo si possa ipotizzare. Ma una domanda è quanto mai legittima, quella relativa ad una stima corretta della fattibilità finanziaria, amministrativa e sociale del ‘federalismo’ leghista. Da questa stima potrebbe benissimo risultare che i ceti agiati che vorrebbero legalmente (?) sottrarsi agli obblighi fiscali di solidarietà attraverso la realizzazione del ‘federalismo’ in versione ‘padana’, si vedrebbero caricati di imposte maggiorate rispetto a quelle da cui vorrebbero liberarsi. Non è detto che, a ben vedere, la devolution non si traduca in un boomerang per chi la vuole imporre! E non è neanche detto che non si debbano sfruttare l’avidità, l’egoismo, gli istinti umani più bassi, per arrestare la furia eversiva dei valori costituzionali, se non ora, ma cominciando da ora, nella campagna referendaria.
Qualche giudizio sul cosiddetto premierato. Elia ha definito ‘assoluto’ quello che ci vogliono imporre gli eversori della Costituzione repubblicana e della democrazia italiana. Tutti sanno che con quel nome si designa la versione concreta della forma di governo parlamentare funzionante in Inghilterra, il modo come quel sistema politico, con la specificità che si perpetua in quella realtà costituzionale da tre secoli, determina il funzionamento delle istituzioni, Parlamento, Governo, Corona. Ebbene, credo di poter affermare con serena convinzione che con la conformazione degli organi politici supremi e dei loro rapporti, come formulata nel testo del progetto in discussione, il premierato non abbia nulla a che fare. In quell’ordinamento il Premier, intanto detiene quei poteri che tanto eccitano le variegate pulsioni di tanti politologi e di qualche costituzionalista, in quanto è leader del partito di maggioranza. Il potere che esercita è di esclusiva derivazione parlamentare, egli lo esercita in quanto glielo conferisce il Parlamento e, per esso, la maggioranza, e, per questa, il partito di appartenenza dei deputati della maggioranza. Si è premier in quanto si è leader del partito che ha vinto le elezioni. Se il partito di maggioranza cambia il suo leader, non c’è spirito di bipartitismo, non c’è regola dell’alternanza, non c’è durata predeterminata del mandato popolare che lo possa trattenere un minuto solo nella carica di premier.
In Italia si è voluto mutuare questa specifica versione della forma parlamentare di governo. Ignorandone il presupposto che è il bipartitismo funzionale, funzionale perché alla resa dei conti, e forzando non poco qualche non trascurabile principio della democrazia, quel sistema politico funziona come se fosse composto da due soli partiti. La si è voluta mutuare, ignorando che il nostro sistema politico, la cultura politica del nostro Paese, la sensibilità italiana della cosa pubblica, insomma lo spirito del popolo italiano, bipartitico non è, non lo è mai stato e non lo diventerà certo per legge elettorale. Si può addirittura affermare che all’Italia il bipartitismo ripugna. Si è inventato allora quel che, in verità c’è sempre stato in Italia, il bipolarismo e lo si è caricato di un carattere e di una funzione che non gli è stata mai propria, quella di fungere da bipartitismo. Così, in una stagione di ubriacatura antipartitica ed antipolitica, lo si è voluto accoppiare ad un sistema maggioritario che mimasse tale forzoso bipartitismo, attraverso la coazione alle coalizioni. Coazione che ha costretto ad alleanze che, lungi dal formare coalizioni – che sono tali solo se si caratterizzano per comprovata contiguità o, almeno, non incompatibilità di cultura politica e per convergenza programmatica contrattata ed accertata – si caratterizzano per essere affastellamenti ibridi, tenuti insieme solo dall’obiettivo di acquisire il potere di governo senza disporre delle condizioni politiche per esercitarlo se non a costo di enormi forzature ad effetti distorsivi che pervadono l’intero ordinamento. Sono queste aggregazioni innaturali di scarsa o insincera consonanza politica e programmatica, tenute insieme da un’aspirazione al governo allo stadio primitivo di maturazione politica, che sollecitano l’incremento senza limiti del potere del capo dell’aggregazione, che vogliono, peraltro, denominare Primo ministro, ignorando, ad esempio che la denominazione di «governo del primo ministro» fu usata per definire la forma di governo che si ebbe in Italia del 1926 al 25 luglio 1943.
È per tenere ferme ed attive queste aggregazioni che si vogliono attribuire insieme poteri di presidente del consiglio e di capo dello stato al capo dell’aggregazione, poteri abnormi che in nessun ordinamento democratico sono disponibili per il titolare di un solo organo. È per perpetuare l’aggregazione che si comprime il ruolo del Parlamento, tramutandolo in organo esecutivo del Primo ministro, degli ordini che il Primo ministro vuole che siano assunti in forma legislativa. Lo si comprime trasformando l’elezione di un ramo del Parlamento, quello cui è affidato il compito di porre in essere gli atti di indirizzo politico, in elezione del Primo Ministro e dei suoi seguaci nella Camera del Parlamento destinata appunto a legiferare concretizzando l’indirizzo politico in atti, senza alcuna autonomia ma obbedendo agli ordini del Primo ministro, e negando normativamente ogni possibilità di influenza dell’opposizione sulla produzione legislativa. Non ci si rende conto che in tal modo gli atti normativi così prodotti perdono di autorità e di validità, rivelandosi per quelli che sono, volizioni di una sola parte politica, del titolare di un organo solo. Non si presentano, questi atti, come espressione della democrazia perché non ne hanno neanche più la parvenza, una volta che la rappresentanza risulta compressa, svuotata, convertita in obbedienza ad uno solo degli eletti in Parlamento. Ma lo svuotamento della rappresentanza comporta la sterilizzazione del diritto politico per eccellenza, il diritto di voto, oltre a quello ad essere rappresentato. Comporta anche altre ricadute egualmente catastrofiche. Si sa che ad attuare le norme costituzionali relative ai diritti di libertà e ai diritti civili provvedono le leggi, quegli atti la cui elaborazione ed approvazione spetta proprio alla rappresentanza raccolta nelle assemblee parlamentari. Non soltanto i diritti sociali, non soltanto i diritti politici, quindi, vengono colpiti dalla trasmutazione che si vuole perpetrare della Costituzione, ma anche i diritti di libertà, anche i diritti civili rischiano e molto. Sono i pilastri del costituzionalismo e dello stato di diritto e si vogliono demolire.
Questa enorme distorsione della forma parlamentare di governo non è certo nascosta, dal testo in discussione, è anzi esplicitata. E non soltanto dalla riduzione dell’elezione della Camera dei deputati a investitura diretta di un Primo ministro fornito del potere di governo, di quello amministrativo e di quello legislativo che svolgeranno i deputati di maggioranza per suo conto ed in esecuzione dei suoi comandi. La mozione di fiducia che era stata espunta per escludere anche formalmente la possibilità che i deputati di maggioranza possano illudersi che il potere al Primo ministro siano stati loro a conferirlo, sarebbe reintrodotta grazie ad un emendamento presentato dai capigruppo della maggioranza. Ma non sarà l’accoglimento, quasi sicuro di tale emendamento, che restaurerà la forma parlamentare di governo così devastata nel testo in discussione. Resta al Primo ministro il potere sostanziale di scioglimento della Camera dei deputati, quella cui è demandato il compito, su dettato dello stesso Primo ministro, di esercitare le funzioni di indirizzo politico con lo strumento legislativo. E non incontra alcun limite questo potere di scioglimento, può essere esercitato a sua discrezione, sempre. Infatti non si può, seriamente, ritenere che si attribuisca alla Camera dei deputati, cioè alla maggioranza espressa dalla elezione un reale contropotere nei confronti del suo Primo ministro prevedendo che possa approvare una mozione con l’indicazione di un nuovo Primo ministro. Non è neanche minimamente ipotizzabile che chi ha esercitato detta carica non disponga dell’appoggio di una frazione, anche minima di deputati che impedisca alla maggioranza espressa dalle elezione di sostituirlo negando il voto a detta mozione.
È interessante notare che ad impartire gli ordini alla maggioranza saranno i disegni di legge del governo, svincolati dall’autorizzazione alla presentazione da parte del Presidente della Repubblica. A richiamare all’ordine i deputati di maggioranza, lenti o riottosi, sarà la richiesta del governo del voto bloccato. Resta però ai deputati di maggioranza (ed in verità anche a quelli di opposizione se si associamo ad alcuni altri della maggioranza) un diritto, quello di votare, in qualunque momento, una mozione di sfiducia che, in caso di approvazione, determinerebbe lo scioglimento automatico della Camera. Ad essere riconosciuto alla maggioranza è dunque il diritto al suicidio (sempre con ‘effetti collaterali’ per l’opposizione). Un riconoscimento che sembra preconizzare, con l’approvazione di questa ‘riforma’, il suicidio del Parlamento.
Col priemerato, quindi, questa devastante manipolazione della forma di governo parlamentare in altra cosa non ha nulla a che fare. Non ha nulla a che fare con la democrazia. Credo che la si debba denominare per quello che è: una monocrazia. Quanto di più lontano possa esserci dalla teoria e dalla storia del costituzionalismo, quanto di più contrario alle conquiste di civiltà evocate da questa parola.